Nel segno della riconciliazione, pubblicato il Motu proprio di Benedetto XVI "Summorum
Pontificum" sull'uso del Messale Romano del 1962
“Riconciliazione”: è questa la parola chiave, “la ragione positiva” del Motu proprio
Summorum Pontificum di Benedetto XVI sull’uso del Messale Romano del 1962,
pubblicato oggi. A sottolinearlo è il Papa stesso nella Lettera indirizzata ai presuli
di tutto il mondo, che accompagna il documento. Lo sguardo al passato, “alle divisioni”
che “hanno lacerato il Corpo di Cristo”, scrive il Pontefice, mi hanno spinto a “fare
tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità,
sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”. Sui punti
salienti del Motu proprio, che entrerà in vigore il 14 settembre di quest’anno, festa
dell’Esaltazione della Santa Croce, il servizio di Alessandro Gisotti:
Sin dall’art.
1, il Motu proprio stabilisce che il Messale Romano, promulgato da Paolo VI nel 1970
è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino.
Il Messale promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve
essere, perciò, considerato come forma straordinaria. Non si crea, dunque, in alcun
modo una divisione nella “legge della fede”, giacché si tratta di “due usi dell’unico
rito romano”. E’ lecito, quindi, celebrare la Messa secondo l’edizione tipica del
Messale Romano del 1962. A tal fine, il Motu proprio di Benedetto XVI indica nuove
regole, che sostituiscono quelle stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc
annos” ed “Ecclesia Dei”. Viene stabilito che nelle Messe celebrate, senza popolo,
ogni sacerdote cattolico di rito latino, possa, senza bisogno di alcun permesso, usare
il Messale del 1962 o quello promulgato da Paolo VI. E ciò in qualsiasi giorno, “eccettuato
il Triduo Sacro”. Ancora, si dispone che le comunità degli Istituti di Vita Consacrata
e delle Società di Vita Apostolica possano celebrare la Santa Messa, nei propri oratori,
secondo l’edizione del Messale del 1962. A tali celebrazioni sono ammessi anche i
fedeli che lo desiderino.
L’art. 5 si sofferma sulla
realtà delle parrocchie, disponendo che laddove esista “stabilmente un gruppo di fedeli
aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro
richieste per la celebrazione della Santa Messa”, secondo il rito del Messale del
1962. Il parroco dovrà provvedere, affinché “il bene di questi fedeli si armonizzi
con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del vescovo”, “evitando
la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa”. Tale celebrazione “può aver
luogo nei giorni feriali, nelle domeniche e nelle festività”. Può essere permessa
inoltre, in circostanze particolari, come matrimoni, esequie e pellegrinaggi. I sacerdoti
che usano il Messale di Giovanni XXIII “devono essere idonei e non giuridicamente
impediti”. Nelle Messe celebrate con il popolo, secondo il Messale del 1962, le letture
potranno essere proclamate anche nella lingua vernacola. Se un gruppo di fedeli laici
“non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco”, l’art.
7 stabilisce che di ciò venga informato il vescovo diocesano, che “è vivamente pregato
di esaudire il loro desiderio”. Qualora non potesse, la questione va riferita alla
Commissione Pontificia Ecclesia Dei eretta da Giovanni Paolo II nel 1988. Lo
stesso il vescovo dovrà fare laddove fosse ostacolato nel rispondere alle richieste
dei fedeli laici. All’art. 9, si dispone che il parroco possa concedere la licenza
di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei Sacramenti del Battesimo,
Matrimonio, Penitenza e Unzione degli Infermi. Agli Ordinari viene anche concessa
la facoltà di celebrare il Sacramento della Confermazione e, qualora sia ritenuto
opportuno, di erigere una parrocchia personale o nominare un cappellano, per le celebrazioni
secondo la forma più antica del rito romano. Negli ultimi articoli del documento,
si conferma che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei continua ad esercitare
il suo compito. Oltre alle facoltà di cui già gode, tale Commissione eserciterà l’autorità
della Santa Sede, vigilando sull’osservanza e applicazione delle disposizioni del
Motu proprio.
Come sottolineato, il documento è accompagnato da una Lettera,
indirizzata ai vescovi di tutto il mondo. Il Papa spiega le motivazioni di questo
Motu proprio, che risponde a “insistenti preghiere” di non pochi fedeli, a lungo soppesate
già da Giovanni Paolo II e oggetto di approfondimento nel Concistoro, tenutosi il
22 marzo 2006. Il Pontefice non manca di costatare che “notizie e giudizi fatti senza
sufficiente informazione hanno creato non poca confusione”, suscitando “reazioni molto
divergenti” per “un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto”. Quindi,
affronta quei timori che si opponevano più direttamente a questo documento, come ci
riferisce, ancora, Alessandro Gisotti:
Benedetto
XVI si sofferma sul timore che venga “intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II”,
mettendo in dubbio “una delle sue decisioni essenziali”, la riforma liturgica. “Tale
timore - avverte - è infondato”. Il Pontefice ribadisce che il Messale pubblicato
da Paolo VI “è e rimane la Forma normale, Forma ordinaria, della Liturgia Eucaristica”.
