2008-01-12 14:58:23

Il presidente Bush dal Kuwait elogia i progressi fatti in Iraq e ammonisce Iran e Siria a non sostenere i terroristi


Prosegue la missione diplomatica del presidente statunitense George W. Bush nei Paesi arabi. A Kuwait City, dove è giunto ieri, il capo della Casa Bianca ha incontrato il comandante delle operazioni militari in Iraq, il generale David Petraeus, e ha parlato della situazione nel Paese del Golfo puntando il dito contro Siria ed Iran. Il nostro servizio:RealAudioMP3


In Iraq sta tornando la speranza perché al Qaeda ha subito colpi duri in questi ultimi mesi. Il presidente Bush, incontrando i soldati americani, ha confermato la strategia statunitense, che, come previsto, mira a ritirare 20 mila uomini entro il prossimo mese di luglio. Dunque le cose vanno bene - secondo il presidente USA - e sarebbero numerosi i progressi fatti nell’ultimo anno, ma - afferma - non bisogna abbassare la guardia perchè c’è ancora tanto lavoro da fare. In questo quadro Bush ha spezzato una lancia a favore del governo di Baghdad, affermando che è quasi impossibile “passare all'istante dalla tirannia alla democrazia”. Oggi fra l’altro il parlamento iracheno ha approvato una misura molto attesa per la riconciliazione nazionale che prevede la riabilitazione degli ex membri del Baath, il partito di Saddam Hussein. Il Capo della Casa Bianca ha quindi sottolineato che un successo a lungo termine in Iraq è di vitale importanza per la stabilità in tutto il Medio Oriente. Per questo tutti i Paesi dell’area devono dare il proprio contributo. Senza mezzi termini il presidente si è rivolto alla Siria chiedendo a Damasco di bloccare il flusso di terroristi che seminano violenza in Iraq. Ancora più forte il monito all’Iran, che - afferma Bush - deve smetterla “di appoggiare le milizie irachene nei loro attacchi contro le truppe statunitensi e le forze governative locali”.

La visita di Bush in Terra Santa
Il presidente Bush è arrivato oggi in Bahrain e successivamente visiterà gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Tra i vari obiettivi della suo tour, quello di sollecitare ancora i Paesi arabi a sostenere i negoziati di pace fra israeliani e palestinesi. Un intento rilanciato con forza anche nei giorni scorsi durante la sua prima missione in Terra Santa. Ma come valutare proprio questa visita nei Territori e in Israele? Philippa Hitchen Lo ha chiesto all’arcivescovo emerito di Washington, cardinale Theodore Edgar McCarrick:RealAudioMP3


R. – I think it was a good visit...
Penso che sia stata una visita positiva e che alle persone che già avevano la speranza gliene abbia data ancora di più e a quelle che non ne avevano gliene abbia donata almeno un po’. E’ realista il presidente? Io spero di sì. Spero che, lavorando tutti insieme, riusciremo ad arrivare ad una soluzione. Non risolverà tutti i problemi che esistono. Per esempio, il problema di Gaza andrà avanti probabilmente ancora per un po’. Ma darà forse la sensazione alla gente che si sta concludendo un lavoro che è stato avviato da tempo e che talvolta non ha avuto sviluppi.

D. – Il presidente Bush ha parlato apertamente dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi. C’è un cambio di atteggiamento da parte americana che potrebbe insistere sull’abbandono dei territori da parte di Israele?

 
R. – I think it marks another stage...
Penso che sottolinei un altro stadio nel viaggio verso una duplice soluzione. Credo che il presidente non avrebbe usato questa espressione se gli avessero anticipato che avrebbe creato qualche perplessità in alcune zone di questa area. Penso tuttavia che mostri che egli sia più realista di quanto possiamo pensare, e che creda che, comunque si chiami la situazione che stiamo affrontando, ci deve essere una soluzione, e che questa soluzione debba avvenire il più presto possibile.

