La Messa domenicale è una necessità interiore: senza Cristo il tempo è vuoto. E' quanto
ha detto il Papa alla Messa nel Duomo di Santo Stefano a Vienna
La Celebrazione eucaristica domenicale è “una necessità interiore. Senza Colui che
sostiene la nostra vita col suo amore, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire
questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore
e la sua bellezza”. E’ quanto ha detto stamani il Papa durante la Messa nel Duomo
di Santo Stefano a Vienna. Il Papa ha invitato ad andare oltre “l’attivismo della
vita quotidiana” per guardare “verso l’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo
e verso il quale siamo in cammino”. “La Domenica, nelle nostre società occidentali
– ha aggiunto - si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero,
specialmente nella fretta del mondo moderno, è certamente una cosa bella e necessaria.
Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento
per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e ricrea. Il
tempo libero necessita di un centro – l’incontro con Colui che è la nostra origine
e la nostra meta”. Ma ecco il testo integrale dell’omelia del Papa:
Cari fratelli
e sorelle!
„Sine dominico non possumus!“ Senza il dono del Signore, senza il
Giorno del Signore non possiamo vivere: così risposero nell’anno 304 alcuni cristiani
di Abitene nell’attuale Tunisia quando, sorpresi nella Celebrazione eucaristica domenicale,
che era proibita, furono portati davanti al giudice e fu loro chiesto perché avevano
tenuto di Domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che questo era punito
con la morte. „Sine dominico non possumus“. Nella parola dominico sono indissolubilmente
intrecciati due significati, la cui unità dobbiamo nuovamente imparare a percepire.
C’è innanzitutto il dono del Signore – questo dono è Lui stesso: il Risorto, del cui
contatto e vicinanza i cristiani hanno bisogno per essere se stessi. Questo, però,
non è solo un contatto spirituale, interno, soggettivo: l’incontro col Signore si
iscrive nel tempo attraverso un giorno preciso. E in questo modo si iscrive nella
nostra esistenza concreta, corporea e comunitaria, che è temporalità. Dà al nostro
tempo, e quindi alla nostra vita nel suo insieme, un centro, un ordine interiore.
Per quei cristiani la Celebrazione eucaristica domenicale non era un precetto, ma
una necessità interiore. Senza Colui che sostiene la nostra vita col suo amore, la
vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa
il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza.
Ha rilevanza
questo atteggiamento dei cristiani di allora anche per noi cristiani di oggi? Sì,
vale anche per noi, che abbiamo bisogno di una relazione che ci sorregga e dia orientamento
e contenuto alla nostra vita. Anche noi abbiamo bisogno del contatto con il Risorto,
che ci sorregge fin oltre la morte. Abbiamo bisogno di questo incontro che ci riunisce,
che ci dona uno spazio di libertà, che ci fa guardare oltre l’attivismo della vita
quotidiana verso l’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo
in cammino.
Se, tuttavia, prestiamo ora ascolto all’odierno brano evangelico,
al Signore che in esso ci parla, ci spaventiamo. „Chi non rinuncia ad ogni sua proprietà
e non lascia anche tutti i legami familiari, non può essere mio discepolo.“ Vorremmo
obiettare: ma cosa stai dicendo, Signore? Non ha forse il mondo bisogno proprio della
famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori
e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno
della gioia di vivere? E non occorrono forse anche persone che investano nei beni
di questo mondo ed edifichino la terra che ci è stata data, cosicché tutti possano
aver parte dei suoi doni? Non ci è stato affidato forse anche il compito di provvedere
allo sviluppo della terra e dei suoi beni? Se ascoltiamo meglio il Signore e lo ascoltiamo
nell’insieme di tutto ciò che Egli ci dice, allora comprendiamo che Gesù non esige
da tutti la stessa cosa. Ognuno ha il suo compito personale e il tipo di sequela progettato
per lui. Nel Vangelo di oggi Gesù parla direttamente di ciò che non è compito dei
molti che gli si erano associati nel pellegrinaggio verso Gerusalemme, ma che è chiamata
particolare dei Dodici. Questi devono innanzitutto superare lo scandalo della Croce
e devono poi essere pronti a lasciare veramente tutto ed accettare la missione apparentemente
assurda di andare sino ai confini della terra e, con la loro scarsa cultura, annunciare
ad un mondo pieno di presunta erudizione e di formazione fittizia o vera – come certamente
in particolare anche ai poveri e ai semplici – il Vangelo di Gesù Cristo. Devono essere
pronti, sul loro cammino nella vastità del mondo, a subire in prima persona il martirio,
per testimoniare così il Vangelo del Signore crocifisso e risorto. Se la parola di
Gesù è rivolta anzitutto ai Dodici, la sua chiamata naturalmente raggiunge, al di
là del momento storico, tutti i secoli. In tutti i tempi Egli chiama delle persone
a contare esclusivamente su di Lui, a lasciare tutto il resto e ad essere totalmente
a sua disposizione e così a disposizione degli altri: a creare delle oasi di amore
disinteressato in un mondo, in cui tanto spesso sembrano contare solo il potere ed
il denaro. Ringraziamo il Signore, perché in tutti i secoli ci ha donato uomini e
donne che per amor suo hanno lasciato tutto il resto, rendendosi segni luminosi del
suo amore! Basti pensare a persone come Benedetto e Scolastica, come Francesco e
Chiara, Elisabetta di Turingia e Edvige di Slesia, come Ignazio di Loyola, Teresa
di Avila fino a Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio! Queste persone, con l’intera
loro vita, sono diventate un’interpretazione della parola di Gesù, che in loro si
rende vicina e comprensiva per noi. Preghiamo il Signore, affinché anche nel nostro
tempo doni a tante persone il coraggio di lasciare tutto, per essere così a disposizione
di tutti.
