Alla Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo lungometraggio di Abdellatif Kechiche
racconta le sfide dell'integrazione socio-culturale in Francia
Nel concorso veneziano, insieme all’epopea western del bandito Jesse James raccontata
dal neozelandese Andrew Dominik, alla variopinta avventura indiana di Wes Anderson
e alla visionaria fiaba cinese di Jiang Wen, si fa notare ed apprezzare La Graine
et le mulet, terzo lungometraggio di Abdellatif Kechiche in cui i problemi dell’integrazione
sociale e culturale in Francia sono raccontati con i toni di una commedia ironica
e sincera. In un mondo che ci riserva troppo spesso notizie di scontri e opposizioni
tra culture e religioni il cinema alla Mostra di Venezia grida sì il dolore delle
guerre, mette sotto accusa la responsabilità dei potenti, piange le vittime innocenti
di conflitti insensati. Ma riesce anche a far sorridere e soprattutto sperare quando
un regista tunisino che già si era fatto conoscere ed amare con il suo precedente
La schivata, Abdellatif Bechiche, porta oggi in concorso La Graine et le mulet, sorta
di intima epopea familiare che sa toccare l’anima e il cuore. Già le origini del regista
sono una garanzia: la multiculturalità vissuta tra Paese di nascita e Paese adottivo,
la Francia, lo porta a guardare all’integrazione come un fatto doveroso. Le strade
per arrivarci possono essere molte. Quella perseguita da Slimane – siamo nei dintorni
di Marsiglia dove l’immigrazione è irreversibile, la cultura araba un fatto acquisito
e la convivenza necessaria – passa attraverso le vicissitudini di un lavoro precario,
di una famiglia numerosa e variopinta con tutti i complessi problemi relazionali e
passionali che in una famiglia si vivono quotidianamente, di piccole e grandi cose,
di amicizie, di ideali molto terreni rivolti alla propria personale realizzazione
per non sentirsi dei figli e cittadini minori, pur tutelando il diritto alla differenza.
Ora la meta di Slimane e dei suoi è quella di aprire un ristorante a conduzione familiare
su una vecchia barca in disuso. I cittadini francesi pongono inizialmente ostacoli,
la sua amabile cocciutaggine lo farà benvolere, figli e nipoti si convertiranno all’impresa.
I fuochi delle banlieues parigine sembrano lontani. Tutto è risolto in un film che
adatta il tempo della vita a quello dello schermo: un pranzo in un giorno di festa
è vissuto nella sua verosimiglianza, la nascita di una emozione e lo sgorgare di una
lacrima sono descritti senza artifici, tutti sono protagonisti, tutti hanno la medesima
dignità. Come nella vita, però, vi sono imprevisti, tradimenti, passioni incontrollate,
generosità inaspettate: la cena inaugurale, meta raggiunta con corale disciplina ed
entusiasmo, riserverà alcune amarezze delle quali lo spettatore non ne conoscerà le
conseguenze. Ecco, questa sospensione, questo non voler imporre un finale precostituito,
rende schietta e sincera la confessione del regista: la vita è sempre dono, noi dobbiamo
arricchirlo ogni giorno. Dando senso anche al dolore, alla tristezza, all’abbandono.(A
cura di Luca Pellegrini)