Entrato in vigore il Motu Proprio di Benedetto XVI sull’uso del Messale del 1962:
il commento del teologo don Nicola Bux
Nell’odierna Solennità dell’Esaltazione della Santa Croce, entra in vigore il Motu
Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, che liberalizza l’uso del Messale
Romano del 1962. Animato da spirito di “riconciliazione”, come il Papa stesso ha sottolineato
in una lettera ai vescovi di tutto il mondo, il Motu Proprio è stato accompagnato
da timori e preoccupazioni. Anzi, come il Santo Padre stesso ha rilevato, “notizie
e giudizi fatti senza sufficiente informazione hanno creato non poca confusione”.
Alessandro Gisotti ha rivolto al teologo don Nicola Bux, consultore
della Congregazione per la Dottrina della Fede, alcuni quesiti proprio sui punti oggetto
di maggiore confusione da parte dei mass media:
D. –
Qualcuno sostiene che con il Motu Proprio Summorum Pontificum si torna indietro rispetto
al Concilio Vaticano II. E’ vero?
R. – L’ultima cosa
che il Papa potrebbe desiderare è di usare la sua autorità per bandire un rito, quello
che dal Concilio Vaticano II ad oggi ha segnato la vita di due generazioni di cattolici.
Quindi, è assolutamente differente dall’imposizione di una riforma fabbricata da esperti.
Credo che poi gli orientali ortodossi lo capiscano bene e non a caso - mi sembra -
che il miglior assist al Motu Proprio è arrivato dal Patriarca di Mosca, con la motivazione
che “ogni recupero della tradizione liturgica va salutato positivamente ed avvicina
fra loro i cristiani”. Per chi conosce Benedetto XVI, mai egli abuserebbe dell’autorità
per raggiungere uno scopo apparentemente buono, tanta é profonda la conoscenza che
egli ha dell’intimo rapporto tra Liturgia e vita dei fedeli.
D.
– Ma, poi, questo Messale è stato mai abrogato?
R.
– Questo Messale si è presunto che si sia stato abrogato dal Vaticano II, ma non è
assolutamente così, perché – come diceva il cardinale Newman – nel corso della sua
storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di Liturgia, perché
ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa.
D.
– Si dice da più parti: “No al ritorno al latino, una lingua morta, che i fedeli non
comprendono”. Ma il latino è ancora la lingua ufficiale della Chiesa...
R.
– L’importanza della lingua latina nella Liturgia va vista proprio all’interno dell’inevitabile
– direi – riferimento ad una lingua certamente classica, ma - nello stesso tempo -
strumento di unità. Un po’ come avviene per gli ortodossi con la lingua greca o la
lingua slava: essi continuano infatti ad usarla ordinariamente nella Liturgia per
i testi e per i canti, accanto naturalmente alla lingua parlata. Penso che non ci
debba essere alcun problema in merito.
D. – Per
qualcuno, con questa liberalizzazione del Messale di Pio V c’è il rischio che si formino
delle Chiese parallele. E’ davvero così?
R. – E’
noto che la questione della Liturgia sia al centro dei pensieri del Papa, già da quando
era teologo e cardinale e, quindi, per lui rappresenta un po’ il centro di qualsiasi
rinnovamento della Chiesa, anche perché da sempre è fonte di conversione e di cambiamento
di tanta gente, di ogni lingua e nazione. L’esempio celebre è quello di Agostino e
la Liturgia di Ambrogio. Per questo il Motu Proprio, che permette un uso più ampio
della Liturgia, ha avuto una lunga gestazione, come è noto. Stiano, quindi, tranquilli:
nessuno obbligherà chicchessia a celebrarla, ma è ben triste che persone che passano
per liberali e tolleranti si scandalizzino di un atto che allarga gli spazi di libertà.
E’ noto che il Papa con questo atto liberale ha lanciato un grande segnale di riconciliazione.
Non ha abolito il nuovo rito per dire “si usi l’antico”, ma ha messo accanto anche
questo rito.
D. – Il Motu Proprio rimette ai sacerdoti
la decisione di accogliere le richieste dei fedeli aderenti alla precedente tradizione
liturgica. Per questo qualcuno ha affermato che il vescovo viene ridotto a notaio.
E’ così?
R. – Chiunque conosce le premesse dei Libri
Liturgici sa che la Santa Sede – e, quindi, il vescovo di Roma - ha una prerogativa
ultima nella regolamentazione della Liturgia. Come è noto il grande rischio negli
ultimi decenni è che ciascuno si faccia la propria Liturgia, mentre invece ci deve
essere una fondamentale unità della Liturgia Romana, pur nelle differenziazioni. Credo
che questo lo possa garantire soltanto il vescovo di Roma, che è il principio visibile
dell’unità della Chiesa, come dice la Lumen Gentium.
D.
– Per qualcuno il Summorum Pontificum è la dimostrazione del tradizionalismo di Benedetto
XVI. Ma non era stato già Giovanni Paolo II, nel 1988, a promulgare un Motu Proprio
sull’uso del Messale del 1962?
R. – Bisogna fidarsi
di Benedetto XVI. Egli porterà pian piano la saggezza dell’immaginazione cattolica
nella vita liturgica della Chiesa odierna. E questo perché egli comprende bene quanto
la creatività e la genialità non siano ostili alla tradizione, ma ne facciano parte
come linfa dello Spirito Santo. Non è un tradizionalista reazionario il Papa, ma nemmeno
un opportunista liberale. E’ un saggio amministratore, che sa estrarre cose nuove
e cose antiche, come dice Gesù nel Vangelo.