La vicenda di padre Bossi, simbolo del difficile servizio della Chiesa sulle frontiere
della missione. Intervista con padre Davide Sciocco e padre Giulio Mariani
“Voglio tornare a Payao e salutare la mia gente, dire loro che sto bene e soprattutto
abbracciare di nuovo i bambini. Il mio cuore è e resta a Payao, resta nelle Filippine”.
Hanno colpito tutti le parole di padre Giancarlo Bossi, che appena rilasciato dopo
39 giorni di dura prigionia, ha manifestato l’intenzione di voler tornare al più presto
alla sua missione. Non sono stupiti invece i confratelli del missionario del PIME,
perché le parole di padre Bossi esprimono proprio lo spirito con i quali operano i
missionari. Ecco il commento del direttore della rivista Mondo e Missione,
padre Davide Sciocco, intervistato da Alessandro Gisotti: R.
- Questo riflette proprio quello che è il missionario, cioè un uomo che prima di pensare
a se stesso pensa agli altri a cominciare dalle persone a cui è stato mandato, quindi
lui ha subito avuto la preoccupazione di avvisare la sua famiglia di Abbiategrasso,
ma nello stesso tempo la preoccupazione di ritornare tra la sua gente a Mindanao ed
anche più volte ha manifestato dolore per i militari che sono stati uccisi mentre
erano alla ricerca dei suoi rapitori. In realtà, non era così. Però, lui si è sentito
coinvolto e quindi più volte ha chiesto di esprimere il proprio dolore e ha fatto
sapere alla famiglia di pregare per questi militari uccisi. Tutto questo ci dice proprio
quanto il missionario viva la dedizione agli altri: non è un’avventura, non è neanche
un mettere al centro se stesso, ma il farsi carico degli altri.
D.
- Chi è oggi il missionario, e qual è il contributo che porta nei luoghi più dispariti
del pianeta?
R. - Il missionario è un uomo che segue
i tempi e quindi la missione sta cambiando e continua a cambiare e ha molti volti
in base sia alla persona che è inviata, sia ai luoghi nei quali è inviato. Sicuramente,
rimane di estrema attualità il fatto che il missionario sia chiamato da Dio e inviato
per rendere presente Cristo, il Vangelo, in modo più evidente. Perché sappiamo che
anche là dove la Chiesa non è presente, lo Spirito già opera. Questo credo sia il
fondamento. Poi, è chiaro che la missione continua a cambiare. Quindi, in alcuni luoghi
essere missionario vuol dire semplicemente condividere la vita della gente, in alcuni
luoghi non si può parlare esplicitamente di Gesù, in altri neanche si può fare opera
sociale, mentre altrove il missionario - come è un po’ nella zona di padre Giancarlo
- ha un’attività pastorale molto forte e un’attività di dialogo con i non cristiani,
in particolare nella sua zona con i musulmani.
D.
- Dunque, il missionario strumento di dialogo e di riconciliazione?
R.
- Vorrei sottolineare un aspetto interessante del missionario molto attuale che è
quello di essere ponte tra culture. Una volta il missionario partiva ad esempio dall’Italia,
partiva molte volte e si confondeva anche un po’ l’annuncio del Vangelo con la diffusione
della nostra civilizzazione. Oggi, non è così. Oggi, è un ascolto reciproco e il missionario
diventa anche un ponte perché noi missionari viviamo in realtà dove siamo stranieri,
dove siamo minoranza e oggi questi stranieri, queste minoranze, arrivano da noi qui
in Italia e c’è il rischio anche di vederli soprattutto come una minaccia, come un’invadenza.
Il missionario che invece ha già sperimentato cosa vuol dire cosa essere straniero,
essere ospite in un’altra terra, può aiutare la società italiana di oggi a vivere
con un atteggiamento diverso, con un atteggiamento di dialogo e di apertura, l’incontro
con altri popoli, culture e religioni.
E la vicenda
i padre Bossi ha riportato in primo piano anche la realtà delle missioni nelle Filippine.
Ecco la testimonianza di padre Giulio Mariani, missionario del PIME nelle Filippine
dal 1985 al 2001 che dal primo ottobre tornerà nel Paese asiatico come direttore del
Centro Euntes a Zamboanga City. L’intervista è di Fabio Colagrande:
R.
- Siamo nelle Filippine per aiutare la Chiesa filippina nelle parrocchie dove non
ci sono preti, ma siamo là principalmente per portare avanti un dialogo con i musulmani,
un dialogo di vita, e un dialogo con i tribali: questo è il nostro fine principale.
D.
- E’ una presenza quella dei missionari del PIME nelle Filippine che verrà ridiscussa
dopo questa vicenda?
R. - Non credo. La comunità
del PIME delle Filippine si radunerà la prima settimana di agosto, sarà presente anche
il superiore generale, e ci sarà padre Bossi. Una settimana di esercizi che è stata
convertita in una settimana di riflessione, ma non è in vista di cambiamenti della
direzione della nostra presenza, lo posso affermare abbastanza serenamente.
D.
- Lei crede che la vicenda di padre Bossi vi abbia dato una nuova consapevolezza?
R.
- Ci ha dato una nuova spinta alla missione. Consapevolezza solo nel senso che sappiamo
che bisogna usare molta prudenza e, infatti, muovendoci in queste zone dove sappiamo
che ci sono dei pericoli più pronunciati, noi ci muoviamo sempre con delle persone
che ci accompagnano e ci proteggono come nel caso del sequestro di padre Bossi: c’erano
due catechisti con lui, che sono stati rilasciati subito. Non possiamo dimenticare
che il Vangelo ci dice che dobbiamo essere semplici come le colombe ma prudenti come
dei serpenti.