Myanmar: sciopero generale contro il regime militare
Ancora difficile la situazione in Myanmar. Dopo l’appello di Benedetto XVI, che ieri
all’Angelus domenicale, ha espresso preoccupazione per la situazione nell’ex Birmania,
assicurando la propria vicinanza alla popolazione locale, stamani è giunta la notizia
del rinvio a domani dell’incontro tra l’inviato dell’ONU nel Paese asiatico, Ibrahim
Gambari, ed il leader birmano, il generale Than Shwe. Obiettivo dell’incontro è quello
di chiedere la fine della repressione delle manifestazioni pacifiche che da due settimane
vedono scendere in piazza contro il governo migliaia di monaci buddisti e civili.
Ieri Gambari ha incontrato la leader dell’opposizione, Aug San Suu Kyi. L'opposizione,
tra l'altro ha proclamato lo sciopero generale contro il regime. Intanto, oggi le
Chiese cattoliche e protestanti del Myanmar hanno rivolto un appello congiunto al
leader della giunta per trovare una soluzione politica alla crisi. Il servizio di
Giancarlo La Vella:
L’appello,
datato 28 settembre, ricorda che i fedeli delle due confessioni si sono unite in preghiera
per “la pace nel Paese” e che tutte le Chiese cristiane possono contribuire a questo
obiettivo. Il messaggio, rivolgendosi direttamente al generale Shwe, esorta poi il
leader ad affrontare la crisi per trovare una soluzione pacifica, affinché in Myanmar
ci sia stabilità, pace e non violenza, secondo il desiderio della popolazione. “Tutti
noi – si legge ancora nel messaggio – siamo molto preoccupati per l’attuale situazione
e per le agitazioni in corso nel Paese”. Intanto, i 600 mila cattolici dell’ex Birmania
continuano a pregare nelle Chiese “per il bene della nazione” e alcuni di loro, soprattutto
studenti e universitari, hanno sfilato al fianco di monaci e manifestanti, secondo
quanto riferito dall’agenzia “Asianews”. Tuttavia, le notizie frammentarie e le testimonianze
che arrivano dal Myanmar non sono rassicuranti: si parla di rastrellamenti, controlli,
perquisizioni ed esecuzioni nei monasteri buddisti. Sarebbero decine le vittime, e
centinaia gli arrestati tra monaci e civili.
Ma, a questo punto, quale
potrebbe essere il modo per dialogare con Yangon e rompere l’atteggiamento di chiusura
del regime militare? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Francesca Marino,
direttore dell’agenzia Stringer Asia:
R.
- A livello di pressione internazionale non vedo moltissime vie; probabilmente la
chiave è quella economica ed è in mano, più che alla comunità internazionale, alla
Cina che è il primo partner commerciale della Birmania.
D.
- A proposito dell’atteggiamento cinese, la Cina pur non aderendo alle sanzioni contro
il governo birmano, però ha fatto quasi capire che propenderebbe per un cambiamento
dell’atteggiamento?
R. - La Cina effettivamente,
da qualche mese, ha un atteggiamento un po’ ambivalente, ufficialmente no, nel senso
che questa cosa è stata smentita più volte dal governo cinese. Nei mesi scorsi, però,
negli ambienti dell’opposizione birmana circolava voce - e molti portavoce di organizzazioni
hanno dichiarato di essere stati contattati da funzionari di Pechino e di aver partecipato
a incontri - che non era stato ottenuto nulla in termini concreti se non una generica
dichiarazione di solidarietà. Tradotto in linguaggio concreto - e per gli standard
cinesi è già moltissimo - probabilmente le voci che la Cina vedrebbe bene un cambiamento
al vertice birmano non sono infondate.