2008-01-12 14:42:39

Bush in Medio Oriente: duro monito a Siria e Iran


Prosegue la missione diplomatica del presidente statunitense George W. Bush nei Paesi arabi. A Kuwait City, dove è giunto ieri, il capo della Casa Bianca ha incontrato il comandante delle operazioni militari in Iraq, il generale David Petraeus, e ha parlato della situazione nel Paese del Golfo puntando il dito contro Siria ed Iran. Il nostro servizio:RealAudioMP3

 
In Iraq sta tornando la speranza perché al Qaeda ha subito colpi duri in questi ultimi mesi. Il presidente Bush, incontrando i soldati americani, ha confermato la strategia statunitense, che, come previsto, mira a ritirare 20 mila uomini entro il prossimo mese di luglio. Dunque le cose vanno bene - secondo il presidente USA - e sarebbero numerosi i progressi fatti nell’ultimo anno, ma - afferma - non bisogna abbassare la guardia perchè c’è ancora tanto lavoro da fare. In questo quadro Bush ha spezzato una lancia a favore del governo di Baghdad, affermando che è quasi impossibile “passare all'istante dalla tirannia alla democrazia”. Oggi fra l’altro il parlamento iracheno ha approvato una misura molto attesa per la riconciliazione nazionale che prevede la riabilitazione degli ex membri del Baath, il partito di Saddam Hussein. Il Capo della Casa Bianca ha quindi sottolineato che un successo a lungo termine in Iraq è di vitale importanza per la stabilità in tutto il Medio Oriente. Per questo tutti i Paesi dell’area devono dare il proprio contributo. Senza mezzi termini il presidente si è rivolto alla Siria chiedendo a Damasco di bloccare il flusso di terroristi che seminano violenza in Iraq. Ancora più forte il monito all’Iran, che - afferma Bush - deve smetterla “di appoggiare le milizie irachene nei loro attacchi contro le truppe statunitensi e le forze governative locali”.

Il presidente Bush è arrivato oggi in Bahrain e successivamente visiterà gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Tra i vari obiettivi della suo tour quello di sollecitare ancora i Paesi arabi a sostenere i negoziati di pace fra israeliani e palestinesi. Un intento rilanciato con forza anche nei giorni scorsi durante la sua prima missione in Terra Santa. Ma come valutare proprio questa visita nei Territori e in Israele? Philippa Hitchen Lo ha chiesto all’arcivescovo emerito di Washington, cardinale Theodore Edgar Mc Carrick:RealAudioMP3


R. – I think it was a good visit...
Penso che sia stata una visita positiva e che alle persone che già avevano la speranza gliene abbia data ancora di più e a quelle che non ne avevano gliene abbia donata almeno un po’. E’ realista il presidente? Io spero di sì. Spero che, lavorando tutti insieme, riusciremo ad arrivare ad una soluzione. Non risolverà tutti i problemi che esistono. Per esempio, il problema di Gaza andrà avanti probabilmente ancora per un po’. Ma darà forse la sensazione alla gente che si sta concludendo un lavoro che è stato avviato da tempo e che talvolta non ha avuto sviluppi.

 
D. – Il presidente Bush ha parlato apertamente dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi. C’è un cambio di atteggiamento da parte americana che potrebbe insistere sull’abbandono dei territori da parte di Israele?

R. – I think it marks another stage...
Penso che sottolinei un altro stadio nel viaggio verso una duplice soluzione. Credo che il presidente non avrebbe usato questa espressione se gli avessero anticipato che avrebbe creato qualche perplessità in alcune zone di questa area. Penso tuttavia che mostri che egli sia più realista di quanto possiamo pensare, e che creda che, comunque si chiami la situazione che stiamo affrontando, ci deve essere una soluzione, e che questa soluzione debba avvenire il più presto possibile.


Intanto c'è da registrare una improvvisa escalation militare nel Kurdistan iracheno, dove l’esercito turco ha scatenato ieri una nuova offensiva nella provincia di Dahuk. Secondo Ankara, nel nord Iraq troverebbero riparo i guerriglieri curdi del PKK, responsabili di numerosi attentati in Turchia, l’ultimo contro la città turca di Diyarbakir, il 3 gennaio scorso, in cui perirono sei persone. Dal mese di dicembre, inoltre, sembra essersi rafforzata la cooperazione tra Washington ed Ankara contro le basi del PKK nel Kurdistan iracheno. Quanto sono alti dunque i rischi che Ankara intensifichi le proprie operazioni militari nel nord dell’Iraq? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a Paolo Quercia, analista del Centro militare di studi strategici:RealAudioMP3


R. – Erdogan è più prudente rispetto ai militari e alla parte secolare nazionalistica in quanto la sua piattaforma di islam moderato lo porta a non enfatizzare l’elemento nazionalista od etnica e tenta, quindi, di ridurre l’effetto delle operazioni.