Raid turchi nel Kurdistan iracheno
Improvvisa escalation militare nel Kurdistan iracheno, dove l’esercito turco ha scatenato ieri una nuova offensiva nella provincia di Dahuk. Secondo Ankara, nel nord Iraq troverebbero riparo i guerriglieri curdi del PKK, responsabili di numerosi attentati in Turchia, l’ultimo contro la città turca di Diyarbakir, il 3 gennaio scorso, in cui sono morte sei persone. Dal mese di dicembre, inoltre, sembra essersi rafforzata la cooperazione tra Washington ed Ankara contro le basi del PKK nel Kurdistan iracheno. Quanto sono alti dunque i rischi che Ankara intensifichi le proprie operazioni militari nel nord dell’Iraq? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a Paolo Quercia, analista del Centro militare di studi strategici:RealAudioMP3


R. – Erdogan è più prudente rispetto ai militari e alla parte secolare nazionalistica in quanto la sua piattaforma di islam moderato lo porta a non enfatizzare l’elemento nazionalista od etnica e tenta, quindi, di ridurre l’effetto delle operazioni.

 
D. – E’ possibile che gli Stati Uniti abbiano cambiato la loro politica nei confronti della questione curda, lasciando così – tutto sommato – mano libera alla Turchia nell’Iraq settentrionale?

 
R. – Certo gli Stati Uniti hanno avuto questo problema: da un lato la Turchia come alleato strategico di lungo periodo degli americani, mentre i curdi del nord dell’Iraq come alleato tattico – di breve periodo – ma utile per evitare il deterioramene totale della situazione irachena. Il Kurdistan iracheno è infatti la parte più pacifica di tutto l’Iraq. Ovviamente gli americani hanno molta paura che queste operazioni della Turchia nell’Iraq settentrionale portino ad una destabilizzazione totale dell’Iraq in un momento in cui qualche passo avanti sulla stabilizzazione si inizia ad intravedere.

 
D. – A queste operazioni, secondo lei, potrebbero corrispondere dei prossimi attacchi in territorio curdo da parte del PKK?

 
R. – Questa è una domanda veramente difficile a cui rispondere. Bisognerebbe chiedersi perché il PKK ha rotto l’armistizio: se si è trattato di un fenomeno etnico la cui logica è tutta interna all’elemento curdo o se ci sono stati, invece, attori esterni che hanno agito sulle strutture del PKK per creare un problema geopolitico agli Stati Uniti d’America.

Campagna di Amnesty International per la chiusura di Guantanamo
A sei anni dall’apertura del carcere americano di Guantanamo a Cuba, Amnesty International rilancia la campagna per la chiusura del penitenziario e la fine delle detenzioni illegali nel contesto della “guerra al terrore”. Un documento firmato da oltre 1.200 parlamentari di tutto il mondo è stato presentato dall’organizzazione all'amministrazione statunitense, mentre a Washington la polizia ha fermato 81 persone che protestavano, nel corso di una manifestazione non autorizzata, davanti alla Corte Suprema contro il mantenimento del carcere. Paolo Ondarza ha intervistato Paolo Pobbiati, presidente di Amnesty International Italia:RealAudioMP3


R. – Il risultato più importante è stato quello di accrescere la sensibilità su quanto avviene in questo carcere. Oggi sono diverse le istituzioni internazionali che si sono mobilitate in molti governi che hanno chiesto o stanno chiedendo la chiusura di Guantanamo all’amministrazione statunitense. Bush si è pronunciato sulla chiusura di Guantanamo, ma purtroppo a queste affermazioni non è seguito alcun elemento concreto.

 
D. – Vogliamo ricordare cosa accade a Guantanamo?

 
R. – A Guantanamo sono oggi detenute circa 300 persone. La maggior parte di queste sono state arrestate in maniera assolutamente illegale ed una sola di loro è stata processata. Le 500 persone circa che sono state rilasciate in questi sei anni, sono state rilasciate senza che fosse emessa a loro addebito alcuna accusa, senza che venisse rilevata alcuna colpevolezza da parte loro. L’85 per cento delle persone che sono transitate per Guantanamo, addirittura, non sono state nemmeno ar-restate dagli americani, ma sono state arrestate da loro alleati o addirittura da bande di cacciatori di taglie che spesso in questa pesca a strascico hanno bloccato e fermato persone che avevano l’unico torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questa sorta di limbo giuridico in cui si trova Guantanamo, al di fuori delle tutele previste dalle Convenzioni di Ginevra e al di fuori anche delle tutele previste dalla legge americana, fa sì che queste persone abbiano anzitutto un limitatissimo accesso ai diritti fondamentali e, quindi, alla contestazione stessa della legittimità della propria detenzione e al diritto ad avere un processo. Ma l’utilizzo di pratiche che possono essere tranquillamente configurate come torture o come trattamenti inumani e degradanti, la volontà di annichilimento nei confronti di queste persone, sono poi quelle che noi abbiamo verificato anche attraverso tante testimonianze.

