E' moralmente obbligatoria la somministrazione di acqua e cibo ai pazienti in stato
vegetativo, anche permanente: lo afferma la Congregazione per la Dottrina della Fede.
La riflessione di mons. Elio Sgreccia
Somministrare acqua e cibo a pazienti che versano nel cosiddetto “stato vegetativo”
è moralmente obbligatorio e ciò non può essere interrotto, almeno in linea di principio,
anche quando questo stato si prolunghi fino ad essere definito dal punto di vista
medico “permanente”. Sono i due concetti essenziali ribaditi in un documento approvato
da Benedetto XVI e reso noto oggi dalla Congregazione per la Dottrina della fede,
in risposta a quesiti sollevati in passato dai vescovi degli Stati Uniti. I particolari
nel servizio di Alessandro De Carolis:
C’è
un magistero lungo 50 anni dietro le due risposte ad altrettanti quesiti pubblicate
dal dicastero della Dottrina della Fede sul modo di accudire i pazienti in “stato
vegetativo”. Un magistero che parte dai primi pronunciamenti in merito di Pio XII,
che nel novembre del 1957, ad un Congresso di Anestesiologia, si soffermò sui principi
etici generali riguardanti l’assistenza alle persone colpite da malattia grave e sui
mezzi giudicati necessari per preservare la salute e la vita. E molto, durante il
suo lungo Pontificato, fece anche Giovanni Paolo II, specialmente con un discorso
rivolto nel 2004 ad un Congresso internazionale dedicato a questo tema. In sostanza,
rispondendo alle domande presentate nel luglio di due anni fa dal presidente della
Conferenza episcopale statunitense, mons. William S. Skylstad, il documento della
Dottrina della Fede riafferma, sulla scorta di tutto il precedente magistero, che
la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali, è in linea di principio
un mezzo “ordinario e proporzionato” di conservazione della vita per i pazienti in
stato vegetativo, “nella misura in cui e fino a quando - si legge - dimostra di raggiungere
la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento
del paziente”. Inoltre, il documento sancisce che tale mezzo ordinario di sostegno
vitale va assicurato anche a coloro che versano nello “stato vegetativo permanente”:
anzitutto perché si tratta di persone che mantengono intatta la loro dignità umana,
e poi perché - viene specificato in una nota di commento al testo normativo - il termine
di “stato vegetativo permanente” è convenzionale e dunque non si riferisce alle reali
possibilità di ripresa del malato.
Inoltre, nell’affermare
che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria “in linea di principio”,
la Congregazione della Dottrina della Fede - si legge ancora nella nota di commento
- “non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione
e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili”. Ciò però, si
asserisce subito dopo, non fa cadere “l’obbligo di offrire le cure minimali disponibili
e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale”.
Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non
riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro
somministrazione. Infine, conclude la nota, “non si scarta assolutamente la possibilità
che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare
per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio,
a complicanze nell’uso di ausili strumentali”.
Nutrire e idratare un malato
in stato vegetativo è dunque un atto di naturale umanità e non un “atto medico”. Su
questa distinzione, e sulla possibilità che un’omissione di aiuto possa configurarsi
come eutanasia, Alessandro De Carolis ha sentito il presidente della Pontificia
Accademia per la Vita, il vescovo Elio Sgreccia:
R.
- Il documento del 1980 sull’eutanasia, quando si tratta di interventi terapeutici
diretti a rimuovere un fatto acuto di malattia, parla di “proporzionalità” e “sproporzionalità”
dei mezzi, e inoltre parla anche di “carattere ordinario” o “straordinario” per quanto
riguarda le possibilità del paziente di affrontarli. Ma queste distinzioni si riferiscono
agli interventi terapeutici. Oltre ad essi, accanto al letto del malato e per il malato,
si deve praticare l’assistenza, cioè il sostegno vitale, il superamento del dolore.
Non sono, questi, interventi diretti a guarire il paziente, perché il paziente nel
caso dello stato vegetativo permanente non sempre guarisce. Si tratta, invece, di
assisterlo con le “cure ordinarie”, ovvero quelle cure alle quali qualsiasi uomo ha
diritto: il bambino appena nato, noi che siamo adulti, che lavoriamo e abbiamo bisogno
di essere nutriti, e anche il morente, che ha il diritto di ricevere queste cure,
che sono un diritto di tutti. Non sono, ripeto, interventi terapeutici, ma sono cure.
Anche se non sempre servono a guarire, servono sempre a lenire la sofferenza, e nel
momento della morte a soffrire di meno. Per questo, c’è l’obbligo di somministrarle
fino alla fine. Purché, certo, il paziente sia in grado di riceverle: se il paziente
è in uno stato tale che somministrando acqua o cibo questo non viene più ricevuto
ciò non è più da considerare acqua e cibo.
D. - Questo
documento si pone sul crinale etico che distingue tra il rispetto della inviolabilità
della vita umana - visione prettamente cristiana - e quello invece dell’“aiuto a morire”,
che il Papa durante il suo recente viaggio in Austria ha definito “in aumento preoccupante”.
Qual è il suo pensiero?
R. - Attraverso certe formulazioni
di dignità della morte, di aiuto a morire, spesso si nascondono atteggiamenti eutanasiaci.
Mai si deve per pietà interrompere una vita che può essere sostenuta. Gli altri interventi
- le vere e proprie terapie - vanno somministrati secondo la proporzionalità, secondi
dei criteri di ordinarietà: ma mai interrompere volutamente la vita, anche se si prevede
che essa durerà poco o si pensa che non si possa fare più niente dal punto di vista
terapeutico.