Le torture più crudeli non fecero abiurare i cristiani e i religiosi durante le persecuzioni
del 1600 in Giappone: la storia di due futuri Beati
Con i Decreti promulgati lo scorso primo giugno, Benedetto XVI ha approvato la canonizzazione
e la beatificazione per 320 nuovi Servi e Serve di Dio. Per molti di loro, è stato
riconosciuto il martirio: è il caso del padre gesuita, Pietro Kibe Kasui, sacerdote
professo della Compagnia di Gesù, e di 187 Compagni - sacerdoti, religiosi e laici
- uccisi in Giappone nei primi decenni nel 1600: una delle parentesi tragiche della
nascita della Chiesa nel Paese orientale. Alessandro De Carolis ripercorre
la storia di due figure di questa lunga schiera di martiri:
“Questo
criminale ha raccolto elemosine per aiutare le vedove e i bambini orfani dei martiri
e perfino i missionari”. La scritta campeggia sul cartello trasportato dal carceriere
che sta scortando il prigioniero al luogo dell’esecuzione, in cima alla collina di
Nishizaka. Il “criminale” è Michael Kusurya, conosciuto con il “Buon Samaritano di
Nagasaki” per la sua instancabile azione di solidarietà verso i cristiani giapponesi
e i missionari Gesuiti, tutti vittime di espulsioni, feroci torture e assassinii.
E’ il 28 luglio 1633, il culmine di un periodo drammatico per la Chiesa in Giappone,
fondata circa 90 anni prima da S. Francesco Saverio. Dal 1587, gli shogun,
cioè “i marescialli della corona”, hanno cominciato a perseguitare i battezzati del
Sol Levante, che in pochi anni sono diventati circa 300 mila. Dietro la campagna anticristiana
vi è la gelosia dei buddisti ma anche l’odio verso l’accresciuta influenza di Spagna
e Portogallo, patria di molti dei missionari. L’ondata di violenza arriva a spazzare
quasi del tutto la comunità cattolica: sacerdoti, vecchi, padri e madri di famiglia,
bambini. Molti vengono mutilati e decapitati, altri condannati al rogo. E’ questo
anche il destino di Michael Kusurya, che sale la collina cantando i salmi e muore
legato al palo e bruciato vivo.
Con lui sale per
la stessa collina e nello stesso giorno Nicholas Keian Fukunaga. E’ un religioso
gesuita e un catechista molto apprezzato quando, nel 1614, viene espulso dal suo Paese
all’inizio della furiosa persecuzione decretata dallo shogun Taifusama. Dovrebbe
essere ordinato sacerdote ma non ci sono più vescovi in Giappone in grado di consacrarlo.
Intorno al 1620 Nicholas rientra clandestinamente in Giappone e riprende il suo lavoro.
Poi, nel 1633 riesplodono le persecuzioni. Nicholas viene a sepere del martirio di
34 sacerdoti e religiosi Gesuiti, 14 dei quali giapponesi. E in quell'anno è lui stesso
a cadere nelle mani dei carnefici. Ma in quel 28 luglio non viene bruciato come il
suo compagno di martirio sulla collina di Nishizaka. Il sadismo dei torturatori lo
spinge in fondo a un pozzo dove rimane tre giorni. Nicholas non cede. E alla domanda
se si sia rammaricato per qualcosa nella vita, Nicholas risponde ai carcerieri: “Sì,
di non aver saputo portare a Cristo tutti i giapponesi, a cominciare dallo shogun”.
Nelle ore successive, le sue parole e le sue preghiere salgono dal pozzo sempre più
debolmente finché si spengono del tutto. Nicholas muore il 31 luglio, festa di Sant’Ignazio
di Loyola.