Il cardinale Kasper sulla modifica del Papa alla Preghiera per gli Ebrei: per un vero
dialogo è necessario il rispetto delle reciproche diversità religiose
Sta suscitando numerose reazioni la modifica della Preghiera per gli Ebrei nella Liturgia
del Venerdì Santo, voluta da Benedetto XVI in sostituzione del testo contenuto nel
Missale Romanum pubblicato nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII. Uno dei passaggi
della preghiera, accolta con sfavore da parte ebraica, riguarda il raggiungimento
della salvezza da parte di Israele, una salvezza che passa attraverso il riconoscimento
di Gesù Cristo come Salvatore di tutti gli uomini. Per un chiarimento a tale riguardo,
Giovanni Peduto si è rivolto al cardinale Walter Kasper, presidente
del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani nonché - in seno
allo stesso dicastero - presidente dell’apposita Commissione per i rapporti religiosi
con l’ebraismo:
R. -
La storia con gli Ebrei è complessa e difficile e perciò ci sono sempre sensibilità
particolari. La preghiera che esisteva nel rito straordinario era un po’ offensiva,
perché parlava della cecità. Il Santo Padre ha voluto togliere questo punto, ma ha
voluto anche sottolineare la differenza specifica che esiste tra noi e l’ebraismo.
In comune abbiamo molto: Abramo, i Padri, i Patriarchi, Mosé... anche Gesù era un
ebreo, anche sua Madre, Maria, era una donna ebrea. Abbiamo molto in comune, tuttavia
c’è una differenza specifica: Gesù è il Cristo, vuol dire il Messia, il Figlio di
Dio, e questa differenza non si può nascondere. Il Santo Padre ha voluto dire: sì,
Gesù Cristo è il Salvatore di tutti gli uomini, anche degli Ebrei. Questo dice nella
sua preghiera. E il Patto, l’Alleanza con il Popolo d’Israele è tuttora valida, perché
Gesù Cristo l’ha convalidata attraverso la sua morte. Ma se questa preghiera, ora,
parla della conversione degli ebrei, ciò non vuol dire che noi abbiamo l’intenzione
di fare “missione”: infatti, il Papa cita la Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani,
al capitolo 11, dove Paolo dice che “noi speriamo che, quando la plenitudine dei gentili
è entrata nella Chiesa, anche l’intero Israele si salverà”, e questa è una speranza
escatologica. Non significa che noi adesso faremo missione: noi dobbiamo dare testimonianza
della nostra fede, questo è chiaro. Ma io direi questo: in passato, spesso il linguaggio
era di disprezzo, come ha detto Jules Isaac, un ebreo famoso. Ora esiste un rispetto
nella diversità. Dobbiamo rispettare a vicenda la diversità che esiste fra noi. Ma
ora c’è rispetto, non più disprezzo.
D. - Eminenza,
da alcune comunità ebraiche questa modifica liturgica è stata considerata un ostacolo
al dialogo con la Chiesa. C’è realmente questo pericolo?
R.
- Un dialogo presuppone sempre che si rispetti la posizione e l’identità dell’altro.
Noi rispettiamo l’identità degli Ebrei; loro devono rispettare la nostra, che noi
non possiamo nascondere. Il dialogo si basa proprio su questa diversità: su ciò che
abbiamo in comune e sulle diversità. E io non vedo questo come un ostacolo, quanto
piuttosto come una sfida per un vero dialogo teologico.