Con la “Spe salvi”, il Papa chiede a i cristiani di non ripiegarsi su se stessi,
ma di testimoniare a tutti la speranza evangelica: la riflessione dello storico Agostino
Giovagnoli
“Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza,
senza la grande speranza che sorregge tutta la vita”. E’ uno dei passaggi forti della
“Spe salvi” di Benedetto XVI. Un’Enciclica nella quale il Papa offre anche una disamina
storica della trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno. Una
scelta coraggiosa e controcorrente, come sottolinea lo storico dell’Università “Cattolica”
di Milano, Agostino Giovagnoli, intervistato da Alessandro Gisotti:
R. –
Oggi non viviamo in tempi in cui la speranza va di moda, se così posso dire. Anzi:
è diffuso un senso di scetticismo, di rassegnazione, addirittura di rifiuto della
stessa categoria della speranza intesa come sguardo rivolto al futuro e orientamento
di ciò che facciamo, di ciò che viviamo verso un futuro più impegnativo, più bello,
più esauriente. Dunque, rilanciare questo tema significa andare controcorrente e porre
un problema molto importante per i cristiani, ma anche molto importante per la società
in cui viviamo.
D. – Una parte della “Spe salvi”
è dedicata alla natura della speranza cristiana, che non è mai individualistica ma
è sempre “anche per gli altri”, dice Benedetto XVI. Il Papa esprime inoltre la necessità
di un’autocritica da parte dei cristiani ...
R. –
Benedetto XVI si rifà, tra l’altro anche in modo esplicito, ad una critica che ha
preceduto il Concilio. La critica fatta appunto ai cristiani, di essersi ripiegati
su una dimensione puramente individualista, quella appunto della salvezza della propria
anima, intesa però come salvezza del singolo a prescindere dai problemi degli altri
e da una solidarietà più ampia. Ecco: questa critica, in qualche modo, il Papa ci
dice che è giusta, perché è vero che i cristiani si sono ripiegati su questa dimensione;
per questo, parla di un’autocritica che certamente è sempre una parola forte, molto
significativa. Il Papa inserisce questo ripiegamento, contro cui egli si schiera con
tutta l’Enciclica, dentro un contesto più ampio che fa emergere come le responsabilità
non siano solo dei cristiani. In questo senso, l’autocritica non è solo loro ma dev’essere
anche più ampia, di una società europea che in epoca moderna e contemporanea ha spinto
la fede – diciamo così – verso questo ripiegamento individualista.
D.
– Si è detto: una Enciclica euro-centrica, però poi il Papa cita come testimoni della
speranza una sudanese e due vietnamiti ...
R. – Certamente
questi sono elementi di contraddizione rispetto a questo giudizio sbrigativo. Più
che euro-centrica, direi, è una riflessione saldamente radicata nel pensiero europeo.
Questo è indubbiamente vero: c’è questo forte riferimento al pensiero europeo e anche
alle esperienze politiche europee, dalla Rivoluzione francese al comunismo. In questo
senso è certamente un’Enciclica che porta l’impronta di un intellettuale europeo,
che ha vissuto l’esperienza dell’Europa e in particolare quella dell’ultimo secolo.
Ma, come lei faceva giustamente osservare, ci sono questi riferimenti extra-europei
che sono particolarmente significativi perché la speranza cristiana, naturalmente,
non è una speranza “continentale”: è per sua natura universale, “cattolica”. Il Papa
cita un bellissimo libro del padre de Lubac del 1937, che si intitola appunto: “Cattolicismo”,
e che vuole, nel piccolo, richiamare la universalità della salvezza e, se vogliamo,
il carattere comunitario della fede su cui appunto il Papa insiste molto nel suo testo.