E' morta Giovanna Reggiani, la donna aggredita martedì a Roma
Profondo cordoglio è stato espresso dal mondo politico e militare e dalla stessa comunità
romena per la morte di Giovanna Reggiani, aggredita martedì scorso a Tor di Quinto
a Roma, da un romeno. La donna, 47 anni, è morta ieri sera presso l'Ospedale Sant'Andrea
della capitale. Il premier Prodi, in un telegramma inviato al capitano di vascello
Giovanni Gumiero, marito della donna, ha espresso la vicinanza e l’abbraccio dei
cittadini italiani. E mentre nel carcere di Regina Coeli è iniziato l’interrogatorio
del presunto omicida, Nicolae Romulus Mailat, le Forze dell'ordine stanno sgomberando,
prima di abbatterle, le baracche del campo nomadi in cui la donna è stata aggredita.
Intanto c’è chi invoca il “pugno duro” a fronte dei dati del Viminale che collocano
i romeni, tra gli stranieri, in cima alle statistiche per reati di omicidio. Massimiliano
Menichetti ne ha parlato con Paolo Ciani responsabile per i servizi con
i Rom e i Sinti della Comunità di Sant’Egidio.
R. -
E’ un problema che esiste, però non va criminalizzata un’intera comunità. Io le faccio
l’esempio di Roma. A Roma c’è la più grande comunità di immigrati romeni, circa 70
mila immigrati. Dall’inizio dell’anno, sono stati arrestati 5 mila romeni. E’ chiaro:
è un numero molto alto, ma non si possono criminalizzare 70 mila persone per 5 mila
delinquenti.
D. – L’immigrazione in Italia ha molti
volti. Quello mostrato in questi giorni è fatta di baracche e campi abusivi, di situazioni-limite:
da una parte, povera gente che cerca un futuro, dall’altra sacche di delinquenza.
Come si scioglie questo nodo?
R. – Si scioglie sicuramente
arrestando i delinquenti, quindi sicuramente non lasciando che esistano pezzi di città
abbandonati a se stessi. Perché il problema è che molti di questi luoghi non incontrano
in nessun modo le istituzioni, siano esse gli assistenti sociali o la polizia o i
vigili urbani. E’ chiaro che una maggiore presenza delle istituzioni anche in luoghi
della città che sembrano abbandonati, aiutano a distinguere i cattivi dai buoni. Non
va criminalizzato il povero, non va criminalizzato chi vive in baracca. Va colpito
e va colpito anche duramente chi all’interno di questa emarginazione commette dei
crimini.
D. – Integrazione vuol dire anche non lasciare
che la gente viva in baracche come quelle che si stanno vedendo in questi giorni nei
telegiornali …
R. – Questo è sicuro! Guardi, all’inizio
degli anni Settanta, Roma aveva 60 mila baraccati, e non erano certo cittadini immigrati:
né extracomunitari, né comunitari, ma erano in larga parte cittadini italiani. E’
chiaro che negli anni Settanta c’era l’idea che chi viveva in baracca aveva il diritto,
prima o poi, di accedere ad una casa. Ora sembra che vivere in baracca costituisca
di per sé un crimine, e non parliamo certo di due numeri. Il problema è pensare delle
soluzioni possibili – per esempio – per l’accesso alla casa, l’accesso a centri di
accoglienza. Lasciare la gente in baracca pensando che tanto prima o poi andrà espulsa,
“tanto prima o poi abbatteremo le baraccopoli”, non è una soluzione. E questo, in
questi anni in Italia l’abbiamo visto!