Intervista al Preposito generale dei Gesuiti padre Peter-Hans Kolvenbach alla vigilia
della 35^ Congregazione della Compagnia di Gesù
E’ tutto pronto per l’apertura, lunedì a Roma con una messa presso la Chiesa del Gesù,
della Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, la 35.ma dalla fondazione dell’Ordine
da parte di Sant’Ignazio di Loyola nel 1540. La concelebrazione, alla quale parteciperà
il padre Peter-Hans Kolvenbach, Superiore Generale dei Gesuiti, sarà presieduta dal
cardinale Franc Rodé, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata
e le Società di Vita Apostolica, che pronuncerà l’omelia. Al termine ci sarà la venerazione
delle spoglie di Sant’Ignazio di Loyola, conservate sotto l’altare sul lato destro
della chiesa e si procederà all’accensione della lampada che rimarrà accesa per tutto
il periodo della Congregazione. Altre lampade verranno accese nelle chiese dei Gesuiti
in tutto il mondo come testimonianza della preghiera continua per il successo della
Congregazione. Il servizio di Roberto Piermarini:
La Messa
sarà aperta a tutti coloro che si vogliono unire ai membri della Congregazione che
terrà la sua prima riunione già nel pomeriggio di lunedì prossimo, in forma privata,
nell’aula della Casa generalizia di Borgo Santo Spirito. Dopo l’elezione del nuovo
Superiore generale – che avverrà solo dopo un’attenta riflessione sulla situazione
della Chiesa nel mondo e della Compagnia di Gesù - si darà inizio alla seconda fase
per “discernere” le sfide apostoliche che attendono i Gesuiti negli anni a venire.
Il numero dei membri della Congregazione è di 226 in quanto il Padre Generale – che
l’ha convocata e la presiederà – ne è anch’egli membro e con diritto di voto. Il numero
degli elettori non comprende i tre membri ex officio e i cinque membri nominati dal
padre generale, perciò il numero di coloro che eleggeranno il nuovo Preposito generale
è 218. Padre Peter-Hans Kolvenbach infatti, attuale Preposito generale e 28.mo successore
di Sant’Ignazio, che si avvicina agli 80 anni ed è al timone della Compagnia da più
di 24 anni, dopo aver sentito l’opinione dei suoi consiglieri e con il beneplacito
del Santo Padre, presenterà alla Congregazione generale le sue dimissioni ma rimarrà
membro della Congregazione anche dopo l’elezione del suo successore. Fino al Padre
Arrupe, i Prepositi dei Gesuiti erano eletti a vita, ma quando il religioso spagnolo
negli anni ’80 presentò le dimissioni per l’età avanzata e la malattia, la Compagnia
di Gesù optò per un generalato senza limiti di età e di durata, ma con la possibilità
di presentare le dimissioni alla Congregazione generale, la sola abilitata ad accettarle,
con l’approvazione del Papa e quando le autorità designate dei Gesuiti la giudichino
opportuna. Tra l’altro la Santa Sede ha comunicato al padre Kolvenbach, che il 21
febbraio prossimo Benedetto XVI riceverà in udienza tutti i membri di questa 35.ma
Congregazione Generale.
Alla vigilia della 35.ma Congregazione generale,
“L’Osservatore Romano” e la nostra emittente hanno intervistato il padre Peter-Hans
Kolvenbach. L’intervista è stata curata da Roberto Piermarini:
1. D.
– Nella precedente Congregazione generale della Compagnia di Gesù svoltasi nel 1995,
lei definì una “scintilla” il legame stabilito tra fede e giustizia. Quale potrebbe
essere la “scintilla” per la Congregazione che si apre il 7 gennaio?
R.
– La “scintilla” della prossima Congregazione sarà necessariamente la scelta del nuovo
preposito generale. Scegliendo l’uno o l’altro fra le migliaia di gesuiti capaci di
diventarlo, la Compagnia dice ciò che si attende per il suo avvenire: un profeta o
un saggio, un innovatore o un moderatore, un contemplativo o un attivo, un uomo di
punta o un uomo di unione? In effetti, la Congregazione Generale comincia con una
valutazione della sua situazione presente, con un discernimento su ciò che nella Compagnia
è luce o piuttosto ombra nel suo servizio alla Chiesa e al mondo. È da questa valutazione
che deve scoccare la “scintilla”: ecco il gesuita di cui abbiamo bisogno per progredire
sulla via di Dio.
2. D. – Lo sviluppo dell’impegno
nel sociale ha caratterizzato la storia della Compagnia di Gesù dopo il Vaticano II.
Resta anche oggi una priorità?
