Ormai è bagnata di sangue la protesta dei monaci buddisti e della popolazione civile
in Myanmar. Anche oggi, nelle manifestazioni contro la giunta militare, si registrano
vittime, feriti e numerosi arresti. L’esercito ha deciso per il pugno di ferro nonostante
gli inviti internazionali alla calma. Pure la Cina, Paese molto vicino a Yangon, ha
chiesto moderazione anche se, ieri in sede Onu, si è battuta per non far passare una
risoluzione contro la giunta. Il servizio di Benedetta Capelli: Non
ci sono solo monaci e civili tra le vittime della repressione dell’esercito birmano.
Tra i morti si conta anche un fotografo giapponese rimasto a terra dopo i tentativi
dei militari di disperdere la folla che anche oggi è scesa nelle strade di Yangon.
I raid notturni contro i monasteri buddisti che avrebbero causato 4 vittime e 850
arresti -tra questi anche due dirigenti del partito della dissidente Aung San
Suu Kyi- non sono bastati a spegnere l’ondata di protesta. Stamani i manifestanti
hanno affrontato nuovamente il divieto di scendere in piazza, imposto ieri dall’esecutivo,
ed hanno sfidato anche l’ultimatum dell'esercito: sciogliere il corteo entro
10 minuti sotto la minaccia di un’azione estrema. Forse gli spari alla pagoda Sue
e intorno alla stazione ferroviaria di Yangon, ma soprattutto i 100 arresti, hanno
convinto la folla a desistere. L'azione repressiva del regime è anche diretta contro
i giornalisti stranieri; alcuni soldati sono entrati in un albergo della capitale
alla ricerca di reporter che con le loro notizie potrebbero destabilizzare l'opinione
pubblica. A riferirlo un sito di birmani in esilio. Intanto si moltiplicano gli inviti
alla moderazione, l’ultimo arriva dalla Cina, principale alleato del Myanmar, che
però non ha condannato l’uccisione ieri di 5 monaci e di una donna. Proprio Pechino
ha impedito di approvare ieri in Consiglio di Sicurezza dell’ONU una risoluzione contro
la giunta birmana e l’adozione di sanzioni più dure. A mettere il bastone tra le ruote
anche la Russia e l’Indonesia che hanno bocciato la proposta avanzata da Unione
Europea e Stati Uniti. Nel Paese giungerà l’inviato ONU per il Myanmar, Ibrahim Gambari,
che è però in attesa dell’autorizzazione ad entrare da parte della giunta militare.
Oggi nuova condanna del Parlamento europeo per la risposta brutale di Yangon alle
iniziative pacifiche ed ha espresso orrore per le uccisioni dei manifestanti.
Le
forze di sicurezza del Myanmar hanno dunque risposto con la forza alle nuove proteste
di oggi nell’ex Birmania. Ma perché si è giunti a questo punto? Ascoltiamo Stefano
Vecchia, esperto di questioni asiatiche per il quotidiano Avvenire, intervistato
da Giada Aquilino:
R. –
Serviva soltanto un’occasione perché la Giunta passasse alle maniere forti con gli
stessi birmani. Finora tali metodi li aveva usati contro le minoranze, che da decenni
combattono per l’indipendenza, e nel 1988 contro la popolazione birmana delle città
e in particolare contro gli studenti. La giunta teme in questo momento l’azione dei
monaci, perché la comunità monastica è l’unica che è in grado di tener testa all’esercito
sia come organizzazione, sia anche come entità numerica. Ricordiamo che la Birmania
è un Paese – unica eccezione in Asia – che si è costantemente impoverito dal secondo
dopoguerra ad oggi. E’ ricco di risorse, che però vengono mal utilizzate e svendute,
in cambio di armi e beni che finiscono poi nelle mani dei militari e della giunta
al potere.
D. – Nuove sanzioni dagli Stati Uniti;
rafforzamento delle misure restrittive dall’Unione Europea; la Cina invita l’ex Birmania
a non andar oltre con l’uso della forza, ma impedisce anche l’accordo all’ONU su nuove
sanzioni. Quanto influisce, allora, sul terreno il ruolo della Comunità internazionale?
R.
– Attualmente molto poco, perché la Birmania è un Paese che ha, comunque, scarsamente
bisogno dell’estero; in esso sopravvive una salda autarchia, mentre la popolazione
è tenuta nella miseria più assoluta: arrivano insomma molti pochi beni dall’estero.
La Cina e in minima parte la Russia continuano invece a fare affari con la giunta
birmana e sono loro di fatto ad avere in questo momento un certo potere nei confronti
del regime. Evidentemente, però, non sono intenzionati ad esercitarlo.
Ed
ascoltiamo ora la testimonianza dell’arcivescovo di Trento, mons. Luigi Bressan,
che negli anni ’90 fu delegato apostolico nel sud-est asiatico e nel tempo ha avuto
modo di visitare numerose volte l’ex Birmania, incontrando anche la leader dell’opposizione
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace 1996. L’intervista è di Giancarlo La
Vella:
R. –
Da tempo, la situazione è talmente pesante per la popolazione in un Paese che avrebbe
tutte le risorse naturali per stare bene, un’ampia preparazione culturale e quindi
la speranza era proprio che questa nazione potesse godere di un buon grado di sviluppo.
Ed è una sofferenza, certamente, che speriamo termini molto in fretta.
D.
– Lei ha conosciuto personalmente Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione e Premio
Nobel per la pace...
R. – Si: ho potuto incontrare
una volta soltanto, purtroppo, Aung San Suu Kyi, figlia – lo ricordiamo – del leader
dell’indipendenza e non le permettono nessuna libertà. Si reprime ogni movimento che
porti un pochino alla libertà.
D. – Come giudicare
il tentativo di portare avanti delle istanze di giustizia anche quando la situazione
non consente alcun tipo di tentativo in tal senso?
R.
– Io penso che bisogna sempre provare, sperare che una volta riesca. Certamente, si
sta già pagando un caro prezzo con tante, tante sofferenze e speriamo che la giunta
capisca che non è la repressione contro il popolo che porta né alla riconoscenza del
popolo, né sta procurando il bene di quella Nazione: una volta tanto, anche attraverso
la pressione internazionale si colga il valore della persona, il valore del rispetto
della volontà popolare.
D. – Come vive la comunità
cristiana questa situazione?
R. – L’atteggiamento
dei cristiani è per la democrazia contro i metodi della giunta.