La comunità internazionale ricorda l'abolizione della tratta negriera: ma il traffico
di esseri umani continua
Nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1791, un’insurrezione di schiavi a Santo Domingo
segnava l’inizio del processo che avrebbe portato all’abolizione della schiavitù.
Per ricordare questa orribile piaga e combattere le moderne forme di sfruttamento,
l’UNESCO celebra oggi la Giornata internazionale di commemorazione della tratta negriera
e della sua abolizione. Numerose le iniziative in tutto il mondo e, in particolare,
nel Regno Unito, che quest’anno festeggia il bicentenario dell’abolizione della tratta
nelle colonie britanniche. Per una riflessione sul fenomeno, che ancora oggi coinvolge
in diverse forme oltre 200 milioni di persone, Roberta Moretti ha intervistato
Marco Bufo, coordinatore generale dell’associazione On The Road ONLUS, che
opera a contatto diretto con le vittime del traffico di esseri umani:
R. -
La schiavitù è una realtà dell’Europa occidentale ma anche, in generale, dei Paesi
ricchi o che sono in via di progresso, e non è più soltanto la tratta a scopo di sfruttamento
sessuale, ma parliamo di sfruttamento in vari settori del lavoro, dall’edilizia all’agricoltura,
all’accattonaggio, in cui sono coinvolti soprattutto minori, ma a volte anche persone
disabili, fino ad arrivare all’espianto di organi e alle adozioni internazionali illegali.
D.
- Cosa alimenta oggi il fenomeno del traffico degli esseri umani?
R.
- Oggi il fenomeno si caratterizza per un business che è al terzo posto dei traffici
internazionali della criminalità organizzata, che dà degli altissimi profitti a fronte
di bassissimi rischi. Per quanto le legislazioni dei singoli Stati si stiano adeguando
a quanto richiesto, per esempio, dal protocollo ONU di Palermo, stabilendo il reato
di tratta e delle pene anche molto severe, in realtà è un reato che è molto difficile
da identificare e ancora manca una cultura di piena consapevolezza della gravità di
questo reato. Si tende ancora a considerare queste persone come dei migranti clandestini
e quindi a non identificarle come vittime di tratta, come in realtà sono. Un’altra
difficoltà è data dal fatto che le organizzazioni criminali hanno anche cambiato i
loro modi operandi, per cui sono passati dalla violenza più bruta a delle forme di
sfruttamento negoziato, per cui la stessa percezione delle vittime di essere tali
viene meno e le organizzazioni criminali traggono vantaggio da questo tipo di tecnica
per fidelizzare le vittime stesse.
D. - Cosa viene
fatto e soprattutto cosa andrebbe fatto a livello della società civile, ma anche di
cooperazione internazionale, per combattere il fenomeno?
R.
- Noi, come operatori sociali, per esempio, facciamo un lavoro di strada, di riduzione
del danno, di promozione dei diritti, nei luoghi in cui, per esempio, c’è la prostituzione,
e offriamo poi anche consulenza legale, assistenza psicologica, accoglienza residenziale,
e dei programmi di inserimento sociale, ma anche di inclusione lavorativa. Questo
tipo di attività comporta però, necessariamente, una collaborazione molto stretta
sul territorio con le forze dell’ordine, con la magistratura, perché una volta che
la persona si sente rassicurata e tutelata nei propri diritti si rende anche disponibile
a collaborare per smantellare le reti dello e sfruttamento. Potremmo dire che questo
tipo di approccio, in realtà, è quello necessario a livello internazionale: è necessario
che le polizie dei vari Paesi collaborino per colpire veramente il racket criminale,
e per l’assistenza alle vittime. Inoltre, è necessario informare le persone rispetto
alle possibilità che hanno di immigrare legalmente, perché uno dei fattori che contribuisce
alla tratta è anche la paura del ricco Occidente di vedere invasi dai migranti i propri
territori.
D. - Dunque, occorre un cambiamento di
mentalità?
R. - Sicuramente è molto importante ribadire
la centralità di un approccio fondato sui diritti umani. Troppo spesso, purtroppo,
vengono semplicemente considerati come migranti clandestini da rimandare indietro
nei loro Paesi e questo poi impedisce di vederle come vittime. Vengono rimandate nelle
mani dei trafficanti e poi si ritrovano sulle nostre strade, nel caso della prostituzione
o dell’accattonaggio, o nei campi di lavoro dopo una settimana, se vengono dalla Romania
o dall’Albania, o dopo qualche mese, se vengono, per esempio, dalla Nigeria.