R. – La priorità rimane,
ma più integrata nella missione complessiva della Compagnia di Gesù. Pastorale e sociale
non si contrappongono: è la fede che ci spinge, in nome del Signore, verso l’altro
che vive in una situazione di miseria e d’ingiustizia. Il Signore stesso si è fatto
prossimo dell’uomo mezzo morto che giaceva al bordo della strada, mettendo così in
pratica il comandamento sempre nuovo dell’amore. Se sono solo pochi i gesuiti che
svolgono la loro missione direttamente nel campo sociale, tutti i gesuiti sono chiamati
a vivere pienamente la dimensione sociale inevitabilmente presente in ogni lavoro
pastorale o educativo, nell’accompagnamento spirituale e in ogni forma di evangelizzazione.
Già per i primi gesuiti non era possibile chiamarsi “compagni di Gesù” senza essere
amici di questi compagni di Gesù che sono i poveri.
3.
D. – I gesuiti nel mondo si trovano a operare ed evangelizzare in contesti diversi.
Qual è il filo conduttore che li lega?
R. – Il gesuita
è essenzialmente un uomo in missione. Una missione che egli riceve dal Papa, dai suoi
superiori, ma in ultima analisi dal Signore Gesù, egli stesso inviato dal Padre. I
gesuiti desiderano continuare questa missione tra gli uomini e le donne del nostro
tempo, soprattutto dove c’è maggiore bisogno. Ciò comporta una presenza alle frontiere,
che una volta erano piuttosto frontiere geografiche della cristianità; oggi sono piuttosto
le frontiere tra Vangelo e cultura, tra fede cristiana e scienza, tra Chiesa e società,
tra la “buona notizia” e un mondo turbato e sconvolto. Secondo le esigenze di questa
missione vi sarà sempre una incredibile varietà di scelte e di opere apostoliche,
ma in tutte si troveranno riunite queste tre responsabilità: annunciare la parola
di Dio, condividere la vita di Cristo, testimoniare la carità che lo Spirito sollecita
e alimenta. E poi c’è una sorgente comune profonda della nostra spiritualità: questa
nasce dagli Esercizi spirituali di sant’Ignazio che ci portano – sia personalmente
sia nella formazione spirituale degli altri – a cercare e trovare la volontà di Dio
e i segni della sua presenza nelle situazioni concrete e varie della vita e della
storia.
4. D. – La Compagnia di Gesù ha una grande
tradizione nel campo dell’educazione. È così anche oggi? E come?
R.
– La rete delle istituzioni educative della Compagnia è tuttora così vasta che molti
pensano che l’ordine sia stato fondato per l’apostolato educativo. Ma non è così perché
la missione dei gesuiti è così ampia da non restringersi a un solo campo specifico,
pur importantissimo. Il primo collegio dei gesuiti, quello di Messina, fu fondato
otto anni dopo l’approvazione papale della Compagnia. Tuttavia Ignazio e i suoi compagni
si resero presto conto che per il fine apostolico che si proponevano l’educazione
della gioventù era un campo privilegiato. Questa attività raggiunse in seguito uno
sviluppo e un’importanza enormi. Attualmente circa quattromila gesuiti vi sono impegnati.
L’immagine elitaria attribuita alle scuole dei gesuiti ci ha portato a una revisione
e a un rinnovamento importante, cosicché numerosi istituti hanno aperto le loro porte
a studenti di gruppi sociali economicamente deboli. Ad esempio le scuole di Cristo
Re negli Stati Uniti, e quelle di Fe y Alegria in diverse parti del mondo, ma in particolare
in America latina, si sono distinte per una strategia creativa e innovatrice, che
facilita a giovani meno favoriti economicamente l’accesso a una formazione che arrivi
fino ai livelli universitari. Modificando una strategia che privilegiava la eccellenza
accademica, la Compagnia si è impegnata in programmi di educazione degli adulti, di
alfabetizzazione e di istruzione primaria. Fe y Alegria opera in sedici paesi dell’America
latina, in più di milleseicento località, con circa un milione e quattrocentomila
studenti.
5. D. – Il rapporto fra fede e ragione
è uno dei grandi temi di questo pontificato ed è decisivo per il ruolo delle religioni
nel mondo moderno. Come affrontano i gesuiti questo nodo?
R.
