Tra angoscia e speranza si attende la liberazione di padre Giancarlo Bossi, rapito
domenica scorsa nelle Filippine
Continuano nelle Filippine le ricerche di padre Giancarlo Bossi, missionario del Pontificio
Istituto Missioni Estere, rapito nell'arcipelago meridionale di Mindanao lo scorso
10 giugno. Ieri, i vescovi filippini hanno lanciato un pressante appello per la liberazione
del missionario italiano, mentre in tutta Mindanao si è creato un movimento di preghiere
e di solidarietà. Anche i leader delle comunità islamiche hanno condannato il rapimento.
Per una testimonianza proprio su come i fedeli filippini vivano questa drammatica
vicenda, Alessandro Gisotti ha raggiunto telefonicamente a Zamboanga, nell’arcipelago
di Mindanao, padre Sebastiano D’Ambra, confratello di padre Bossi:
R. –
Per noi è una sorpresa, perché non pensavamo che potesse succedere proprio a lui.
Per noi è un ritorno ad una sofferenza che abbiamo avuto anche altre volte. Noi soffriamo,
soffriamo per la gente, soffriamo con questo Paese, che ancora una volta deve affrontare
una situazione simile, che, in qualche modo, dà un’immagine negativa al Paese. Padre
Bossi viveva molto vicino alla gente, era accanto alla povera gente, era una persona
molto cordiale. D. – Fa soffrire ancora di più questo: un uomo che si impegna
da tanti anni per i più poveri, che poi viene rapito…
R.
– E’ vero, questo fa soffrire. Tra l’altro c’è da dire che lui era stato in quel posto,
in quella zona anni fa come primo assistente della parrocchia e poi come parroco aveva
costruito la casa parrocchiale. La gente gli voleva bene. Poi ha avuto altri incarichi.
Da solo due mesi era andato di nuovo lì, perché la diocesi aveva richiesto al PIME
un padre, non avendo loro padri da mandare. Lui si è offerto volentieri. E’ una zona
difficile, dove non è semplice trovare dei preti disposti ad andare, ma lui è andato
con spirito di generosità e noi, quindi, lo abbiamo ammirato anche per questo gesto.
D.
– Come vive un missionario in queste regioni così difficili?
R.
– E’ una zona imprevedibile la nostra. Dipende poi dai posti. Noi viviamo accanto
alla gente e sentiamo di voler bene a questa gente. Sappiamo quali sono i pericoli
e comunque andiamo avanti con speranza. Non ci arrendiamo, ma usiamo la prudenza necessaria
per evitare alcuni problemi che possiamo intravedere lungo la strada. Anche in situazioni
simili dobbiamo sperare, perché alla fine sembra che questa zona sia strana, ma c’è
anche tanta brava gente attorno. Siamo solidali con quelli che ci vogliono bene.
E il sequestro di padre Bossi riporta in primo piano la drammatica condizione
di tanti cristiani oggetto di sequestri e aggressioni in molte aree calde del pianeta.
Dal canto suo, Benedetto XVI, all’Angelus di domenica scorsa, ha chiesto con forza
la liberazione di tutti i sacerdoti rapiti in diverse parti del mondo. Ecco la riflessione
di Attilio Tamburrini, direttore della sezione italiana di Aiuto alla Chiesa
che Soffre, raccolta da Alessandro Gisotti:
R. –
Ogni generazione di cristiani ha le sue prove; le prove le può avere in casa o fuori.
Ora, quello che secondo me è molto importante far percepire è che se un cristiano
viene perseguitato in Mauritania, in Bangladesh è tutto il corpo della Chiesa che
soffre! Io credo che quello che si è un po’ perso è questo: che mentre i primi cristiani
questa realtà l’avevano ben presente, che dove soffre un membro soffre tutto il corpo,
ecco, noi questo forse l’abbiamo un po’ dimenticato ...
D.
– Guardando più nello specifico, si parla molto del fondamentalismo di matrice islamica
ma, per esempio, vediamo quanto stia diventando difficile per i cristiani vivere e
testimoniare il Vangelo in un Paese come l’India ...
R.
– Certo, perché il discorso è molto più ampio: sembrerebbe che con la nascita di questo
fondamentalismo islamico, dall’inizio di questi fenomeni di carattere terroristico,
sono incominciati i problemi per i cristiani. I problemi dei cristiani, all’interno
di Paesi o a maggioranza islamica o a maggioranze di religioni diverse, come per esempio
nel caso dell’India induista, ci sono sempre stati. Ci sono sempre stati! In India
c’è una identificazione – come in molti luoghi – della nazionalità con la religione,
per cui se si è induisti, si è indiani, altrimenti si è un corpo estraneo. Per esempio,
in alcune parti dell'India vengono attaccate normalmente le scuole cristiane, di tutte
le confessioni cristiane: perché? Perché la scuola cristiana è aperta a tutti, quindi
in una scuola cristiana può diventare ingegnere anche il "paria", anche il fuori casta.
Cosa che, dal punto di vista della mentalità, della struttura castale della società
indiana, che anche se ufficialmente non lo è più, ma nella pratica di tutti i giorni,
poi, nella vita quotidiana ancora rimane questo tipo di impostazione, ecco che questo
è un atto sovversivo terribile, per cui l’attacco è soprattutto alla scuola. Inoltre,
continuano quelle aggressioni laddove ci sono i resti del XX secolo: il problema-Cina,
il problema-Cuba ...
D. – In America Latina, in Africa,
in molte altre zone gli uomini di Chiesa – religiosi e religiose, missionari, laici
– spesso sono vicini ai poveri e in situazioni difficili, e quindi scontano anche
la violenza endemica di queste aree ...
R. – Certo;
anche perché poi succede questo: quando ci sono dei fenomeni di violenza, il missionario
è un testimone scomodo per qualsiasi parte in lotta, per cui normalmente si trova
tra l’incudine e il martello. E’ la condizione della Chiesa in tanti posti, come appunto
in Africa, dove appunto il fatto di essere elemento di pacificazione non va bene né
all’uno né all’altro. Il missionario presente sul territorio, che può denunciare delle
situazioni di ingiustizia, delle situazioni di massacri, ecco che diventa “pericoloso”
per tutti gli elementi in conflitto tra loro. Quindi, ecco che normalmente ci va di
mezzo il missionario!