Se, però, ci dedichiamo ora di nuovo al Vangelo, possiamo accorgerci
che il Signore non vi parla solo di alcuni pochi e del loro compito particolare; il
nocciolo di ciò che Egli intende vale per tutti. Di che cosa si tratti in ultima istanza,
lo esprime un’altra volta così: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma
chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo
intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 24s). Chi vuol soltanto possedere
la propria vita, prenderla solo per se stesso, la perderà. Solo chi si dona riceve
la sua vita. Con altre parole: solo colui che ama trova la vita. E l’amore richiede
sempre l’uscire da se stessi, richiede di lasciare se stessi. Chi si volge indietro
per cercare se stesso e vuol avere l’altro solo per sé, perde proprio in questo modo
se stesso e l’altro. Senza questo più profondo perdere se stesso non c’è vita. L’irrequieta
brama di vita che oggi non dà pace agli uomini finisce nel vuoto della vita persa.
“Chi perderà la propria vita per me…”, dice il Signore: un lasciare se stessi in modo
più radicale è possibile solo se con ciò alla fine non cadiamo nel vuoto, ma nelle
mani dell’Amore eterno. Solo l’amore di Dio, che ha perso se stesso per noi consegnandosi
a noi, rende possibile anche a noi di diventare liberi, di lasciar perdere e così
trovare veramente la vita. Questo è il centro di ciò che il Signore vuole comunicarci
nel brano evangelico apparentemente così duro di questa Domenica. Con la sua parola
Egli ci dona la certezza che possiamo contare sul suo amore, sull’amore del Dio fatto
uomo. Riconoscere questo è la saggezza di cui parla l’odierna lettura. Vale anche
qui che tutto il sapere del mondo non ci giova a nulla, se non impariamo a vivere,
se non apprendiamo che cosa conta veramente nella vita.
„Sine dominico
non possumus!“. Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza
una vita riuscita. La Domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un
fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo
moderno, è certamente una cosa bella e necessaria. Ma se il tempo libero non ha un
centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per
essere tempo vuoto che non ci rinforza e ricrea. Il tempo libero necessita di un centro
– l’incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore
sulla sede vescovile di München und Freising, il Cardinale Faulhaber, lo ha espresso
una volta così: “Dà all’anima la sua Domenica, dà alla Domenica la sua anima”.
Proprio
perché nella Domenica si tratta in profondità dell’incontro, nella Parola e nel Sacramento,
con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi
cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come Giorno del Signore,
perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza
anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della
creazione, il giorno in cui Dio disse: “Sia la luce!” (Gn 1,3). Per questo la Domenica
è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione – la festa della gratitudine
e della gioia per la creazione di Dio. In un’epoca, in cui, a causa dei nostri interventi
umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente
proprio anche questa dimensione della Domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo
giorno ha poi assimilato progressivamente anche l’eredità del settimo giorno, dello
šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così
percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell’uguaglianza di tutte le
creature di Dio.
Nell’orazione di questa Domenica ricordiamo innanzitutto
che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo
preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà
e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno
di questo sguardo di bontà, al di là della Domenica, fin nella vita di ogni giorno.
Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che
Dio ci ha adottato come figli, ci ha accolto veramente nella comunione con se stesso.
Essere figlio significa – lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva – essere una persona
libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa
essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora
siamo senza paura e liberi. E siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui
stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa’ che questa consapevolezza ci penetri profondamente
nell’anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.