– I gesuiti hanno un campo privilegiato per impegnarsi nella ricerca di questa relazione:
le molte università di tutto il mondo, che necessariamente devono confrontarsi con
il dialogo fra fede e ragione. In altri tempi la teologia e la filosofia erano considerate
come scienze intimamente connesse ai valori umani. Oggi sono piuttosto le scienze
positive che si arrogano la trasmissione dei fini e dei valori della vita umana. Senza
porre ostacoli al rigore scientifico, un’università di ispirazione cristiana è chiamata
alla ricerca della verità nella sua totalità, e quindi a considerare l’alleanza tra
le scienze e la fede cristiana. Come diceva Blaise Pascal, “nell’uomo c’è qualcosa
che supera infinitamente l’uomo”: per dar senso alla vita umana non si può prescindere
da una fede trascendente. Dal Vangelo di Gesù riceviamo una luce e una certa comprensione
del mistero che inevitabilmente circonda la nostra esistenza. Fra il mistero e l’assurdo
noi optiamo per il mistero: un mistero non può essere dimostrato dalla ragione ma
è eminentemente ragionevole. Anche Giovanni Paolo II non accettò mai il principio
della divisione e della separazione fra la rivelazione e la ragione. Nell’impegno
intellettuale che deve caratterizzare l’università cristiana, i gesuiti del secolo
XXI vogliono quindi seguire il cammino tracciato da Benedetto XVI alla ricerca di
una fede che illumina e corona gli sforzi della ragione.
6.
D. – Alcuni teologi cattolici si lamentano per la scarsa autonomia che ha il loro
compito rispetto al magistero. Come vede questo rapporto?
R.
– Il teologo cattolico non si stupisce di non essere autonomo nella sua ricerca e
nel suo pensiero, perché neppure la Chiesa è autonoma nella sua fede. In alcuni testi
patristici la Chiesa è paragonata alla luna, perché tutta la luce di cui essa dispone
per rischiarare la nostra notte le viene dal sole. San Paolo lo diceva con altre parole,
sottolineando che egli trasmetteva ciò che a sua volta aveva ricevuto. Questa tradizione
della fede non condanna però affatto il teologo a ricopiare testualmente la dottrina
della Chiesa. La Chiesa attende dal teologo che egli trasmetta la fede come una risposta
viva e vitale agli uomini in cerca di Dio e alla ricerca delle soluzioni dei problemi
che la vita pone loro. Quando un teologo, in piena fedeltà al magistero, riesce a
illuminare in una maniera personale e creatrice le tenebre dei nostri dubbi e del
nostro avanzare a tastoni questo costituisce un vero dono dello Spirito. Già san Paolo
chiede alla Chiesa di assumere la fede in tutta la sua integrità, senza spegnere lo
spirito che anima il teologo.
7. D. – Quale futuro
vede per l’evangelizzazione della Cina e del mondo asiatico?
R.
– A parte l’urgenza missionaria dell’annuncio evangelico a un popolo così numeroso
e di cultura così avanzata come la Cina, i gesuiti non possono dimenticare la tradizione
della loro presenza in Cina fin dai primi tempi della Compagnia, a cominciare dal
sogno di san Francesco Saverio, per continuare con la meravigliosa attività apostolica
di Matteo Ricci e dei suoi compagni. Riuscirono a predicare Cristo con il linguaggio
della cultura e della mentalità cinese, superando i pregiudizi e i sentimenti di superiorità
europei. Questa tradizione ci spinge a non distogliere il nostro sguardo dal mondo
cinese. In realtà la Compagnia non ha mai rinunciato al desiderio di servire il popolo
cinese nelle sue aspirazioni spirituali, predicando il “maestro supremo” che i cinesi
intravvedevano nella nobile figura dei loro filosofi. Perciò, quando nel 1949 i gesuiti
furono espulsi dalla Cina, molti di loro rimasero in paesi vicini, aspettando una
buona occasione per tornare al loro posto. Non mancarono neppure giovani gesuiti che
si recarono in questi paesi limitrofi – Filippine, Taiwan, Hong Kong – e fecero il
colossale sforzo di apprendere la lingua cinese sognando il giorno in cui si sarebbero
riaperte le porte della Cina. Per la Compagnia di Gesù, a parte una presenza attuale
assai modesta, è ancora il tempo dell’attesa. Attesa che gli sforzi della Santa Sede
per riprendere le relazioni con la Cina ci permettano di tornare a una missione così
legata alla storia della Compagnia. 8. D. – La Compagnia di
Gesù è particolarmente attenta al dialogo tra le religioni. È possibile il dialogo
con l’islam?
R. – Perché un dialogo sia possibile
è necessario cominciare con un sincero rispetto mutuo che vada al di là della mera
cortesia. Senza questo non ci sarà dialogo, ma al più confronto. Un secondo passo
ci è stato indicato da Giovanni Paolo II quando parlava del “dialogo della vita”,
cioè condividere i desideri e i problemi di ogni comunità umana: i desideri di vivere
in pace, nella sicurezza, in un ambiente libero dall’inquinamento. In questa atmosfera
di condividere i desideri e cercare i rimedi può avvenire il secondo passo: un dialogo
religioso con scambio di esperienze spirituali e di pratiche religiose in cui si ritrovano
sentimenti religiosi genuini nonostante le ovvie divergenze. Infine c’è il dialogo
religioso fondato negli elementi teologici di ambedue le religioni. Naturalmente questo
è riservato ai teologi, che dovrebbero arrestarsi rispettosamente dinanzi a un problema
insolubile: la fede dei cristiani nella Santa Trinità non può ridursi alla formulazione
di un monoteismo puro come quello professato dall’islam. Quest’ultima difficoltà teologica
non dovrebbe però essere un ostacolo al dialogo della vita raccomandato dal Papa,
perché tanto i cristiani quanto i musulmani hanno un vero senso religioso della vita
e condividono la persuasione che “non di solo pane vive l’uomo”.