L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, e pubblicata da
Giovanni XXIII nel 1962, “potrà invece essere usata come Forma extraordinaria della
Celebrazione liturgica”. Per questo, è il richiamo del Papa, “non è appropriato parlare
di queste due stesure del Messale Romano come se fossero "due Riti”, ma piuttosto
di un duplice uso “dell’unico e medesimo Rito”. D’altro canto, Benedetto XVI attira
l’attenzione “sul fatto che questo Messale non è stato mai giuridicamente abrogato
e, di conseguenza, in principio, restò sempre permesso”. Introdotto il nuovo Messale,
ha ricordato, non furono emanate norme per “l’uso possibile” del Messale anteriore,
supponendo che si sarebbe trattato di pochi casi facilmente risolvibili. In realtà,
però, si legge nella Lettera, “non pochi rimanevano fortemente legati a questo uso
del Rito romano”.
Il Papa si sofferma così sul movimento
guidato dall’arcivescovo Lefebvre, la cui “fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno
esterno”. Le ragioni di questa spaccatura, spiega il Papa, si trovavano “più in profondità”,
giacché molte persone che accettavano il Concilio Vaticano II ed erano fedeli al Papa
e ai vescovi, “desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della
sacra Liturgia”. E ciò anche perché “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele
alle prescrizioni del nuovo Messale”. Anzi, sottolinea il Pontefice, il nuovo Messale
veniva perfino “inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività,
la quale ha portato spesso a deformazioni della Liturgia, al limite del sopportabile”.
Papa Benedetto confida ai confratelli nell’episcopato la sua esperienza personale.
“Ho visto - scrive - quanto siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della
Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”. Ed è per
questo, rammenta, che Giovanni Paolo II fu obbligato a dare con il Motu proprio Ecclesia
Dei del 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 1962. Tale documento,
però “non contiene prescrizioni dettagliate”, ma si appellava alla generosità dei
presuli verso “le giuste aspirazioni” di quei fedeli che richiedevano l’uso del Rito
romano. Era quel documento teso anche ad aiutare la Fraternità San Pio X “a ritrovare
la piena unità con il Successore di Pietro, cercando di guarire una ferita sentita
sempre più dolorosamente”. Riconciliazione “finora non riuscita”, è il rammarico di
Benedetto XVI. D’altra parte, l’uso del Messale del 1962 è rimasto difficile, anzitutto
perché i vescovi, in mancanza di precise norme giuridiche, “temevano che l’autorità
del Concilio fosse messa in dubbio”. Tuttavia, anche per il crescente numero di giovani
attirati da questa forma liturgica, “è sorto il bisogno di un regolamento giuridico
più chiaro” non prevedibile vent’anni fa. Evidenzia, inoltre, che queste norme “tendono
anche a liberare i vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come rispondere alle
diverse situazioni”.
Il Papa rivolge poi il pensiero
alla seconda preoccupazione emersa nelle discussioni sul Motu proprio, ovvero che
una più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962 potrebbe portare a “disordini
o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali”. “Anche questo timore - afferma
il Papa - non mi sembra realmente fondato”, soprattutto perché l’uso del Messale antico
“presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina”.
Condizioni, che “non si trovano tanto di frequente”. Per questo, si ribadisce nel
documento, il nuovo Messale “rimarrà, certamente, la Forma ordinaria del Rito romano”.
Certo, viene riconosciuto che “non mancano esagerazioni” di fedeli “legati all’antica
tradizione liturgica latina”. Del resto, è l’invito del Papa, le due Forme dell’uso
del Rito Romano “possono arricchirsi a vicenda” inserendo “nuovi santi e alcuni dei
nuovi prefazi” nel Messale antico. Allo stesso modo, nel Messale di Paolo VI, si potrà
manifestare ancor più quella “sacralità che attrae molti all’antico uso”. Ed esorta
a rendere “visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”.
Benedetto
XVI ribadisce dunque che “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione
del Missale Romanum”. E rammenta che nella “storia della Liturgia c’è crescita
e progresso, ma nessuna rottura”, sottolineando che ciò che per le generazioni anteriori
era sacro “non può improvvisamente essere del tutto proibito o addirittura dannoso”.
A loro volta, anche i sacerdoti delle comunità aderenti all’uso antico non possono,
“in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi”. Nell’ultima
parte della Lettera, il Papa rassicura i vescovi. “Queste nuove norme - scrive - non
diminuiscono in nessun modo la vostra autorità e responsabilità”, essendo il vescovo
“moderatore della liturgia nella propria diocesi”. Il Papa invita, inoltre, i vescovi
a scrivere un resoconto sulle loro esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore del
Motu proprio. E ciò in modo che, qualora fossero venute alla luce delle serie difficoltà,
“potranno essere cercate vie per trovare rimedio”.