Myanmar: prosegue la protesta. Sale il numero delle vittime. Domani nel Paese l'inviato
dell'ONU
Il Myanmar senza tregua. Proseguono ancora oggi le proteste contro la giunta militare
che fatica a tenere sotto controllo i dimostranti. Incerto il numero delle vittime
della violenza, secondo alcune fonti sarebbero 15 ma per altre è una stima che andrebbe
raddoppiata. Chiarimenti sono stati chiesti dal Giappone per l’uccisione a distanza
ravvicinata di un reporter. Domani è atteso nel Paese l’inviato dell’ONU, Ibrahim
Gambari, mentre il Consiglio per i Diritti Umani ha deciso per martedì una riunione
straordinaria sulla difficile situazione in Myanmar. Il servizio di Benedetta Capelli:
Yangon
è una città in assetto di guerra: negozi, scuole e uffici chiusi, filo spinato intorno
alla pagoda di Sule e militari a presiedere i punti nevralgici della capitale. Non
c’è coprifuoco che tenga per i manifestanti. Circa diecimila oggi sono scesi in strada
a gridare gli slogan contro l’esercito. Non si hanno notizie di vittime ma si sono
uditi spari ed i soldati hanno effettuato diverse cariche. I militari, secondo un
sito di esuli birmani, sarebbero divisi. Alcuni non avrebbero obbedito all’ordine
di sparare sulla folla e per questo il comandante delle forze di Yangon sarebbe stato
arrestato ma è una voce non confermata. Altre fonti, inoltre, riportano la notizia
di movimenti dell’esercito: aerei in volo dalla base aerea di Matehtilar e truppe
che dal centro del Paese si starebbero spostando verso la capitale. Continuano comunque
i raid nei monasteri buddisti: 4 religiosi sono stati arrestati. Il Giappone ha chiesto
chiarimenti sulla morte del fotoreporter ucciso ieri ad una distanza ravvicinata come
dimostra una drammatica sequenza di un filmato amatoriale trasmesso da tutte le tv
di Tokyo. Per ora la cifra ufficiale delle vittime è di 15 morti ma, per l’ambasciatore
australiano in Myamnar, è un numero da raddoppiare. Manca internet, strumento di diffusione
della protesta, e molti settimanali hanno deciso di non uscire più. Le speranze della
comunità internazionale sono riposte nella missione dell'inviato speciale dell'ONU,
Gambari, a cui ieri la giunta militare ha concesso il visto. Oggi è giunto a Singapore
e domani è atteso a Yangon. Intanto gli Stati Uniti, che hanno deciso sanzioni contro
14 dirigenti del regime, hanno chiesto alla Cina di esercitare la sua influenza per
una pacifica transizione del Paese verso la democrazia.
Si moltiplicano
intanto nel mondo le manifestazioni in sostegno dell’opposizione birmana e le richieste
della società civile per un intervento della comunità internazionale. Stefano Leszczynski
ha chiesto a Cecilia Brighi, sindacalista della CISL ed esperta dell’area,
come valuti l’attuale situazione:
R. -
La situazione è molto grave e molto difficile, proprio perché le decisioni che si
stanno prendendo in queste ore arrivano troppo tardi. Inoltre non coinvolgono tutto
il mondo perché l’Unione Europea, che stabilirà le sanzioni economiche, non è stata
in grado di influenzare - o finora non lo ha voluto fare – la Cina e la Russia, che
hanno forti rapporti economici, commerciali e militari con la Birmania.
D.
– Molto più attiva sembra essere stata la società civile?
R.
– Sì è così. Penso che i governi dovrebbero tenere conto della sensibilità della società
civile e delle organizzazioni sindacali. In Italia, la CISL, per anni ha chiesto agli
esecutivi, anche quelli precedenti, di agire in modo deciso. Mi auguro che questa
iniziativa trovi uno sbocco positivo e sia, quindi, sentita ed ascoltata.
D.
– Si può dire che queste manifestazioni definitivamente segnano la fine politica,
comunque, del regime militare in Birmania?
R. – Purtroppo
non è così, perché la giunta è ancora forte. Senz’altro segnano uno squarcio forte
nel mondo che finalmente si è svegliato ed ha capito cosa sta succedendo in quel Paese.
Saranno probabilmente uno strumento per la fine, almeno politica, del regime militare.