9.
D. – Quali ispirazioni ha preso dal suo compianto predecessore padre Pedro Arrupe
– di cui a novembre è stato ricordato il centenario della nascita – nel guidare in
quest’ultimo quarto di secolo la Compagnia di Gesù?
R.
– Da padre Arrupe abbiamo imparato un ritorno alle fonti nella luce del Concilio Vaticano
II. Se una famiglia religiosa è un dono dello Spirito, che cosa ha voluto dire il
Signore suscitando la Compagnia di Gesù? In un’epoca in cui la Chiesa era travagliata
dalla divisione dei cristiani, e rischiava di dimenticare che era stata fondata per
annunciare il Vangelo ai popoli, Sant’Ignazio e i suoi compagni sono stati chiamati
a continuare la missione di Cristo soprattutto là dove egli non è conosciuto o è poco
conosciuto. Dal Vaticano II padre Arrupe attingeva la forza per interrogare tutti
i suoi confratelli e tutte le loro attività per sapere se il loro impressionante lavoro
era veramente e chiaramente un continuare la missione di Cristo. Una missione che,
geograficamente parlando, non è affatto compiuta e che, al contrario, dev’essere ricominciata
nei Paesi di tradizione cristiana. Una missione, anche, che si colloca alle frontiere
tra fede e cultura moderna, fede e scienza, fede e giustizia sociale, dove bisogna
portare la presenza della Chiesa. Per poter compiere questo annuncio del Cristo, il
compagno di Gesù deve essere e vivere in funzione di questa missione. Già ai tempi
di Sant’Ignazio, ciò richiedeva una rottura con lo stile della vita monastica, e anche
oggi esige un’esistenza alimentata dalla contemplazione dei misteri della vita di
Cristo proprio mentre compie la sua missione, per conformarvi l’azione missionaria
di ogni giorno. Ecco quello che padre Arrupe, come un vero profeta del rinnovamento
conciliare, ha cercato di realizzare in una vita che rimane per noi fonte di ispirazione.
10.
D. – Quanto resta da fare oggi per realizzare nel concreto le indicazioni del Vaticano
II?
R. – Il compito di tradurre in pratica le linee
tracciate dal concilio Vaticano II non sarà mai compiuto. Bisogna riprenderlo continuamente
di nuovo, poiché non si tratta di modificare qui o là qualche pratica nella Chiesa,
ma di realizzare il nuovo convertendosi, cambiando il proprio cuore per lasciarsi
toccare dal cuore di Dio. Per esempio il riconoscimento del ruolo dei laici nella
Chiesa non si può limitare a designare qualche posto per loro nell’organigramma della
Chiesa, ma chiama i laici fedeli a Cristo ad assumersi la loro missione specifica
nella Chiesa e per la Chiesa nel mondo. Questa assunzione di responsabilità nella
comunione nello Spirito che è la Chiesa, esige una conversione del cuore. Concretamente,
i numerosi movimenti ecclesiali che sono frutto del concilio non richiedono ai loro
membri una semplice iscrizione, ma il dono di se stessi. Scegliendo di parlare dello
sviluppo postconciliare con l’espressione “ermeneutica della continuità”, Benedetto
XVI dice che il rinnovamento attingerà sempre nel passato della vita della Chiesa
con il suo Signore che fa sempre nuova ogni cosa. Noi non avremo mai l’ultima parola:
tocca a lui, che costruisce con noi una terra nuova e un cielo nuovo.
11.
D. – Dopo ventiquattro anni lei tornerà ad avere un superiore religioso: è il primo
generale dei gesuiti a cui questo avviene, se si eccettua padre Arrupe. Come si prepara
a questo cambiamento nella sua vita?
R. – Già san
Benedetto sapeva di dover essere in ascolto dei suoi confratelli, perché Dio poteva
parlargli attraverso la bocca del monaco più giovane. Dopo quasi venticinque anni
di ascolto di circa ventimila gesuiti, l’obbedienza a uno solo dovrebbe essere piuttosto
un tempo di pace. Almeno, io spero di non essere per lui un peso da portare o sopportare
…
Della presente intervista, sono disponibili in voce le risposte: 1, 8,
9 e 11.