 
D. – E’ possibile che gli Stati Uniti abbiano cambiato la loro politica nei confronti della questione curda, lasciando così – tutto sommato – mano libera alla Turchia nell’Iraq settentrionale?

 
R. – Certo gli Stati Uniti hanno avuto questo problema: da un lato la Turchia come alleato strategico di lungo periodo degli americani, mentre i curdi del nord dell’Iraq come alleato tattico – di breve periodo – ma utile per evitare il deterioramene to-tale della situazione irachena. Il Kurdistan iracheno è infatti la parte più pacifica di tutto l’Iraq. Ovviamente gli americani hanno molta paura che queste operazioni della Turchia nell’Iraq settentrionale portino ad una destabilizzazione totale dell’Iraq in un momento in cui qualche passo avanti sulla stabilizzazione si inizia ad intravedere.

D. – A queste operazioni, secondo lei, potrebbero corrispondere dei prossimi attac-chi in territorio curdo da parte del PKK? E’ già successo?

 
R. – Questa è una domanda veramente difficile a cui rispondere. Bisognerebbe chiedersi perché il PKK ha rotto l’armistizio: se si è trattato di un fenomeno etnico la cui logica è tutta interna all’elemento curdo o se ci sono stati, invece, attori e-sterni che hanno agito sulle strutture del PKK per creare un problema geopolitico agli Stati Uniti d’America.

E mentre Bush è in Medio Oriente Amnesty International rilancia la campagna per la chiusura del carcere americano di Guantanamo a Cuba, a sei anni dalla sua istituzione. Amnesty International chiede la fine delle detenzioni illegali condotte dagli USA nel contesto della “guerra al terrore”. Un documento firmato da oltre 1.200 parlamentari di tutto il mondo è stato presentato dall’organizzazione all'amministrazione statunitense, mentre a Washington la polizia ha fermato 81 persone che protestavano, nel corso di una manifestazione non autorizzata, davanti alla Corte Suprema contro il mantenimento del carcere. Paolo Ondarza ha intervistato Paolo Pobbiati, presidente di Amnesty International Italia:RealAudioMP3


R. – Il risultato più importante è stato quello di accrescere la sensibilità su quanto avviene in questo carcere. Oggi sono diverse le istituzioni internazionali che si so-no mobilitate in molti governi che hanno chiesto o stanno chiedendo la chiusura di Guantanamo all’amministrazione statunitense. Bush si è pronunciato sulla chiusura di Guantanamo, ma purtroppo a queste affermazioni non è seguito alcun elemento concreto.

 
D. – Vogliamo ricordare cosa accade a Guantanamo?

R. – A Guantanamo sono oggi detenute circa 300 persone. La maggior parte di queste sono state arrestate in maniera assolutamente illegale ed una sola di loro è stata processata. Le 500 persone circa che sono state rilasciate in questi sei anni, sono state rilasciate senza che fosse emessa a loro addebito alcuna accusa, senza che venisse rilevate alcuna colpevolezza da parte loro. L’85 per cento delle perso-ne che sono transitate per Guantanamo, addirittura, non sono state nemmeno ar-restate dagli americani, ma sono state arrestate da loro alleati o addirittura da bande di cacciatori di taglie che spesso in questa pesca a strascico hanno bloccato e fermato persone che avevano l’unico torco di trovarsi nel posto sbagliato al mo-mento sbagliato. Questa sorta di limbo giuridico in cui si trova Guantanamo, al di fuori delle tutele previste dalle Convenzioni di Ginevra e al di fuori anche delle tu-tele previste dalla legge americana, fa sì che queste persone abbiano anzitutto un limitatissimo accesso ai diritti fondamentali e, quindi, alla contestazione stessa del-le legittimità della propria detenzione e al diritto ad avere un processo. Ma l’utilizzo di pratiche che possono essere tranquillamente configurate come torture o come trattamenti inumani e degradanti, la volontà di annichilimento nei confronti di que-ste persone, sono poi quelle che noi abbiamo verificato anche attraverso le tante testimonianze.







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