Opposizione in testa nelle elezioni a Taiwan
Urne chiuse questa mattina a Taiwan dove sedici milioni e mezzo di votanti si sono recati ai seggi per il rinnovo del Parlamento. In lizza 423 candidati di 12 partiti per i 113 posti di deputato al parlamento nazionale. Secondo quanto riferito dalla tv locale, il Partito Nazionalista d’opposizione è al momento in testa con 57 seggi conquistati, mentre i democratici progressisti sono indietro con soli 12 seggi, dei 69 finora scrutinati. Con questa tornata elettorale si apre un periodo cruciale per le relazioni tra Taiwa e la Repubblica Popolare cinese, che considera Taipei una sua provincia ribelle. Dopo aver rinnovato il Parlamento, gli elettori taiwanesi saranno chiamati, in marzo, ad eleggere un nuovo presidente.

Libano: ennesimo rinvio dell'elezione del nuovo presidente
L'elezione del nuovo presidente della Repubblica libanese è stata rinviata al 21 gennaio, per la dodicesima volta dal 25 settembre scorso. Le divergenze sulla composizione del nuovo governo hanno indotto il presidente dell'assemblea e capo dell’opposizione Nabih Berri a rinviare la sessione, nonostante gli sforzi del segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, di far accettare ai leader rivali il piano arabo per metter fine alla crisi che da mesi paralizza la vita istituzionale del Paese.

Pakistan: ‘no’ ad inchiesta ONU sull'omicidio di Benazir Bhutto
Il presidente pakistano Pervez Musharraf ha escluso la possibilità di un’inchiesta ONU sull’omicidio della leader dell’opposizione Benazir Bhutto, avvenuto il 27 dicembre scorso. A chiedere un intervento delle Nazioni Unite era stato il Partito popolare della Bhutto, mentre Musharraf ha ribadito che il Pakistan è in grado da solo di svolgere le indagini grazie anche all’aiuto della polizia londinese di Scotland Yard.

Colombia: Uribe rifiuta di mediare con le FARC
Il presidente colombiano Alvaro Uribe ha respinto la proposta del suo collega venezuelano, Hugo Chavez, di ritirare la definizione di ‘terroristi’ per i guerriglieri delle FARC al fine di risolvere il problema degli ostaggi attraverso il dialogo. Il governo colombiano proseguirà la “lotta fino a sconfiggere questi gruppi”, ha fatto sapere un portavoce di Uribe.
 
Kenya: appello dell'ONU per la ripresa delle trattative
In Kenia è necessario il dialogo per uscire dalla crisi che si è innescata dopo le contestate elezioni dello scorso dicembre. E’ il nuovo appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che si è rivolto al presidente Mwai Kibaki, accusato di estesi brogli, e il leader dell’opposizione Raila Odinga, ufficialmente sconfitto nella tornata elettorale. Anche gli Stati Uniti hanno esortato le parti a riprendere le trattative, definite “imperative”. In Kenya secondo stime Onu a due settimane dallo scoppio delle violenze il numero dei morti è arrivato a 500 persone, mentre 250 mila sono gli sfollati.

Darfur: l'UE invierà rinforzi
Francia, Belgio e Polonia invieranno aiuti militari in Africa. Le forze per il mantenimento della pace verranno impiegate nel Ciad orientale e nella Repubblica Centrale Africana, dove si trovano circa 234 mila rifugiati del Darfur e circa 200 mila sfollati interni. La Francia si è impegnata a fornire all’Eufor (forza di pace dell’UE) circa 1.300 uomini, che potranno diventare fino a 3.500 ed è pronta a schierare da subito sul terreno mezzi di trasporto, tra cui una decina di elicotteri e un aereo da trasporto.

Emergenza rifiuti in Italia
Prosegue l’emergenza rifiuti in Italia, con nuovi disordini a Cagliari davanti alla villa del presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, dove questa notte una folla si è radunata per protestare contro l’arrivo dei rifiuti dalla Campania. Dura la condanna da parte del premier Romano Prodi che ha difeso il senso di responsabilità e di solidarietà dimostrato da Soru nell’accogliere i rifiuti campani. Negli scontri anche il sagrato dalle Basilica di Nostra Signora di Bonaria è stato seriamente danneggiato, mentre oggi un'altra nave piena di rifiuti è partita da Napoli. Martedì prossimo la questione approderà al Parlamento europeo.


Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LII no. 12 

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