IRAQ Cristiani vivono nella paura, ma animati da solidarietà ecumenica, dice mons.
Sleiman
FRIBURGO, 6 nov 07 - Dei 700mila cristiani che vivevano in Iraq prima dell’arrivo
degli americani, nel marzo 2003, circa la metà si sono rifugiati nei pressi di Mossul,
nel Kurdistan iracheno, o hanno cercato riparo in Giordania, in Siria o nel Libano.
In alcuni quartieri di Baghdad, così come a Bassora e a Mossul, quelli che rimasti
vivono nel terrore quotidiano. Sono dati forniti in un’intervista rilasciata all’agenzia
Apic da mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad che evidenzia tuttavia
un ecumenismo vissuto tra i fedeli di tutte le confessioni cristiane. Nel quartiere
cristiano di Baghdad, racconta il presule, non si può più circolare liberamente per
i continui rapimenti e attentati. Le chiese caldee sono state chiuse e in alcune località
i fondamentalisti hanno tolto le croci dagli edifici di culto. A Bassora i cristiani
sono pochissimi e nella città non c’è più un vescovo, mentre i cristiani di Dora,
quartiere misto con prevalenza sunnita di Baghdad, hanno dovuto lasciare le loro case
senza poter portare nulla; le chiese sono chiuse e il seminario e le chiese assire
sono state evacuate. Chi può va via, ma non tutti riescono a partire e altri sono
troppo poveri per farlo. “Credo tuttavia che non si comprenderà nulla se si ignora
che per i musulmani l’elemento politico è un fondamento della religione – sostiene
mons. Sleiman. La questione della laicità è occidentale, non fa parte della visione
della maggioranza dei musulmani”. Della nuova costituzione irachena, il presule dice
che si tratta di qualcosa di nuovo per un Paese arabo, se si eccettua il Libano. “Si
parla di libertà di coscienza e questa è una bella apertura – prosegue mons. Sleiman
– ma tutto questo edificio è stato decapitato dall’articolo 2, che dice che ogni legge
che contraddice la Sharia è nulla. Questo vuol dire che i cristiani sono nuovamente
sottomessi ad uno statuto di ‘protetti’. “Personalmente mi auguro un Iraq unificato,
dove i diritti degli uomini possano essere la carta fondamentale – conclude mons.
Sleiman – si devono difendere i diritti della persona, ma non bisogna dimenticare
che l’Iraq è strutturato antropologicamente in una forma tribale e questa è una grossa
difficoltà per i diritti dell’uomo, perché questi ultimi presuppongono un uomo libero.
Nella società irachena la comunità prevale sull’individuo e lo protegge. La contropartita
è che l’individuo sia leale verso la tribù”. (Apic – CAMPISI)