Kenya: l’opposizione rinvia la manifestazione di protesta
In Kenya, è stata rinviata al prossimo 8 gennaio la manifestazione indetta dal leader
dell’opposizione, Raila Odinga, e non autorizzata dal governo contro la rielezione
di Mwai Kibaki alla presidenza. Sembra imminente, poi, una verifica dell’esito delle
elezioni. Nonostante questi spiragli, si sono comunque registrati scontri anche oggi
tra polizia e sostenitori dell’opposizione. Sono morte almeno 4 persone ed è così
salito ad almeno 340 il bilancio delle vittime. In questo difficile scenario proseguono,
inoltre, gli sforzi della diplomazia internazionale e dei leader religiosi: tra questi,
il premio Nobel per la Pace, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, ha avuto una serie
di incontri per promuovere la riconciliazione tra opposte fazioni. Il servizio di
Amedeo Lomonaco:
La parola
d’ordine è fermare le violenze prima che in Kenya possa materializzarsi lo spettro
del genocidio in Rwanda o possano ripetersi gli orrori che hanno sconvolto Somalia
e Sierra Leone. E’ sempre più precario, infatti, l’equilibrio della convivenza delle
varie etnie che, dall’indipendenza del 1963, ha permesso al Kenya di superare risentimenti
e rivalità antiche diventando uno dei Paesi più stabili d’Africa. La speranza è riposta
nel dialogo e per questo i vescovi del Kenya lanciano un appello alla riconciliazione
chiedendo anche l’invio di cibo, acqua e medicine per gli sfollati, più di centomila
per la Croce Rossa. Sono poi decine di migliaia le persone senza cibo e senza medicine
che sopravvivono barricate nelle chiese. Negli occhi di molti ci sono ferite laceranti,
come quelle provocate dalle immagini strazianti della chiesa pentecostale di Eldoret,
dove sono morte tra le fiamme cinquanta persone.
I
mezzi di informazione parlano di “collasso politico” e dello scontro tra due etnie:
i Kikuyo, che da sempre hanno avuto un proprio rappresentante come presidente e i
Luo, quasi sempre esclusi dal potere ed appartenenti, in prevalenza, alle classi medie
e povere del Paese. Sul piano politico, poi, la riconferma come capo di Stato di Mwai
Kibaki, di etnia Kikuyo, è stata aspramente contestata dall’opposizione guidata da
Raila Odinga, di etnia Luo. Il margine tra i due candidati, che si scambiano reciproche
accuse di genocidio, è di appena 230.000 voti. Il procuratore generale ha chiesto
un’indagine indipendente sugli scrutini che hanno portato alla proclamazione di Kibaki
come presidente. L’opposizione ha denunciato brogli e irregolarità. Ma a divampare,
secondo molti analisti, non è l’odio tribale.
Per
il missionario comboniano, padre Alex Zanotelli, quello che viene definito scontro
etnico è in realtà il riflesso di una iniqua distribuzione delle risorse: l’altra
grande violenza – sostiene il missionario – è quella “di un sistema politico-economico
che costringe una larga fetta di popolazione a vivere al di sotto della soglia di
povertà”. Il dieci per cento dei più ricchi può disporre invece di oltre il 40 per
cento delle risorse. I missionari comboniani, che ben conoscono la realtà del Kenya,
sottolineano che non sono più sostenibili queste contraddizioni emerse in seguito
ad una crescita della divaricazione economica fra zone, ormai assuefatte ai benefici
consolidati dai flussi turistici, ed altre sempre al limite della sussistenza. Diventa
quindi prioritario evitare che l’appartenenza etnica sia usata come pretesto
e copertura per interessi politici: quello che occorre – avvertono gli analisti
- è una politica capace di contrastare il flagello della povertà che affligge
metà della popolazione.
Sulla situazione in Kenya, Giancarlo La Vella
ha raccolto telefonicamente a Nairobi la testimonianza del missionario comboniano,
padre Luigi Coppi, della rivista New People:
R. - C’è
meno violenza, però nessuno dei due vuole cedere. E’ arrivato l’arcivescovo Tutu dal
Sudafrica, ha avuto una serie di incontri, ma non sembra abbia ottenuto risultati
incoraggianti. Il leader dell'opposizione ha detto: ‘se mi chiedete di cedere, la
risposta è no’.
D. - Chi potrebbe fare da mediatore?
R.
- Alcuni, che sono dalla parte dell’opposizione, chiedono l’aiuto internazionale.
Il governo dice che non ne ha bisogno.
D. - Lei pensa sia una situazione
che potrebbe risolversi in qualche modo in tempi più o meno brevi?
R.
- Brevi non saprei, comunque si deve risolvere. Però è difficile vedere il finale
di questa storia perché il presidente non si è più visto, né lui, né i suoi portavoce.
Hanno fatto silenzio per tutto il giorno, per cui non si sa che reazione ci sarà.
D.
- La popolazione come sta vivendo questo stato di tensione?
R.
- La popolazione è un po’ stanca perché da una settimana sono chiusi i negozi, mancano
i viveri, la benzina, i telefoni non funzionano. La gente vorrebbe vedere la fine
di questa confusione; sembra che la maggioranza sia in favore dell’opposizione.
La
preoccupazione della Chiesa per la drammatica situazione viene confermata anche dal
nunzio apostolico in Kenya, l’arcivescovo Alain Paul Lebeaupin, raggiunto telefonicamente
a Nairobi da Laure Stephan della nostra redazione francese.
R. – La
preoccupazione è di andare per questo cammino e ristabilire una convivenza tra le
comunità etniche che vivono in Kenya e trovare le condizioni di una riconciliazione
futura. Ovviamente, però, la Chiesa è molto preoccupata per le condizioni delle persone,
in particolare per quelle che si trovano nell'ovest del Paese. In alcune diocesi sono
2 o 3 mila le persone che arrivano nelle missioni. I vescovi, dunque, hanno deciso
di lanciare un appello alla solidarietà. Gli sfollati non solo hanno abbandonato le
loro case, ma hanno perso tutto.
D. – Che cosa si
sa mons. Lebeaupin dell’identità delle persone che hanno commesso le violenze?
R.
– La cosa preoccupante, e che preoccupa anche la Chiesa, è che spesso tutto questo
è compiuto dai giovani. Nairobi, dove abbiamo le più grandi baraccopoli di tutta l’Africa,
è pieno di giovani. Sono giovani disoccupati e molti di essi non hanno un’educazione.
C’è un problema a lunga scadenza con cui la società del Kenya dovrà confrontarsi.
Questi giovani sono spesso persone che sentono di non avere un futuro nella loro vita.
E’ un problema, dunque, anche sociale, che credo stia dietro alle violenze di questi
giorni.