Con il Motu proprio sul Messale Romano del 1962, Benedetto XVI dimostra di essere
un padre di tutti: così, l’arcivescovo di Bari, Francesco Cacucci, sul Summorum
Pontificum
Il Motu proprio Summorum Pontificum risponde agli sforzi della Chiesa di permettere
a tutti coloro che lo desiderino di “restare nell’unità o di ritrovarla”. E’ quanto
viene sottolineato dai presuli svizzeri. Per aiutare i fedeli a comprendere il documento
del Papa dal punto di vista liturgico, il presidente dell’organismo episcopale elvetico,
mons. Kurt Koch, ha redatto un’introduzione disponibile sul sito Internet della Conferenza
episcopale elvetica (www.sbk-ces-cvs.ch). Apprezzamento per il Motu proprio viene
espresso anche dall’episcopato austriaco. In un documento firmato, tra gli altri,
dall’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, si mette l’accento sull’intenzione
del Papa di “superare le divisioni della Chiesa, per attingere più profondamente alle
sorgenti del Mistero di Cristo”. Un documento, dunque, che unisce e non divide, come
sottolinea l’arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Francesco Cacucci, intervistato
da Alessandro Gisotti:
R. -
Credo che sia fondamentale partire dal fatto che il Papa è padre di tutti, e quindi
dev’essere padre di coloro che vivono nella Chiesa, con sensibilità diverse. Fermo
restando che il Magistero della Chiesa, che a noi è giunto dal Concilio Vaticano II,
diventa normativo per tutti, il riferimento ad un Messale precedente a quello di Paolo
VI, che non è stato mai abolito - come sottolineato nella Lettera con cui il Santo
Padre accompagna il Motu proprio - questo precedente Messale resta in vigore per coloro
che hanno avuto difficoltà ad accettare, soprattutto in alcuni Paesi, un’interpretazione
forse con creatività selvaggia, del Vaticano II. Credo però che questo problema non
sia legato alla nostra realtà italiana.
D. - Qual
è la sua esperienza di pastore in una grande diocesi, come quella di Bari-Bitonto,
riguardo alla Messa in latino, al rapporto dei fedeli con l’uso del latino nella liturgia?
R.
- Si può dire che nella nostra diocesi non ci sono stati episodi, o almeno, io non
ne conosco, di “creatività selvaggia” dopo il Vaticano II. Questo ha facilitato un
atteggiamento di grande equilibrio. Il cantare il Pater noster in latino, durante
la Messa, per noi è abituale, o cantare il Kyrie o anche il Gloria in
latino, questo non fa difficoltà. Ecco perché da parte del nostro popolo sarebbe del
tutto inconsueto chiedere di celebrare una liturgia eucaristica in latino. Nel momento
in cui si presentasse l’occasione, non credo che ci sarebbero difficoltà. Il nostro
popolo è abituato anche a tener presente in latino, durante le celebrazioni.
D.
- In realtà, questo Motu proprio che regolamenta l’uso del Messale del 1962 - soprattutto
pensando alla Lettera che il Papa ha inviato ai presuli - mette l’accento anche sulla
sacralità del Messale di Paolo VI che, ricordiamo, è la forma ordinaria, come il Santo
Padre sottolinea...
R. - Vorrei aggiungere che, durante
l’ultimo Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia, Sinodo al quale ho partecipato, molte
voci si sono levate da parte dei vescovi di tutto il mondo, per recuperare il senso
del mistero nella celebrazione dell’Eucaristia e in genere nella liturgia. Quindi,
questa esigenza è un’esigenza diffusa in tutto il mondo. Penso poi soprattutto a quei
vescovi che provenivano dai Paesi dell’est e che hanno sofferto molto, a volte anche
la persecuzione, per essere fedeli e per rispettare il mistero eucaristico. Ecco perché
forse le reazioni che si sono avute attraverso Léfébvre in alcuni Paesi sono state
anche una reazione ad una “creatività selvaggia” e forse ad una mancanza di rispetto,
anche, della dimensione del mistero che sempre accompagna la liturgia eucaristica
che è la “Divina Liturgia”, come dicono gli orientali.