"Não venho impor a fé, mas pedir a coragem de procurar a verdade": Papa no discurso
preparado para a visita à Universidade "La Sapienza". Texto integral original do discurso
Uma visita que de modo algum pretendia impor a fé - que só na liberdade pode ser
dada - mas sim convidar a razão a procurar a verdade: é nestes termos que o Papa,
no discurso que deveria pronunciar nesta quinta-feira, explica o sentido da sua visita,
entretanto anulada, à Universidade “La Sapienza”. O texto integral do discurso preparado
por Bento XVI foi divulgado nesta quarta-feira à tarde, na edição quotidiana do “L’Osservatore
Romano”, juntamente com a breve carta que o cardeal Tarcisio Bertone, Secretário de
Estado, dirigiu a Renato Guarini, Reitor deste ateneu romano, criado por Bonifácio
V, em 1303.
Eis o texto integral do discurso, na sua versão original italiana:
Magnifico
Rettore, Autorità politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari
giovani studenti!
È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità
della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico.
Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma,
facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel
tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era
alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo
Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità
accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca
tra le più prestigiose università del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con
simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta
arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono
mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo.
Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del
Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza
e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione
di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".
Mi è caro, in questa circostanza,
esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra
università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto
la domanda: Che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia
lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste
del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità.
Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio
come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un
tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che,
in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università,
la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà
da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare,
proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere.
Ritorno
alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università
della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse
due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna,
infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la
natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me
in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è
anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro,
ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola
"vescovo"–episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", già
nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli
è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi
cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione
del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente.
Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che
la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana
da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità
della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo;
le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente
su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è,
tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme
dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni
e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano
sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità,
è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.
Qui,
però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente
in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non
potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo
ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente
fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma
morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente
rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere
della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una
ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita,
essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio
di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una
tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate
argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa
affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione
nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno
della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione
a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza
dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare
come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.
Ritorniamo
alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente,
nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza
della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro
di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità:
in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.
Ma ora ci si
deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca
alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi
telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine
dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol
sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può
vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale.
Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone,
che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate
contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole
e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire
che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che,
però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca
del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi
e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via
d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia
della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice
e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più
grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro
non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza
del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare
l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come
parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la
conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana,
nel mondo cristiano, nascere l’università.
È necessario fare un ulteriore passo.
L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere,
del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non
è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del
Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato
una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi.
E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce
per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità
ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico:
Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è
questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa
la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è
rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.
Nella teologia medievale
c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta
relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di
fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione.
Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella
di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia,
il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata
nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione
e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre
più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra
sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente
appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella
Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che
è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà,
non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri
di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere
buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del
come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della
libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa
oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia
come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere,
un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta
costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla
partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole
in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole"
egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma
che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità"
(wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile
da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo
di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili
della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di
mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente
ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari
e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo
viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto
che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel
processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito
filosofico ed in quello politico.
Ma allora diventa inevitabile la domanda
di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla
"ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa
è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in
base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della
giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi
d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo
così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza
c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere
uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la
verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue
le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo
sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo
compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che
non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso
offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con
questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e
cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda
continuamente al di là di ogni singola risposta.
Teologia e filosofia formano
in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata
totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la
propria identità. È merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente
risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia
della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che
s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche,
in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato
la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde
alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità,
rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento
della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma
solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità
propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire
in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele
erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed
arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il
cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando,
dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta
"Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia,
divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della
fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che
ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia
potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia:
filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione".
"Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità.
La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà
e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la
sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di
conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo
mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre
di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione":
la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo
isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e
insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi
davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto
e donato all’umanità come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel
corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono
state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero
che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede
cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola
con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la
teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi
non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile.
È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto
una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice
per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano,
in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità
e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.
Ebbene,
finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire
la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono
dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto
in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate
sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della
materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando
lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di
comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo
una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il
riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere
grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta
nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama
della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo
– è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere,
si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo
che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva
dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista
della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi
più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo
messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più
o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa
sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza,
inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno
vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.
Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi
in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince
e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora
non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.
Con ciò
ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università?
Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che
può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa
e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere
desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi
alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere
le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo
come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.