L’incessante violenza che percorre tutto l’Iraq costringe migliaia di persone ogni
mese a fuggire dalle proprie case, aggravando ulteriormente una già drammatica crisi
umanitaria. In base alle stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(ACNUR), sono quasi 2 milioni gli sfollati all’interno dell’Iraq e altrettanti i rifugiati
iracheni nei Paesi limitrofi, soprattutto in Siria e Giordania. Un’altra importante
realtà è quella dei cristiani iracheni riparati in Libano: dove ormai da anni - tra
tante difficoltà - sono accolte intere famiglie in fuga dal Paese del Golfo. Ce ne
parla Raymond El-Hachem, segretario generale del servizio migranti di Caritas
Libano, intervistato da Giada Aquilino:
R. –
Sono almeno un migliaio le famiglie di iracheni cristiani in Libano e queste famiglie
sono composte quasi tutte da sei-sette persone. I cristiani iracheni venuti in Libano
possono essere distinti in tre categorie. La prima è composta da medici, ingegneri,
professori entrati in Libano con visti normali e senza alcun problema. La seconda
categoria è composta da persone appartenenti ad un ceto medio, entrate in Libano legalmente,
credendo di poter trovare qui un lavoro: ma una volta arrivate, hanno il problema
di non poter ottenere permessi di lavoro, né di soggiorno. In Libano infatti ci sono
disposizioni legali in base alle quali non vengono concessi tali tipi di permessi
agli iracheni. Questa seconda categoria si trova, quindi, a vivere nella miseria proprio
perché non riesce a trovare un impiego. C’è, infine, la terza categoria che è caratterizzata
da immigrati clandestini, che arrivano in Libano attraverso una mafia, per metà locale
e per metà siriana. Si tratta di persone che pagano molto per poter entrare nel Paese
ed una volta che sono qui non hanno alcuna possibilità di lavorare. Sono costrette,
praticamente, a vivere una vita da vagabondi.
D.
– Che tipo di assistenza ricevono?
R. – La prima
organizzazione che si occupa di questa gente è il servizio migranti della Caritas
Libano. Poi c’è l’episcopato dei caldei cattolici, ma anche la comunità siriaco-ortodossa.
E infine ci sono le Nazioni Unite. Devo però dire che gli aiuti di tali realtà sono
comunque non sufficienti, non bastano. Ci sono degli iracheni che lavorano per 8 euro
la settimana o per 50 euro al mese.
D. – Cosa raccontano
della loro vita in Iraq?
R. – Sono stati obbligati
a lasciare il loro Paese, perché come cristiani sono continuamente minacciati da qualche
gruppo ed è sempre più frequente la possibilità che un cristiano iracheno possa essere
sequestrato a scopo di riscatto. E poi ci sono anche episodi di cristiani che vengono
ammazzati. Vivono quindi nella paura e lasciano per questo motivo le loro case, il
loro Paese, anche sapendo che poi potranno trovare nuovi problemi in Libano.
D.
– Quale futuro aspetta loro in Libano?
R. – Non è
facile dirlo, tanto più che in Libano c’è crisi politica per le elezioni presidenziali
e viviamo nella paura di una nuova eventuale guerra. Ma, forse, in futuro ci sarà
la possibilità di risolvere l’emergenza degli iracheni.
D.
– La speranza qual è?
R. – Pregare ed aspettare quello
che il Signore vuole e decide per noi.