Il Papa a Verona: i credenti siano testimoni, miti e forti, dell’amore, della gioia
e della verità per restituire alla fede cristiana piena cittadinanza
(19 ottobre 2006 - RV) “Essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori
della gioia e della speranza cristiana nel mondo”. Così Benedetto XVI a Verona ai
2700 delegati riuniti in Fiera per il al 4° Convegno ecclesiale della Chiesa italiana.
Il Papa guardando i mali della società come il relativismo e l’utilitarismo ha parlato
di un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza. Ha ribadito la centralità
e l’insostituibilità della famiglia, la difesa della vita sin dal suo inizio, l’importanza
della formazione cristiana permanente dalla “quale vengono i nostri “no” - ha detto
-a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà”, quindi ha
parlato del ruolo dei cristiani nella vita politica e richiamato alla missionarietà.
Nel pomeriggio, prima di rientrare a Roma, dove è giunto in serata, il Papa ha presieduto
la Concelebrazione Eucaristica nello Stadio Bentegodi. Linea al nostro inviato Massimiliano
Menichetti
Sul discorso
del Papa di questa mattina, Fabio Colagrande ha intervistato Padre Bartolomeo Sorge,
direttore di Aggiornamenti Sociali
E Tiziana
Campisi ha sentito il parere di Edo Patriarca del Forum del Terzo Settore
Ecco il
testo completo del discorso del Papa: *********** Cari fratelli e sorelle! Mi
rallegro di essere con voi oggi, in questa tanto bella e storica città di Verona,
per prendere parte attivamente al IV Convegno nazionale della Chiesa in Italia. Porgo
a tutti e a ciascuno il più cordiale saluto nel Signore. Ringrazio il Cardinale Camillo
Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale, e la Dottoressa Giovanna Ghirlanda,
rappresentante della Diocesi di Verona, per le gentili parole di accoglienza che mi
hanno rivolto a nome di voi tutti e per le notizie che mi hanno dato sullo svolgimento
del Convegno. Ringrazio il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Presidente del Comitato preparatorio,
e quanti hanno lavorato per la sua realizzazione. Ringrazio di cuore ognuno di voi,
che rappresentate qui, in felice armonia, le varie componenti della Chiesa in Italia:
il Vescovo di Verona, Mons. Flavio Roberto Carraro, che ci ospita, i Vescovi qui
convenuti, i sacerdoti e i diaconi, i religiosi e le religiose, e voi fedeli laici,
uomini e donne, che date voce alle molteplici realtà del laicato cattolico in Italia.
Questo
IV Convegno nazionale è una nuova tappa del cammino di attuazione del Vaticano II,
che la Chiesa italiana ha intrapreso fin dagli anni immediatamente successivi al grande
Concilio: un cammino di comunione anzitutto con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù
Cristo nello Spirito Santo e quindi di comunione tra noi, nell’unità dell’unico Corpo
di Cristo (cfr 1Gv 1,3; 1Cor 12,12-13); un cammino proteso all’evangelizzazione, per
mantenere viva e salda la fede nel popolo italiano; una tenace testimonianza, dunque,
di amore per l’Italia e di operosa sollecitudine per il bene dei suoi figli. Questo
cammino la Chiesa in Italia lo ha percorso in stretta e costante unione con il Successore
di Pietro: mi è grato ricordare con voi i Servi di Dio Paolo VI, che volle il I Convegno
nell’ormai lontano 1976, e Giovanni Paolo II, con i suoi fondamentali interventi ai
Convegni di Loreto e di Palermo, che hanno rafforzato nella Chiesa italiana la fiducia
di poter operare affinché la fede in Gesù Cristo continui ad offrire, anche agli uomini
e alle donne del nostro tempo, il senso e l’orientamento dell’esistenza ed abbia così
“un ruolo-guida e un’efficacia trainante” nel cammino della Nazione verso il suo futuro
(cfr Discorso al Convegno di Loreto, 11 aprile 1985, n. 7).
Il Signore risorto
e la sua Chiesa Nello stesso spirito sono venuto oggi a Verona, per pregare il
Signore con voi, condividere – sia pure brevemente – il vostro lavoro di queste giornate
e proporvi una mia riflessione su quel che appare davvero importante per la presenza
cristiana in Italia. Avete compiuto una scelta assai felice ponendo Gesù Cristo risorto
al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della
Chiesa in Italia. La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui
gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non
è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione”
mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova,
l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth,
ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per
questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza
cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande mistero,
certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo
incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza.
Ma la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può
essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché
tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più
forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva
donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente
alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore
la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà
la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione
di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte.
Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge
un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira
a sé.
Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza
della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione,
che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento
del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in
una vita nuova. E’ ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più
io che vivo, ma Cristo vive in me” (2,20). E’ stata cambiata così la mia identità
essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio
io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio
io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro,
nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo”
(Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento.
“Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo,
la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana
chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale. La nostra vocazione
e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento
effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha
intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini
nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia
e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini entro
la quale viviamo.
Il servizio della Chiesa in Italia alla Nazione, all’Europa
e al mondo L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso
e al contempo molto favorevole per una tale testimonianza. Profondamente bisognoso,
perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi
come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una
nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido
soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la
libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero
sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede
in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi
sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente,
sembra divenuto superfluo ed estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo
una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come
tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro
animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura,
che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà. Nella medesima
linea, l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo,
con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso.
Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale
e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose
e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le
altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a
non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e sulla direzione della nostra
vita. Perciò questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da
un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza.
L’Italia però, come accennavo,
costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana.
La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare
in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso
ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in atto un grande sforzo
di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma
ormai sempre più anche alle famiglie. È inoltre sentita con crescente chiarezza l’insufficienza
di una razionalità chiusa in se stessa e di un’etica troppo individualista: in concreto,
si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra
civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata espressamente
e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che
non condividono o almeno non praticano la nostra fede. La Chiesa e i cattolici italiani
sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto ad esserne
consapevoli. Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere, pertanto, quello di un
rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile
incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non
trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e
morale dell’Italia. Tocca a noi infatti – non con le nostre povere risorse, ma con
la forza che viene dallo Spirito Santo – dare risposte positive e convincenti alle
attese e agli interrogativi della nostra gente: se sapremo farlo, la Chiesa in Italia
renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo,
perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la
necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo.
Rendere
visibile il grande “sì” della fede Cari fratelli e sorelle, dobbiamo ora domandarci
come, e su quali basi, adempiere un simile compito. In questo Convegno avete ritenuto,
giustamente, che sia indispensabile dare alla testimonianza cristiana contenuti concreti
e praticabili, esaminando come essa possa attuarsi e svilupparsi in ciascuno di quei
grandi ambiti nei quali si articola l’esperienza umana. Saremo aiutati, così, a non
perdere di vista nella nostra azione pastorale il collegamento tra la fede e la vita
quotidiana, tra la proposta del Vangelo e quelle preoccupazioni e aspirazioni che
stanno più a cuore alla gente. In questi giorni avete riflettuto perciò sulla vita
affettiva e sulla famiglia, sul lavoro e sulla festa, sull’educazione e la cultura,
sulle condizioni di povertà e di malattia, sui doveri e le responsabilità della vita
sociale e politica.
Per parte mia vorrei sottolineare come, attraverso questa
multiforme testimonianza, debba emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù
Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà
e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti
la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero
e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica
la nostra esistenza. San Paolo nella Lettera ai Filippesi ha scritto: “Tutto quello
che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode,
tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (4,8). I discepoli di Cristo riconoscono
pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo,
come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la
libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa
fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto
storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni
della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai un semplice adattarsi
alle culture, ma è sempre anche una purificazione, un taglio coraggioso che diviene
maturazione e risanamento, un’apertura che consente di nascere a quella “creatura
nuova” (2Cor 5,17; Gal 6,15) che è il frutto dello Spirito Santo.
Come ho scritto
nell’Enciclica Deus caritas est, all’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’origine
della nostra testimonianza di credenti – non c’è una decisione etica o una grande
idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte
e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). La fecondità di questo incontro si manifesta,
in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto
in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie.
Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli
strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio
le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza:
la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è
il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente
formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura
è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande
domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente,
in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e
la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba
esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra.
Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos
creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e
alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà.
Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità,
riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia,
la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro
reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene
insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella
quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per
restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza. Il “progetto culturale”
della Chiesa in Italia è senza dubbio, a tal fine, un’intuizione felice e un contributo
assai importante. La persona umana. Ragione, intelligenza, amore La persona
umana non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, iscritto
nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a
sua volta. Perciò si interroga e spesso si smarrisce di fronte alle durezze della
vita, al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, radicalmente
privo di senso. In particolare nella nostra epoca, nonostante tutti i progressi compiuti,
il male non è affatto vinto; anzi, il suo potere sembra rafforzarsi e vengono presto
smascherati tutti i tentativi di nasconderlo, come dimostrano sia l’esperienza quotidiana
sia le grandi vicende storiche. Ritorna dunque, insistente, la domanda se nella nostra
vita ci possa essere uno spazio sicuro per l’amore autentico e, in ultima analisi,
se il mondo sia davvero l’opera della sapienza di Dio. Qui, molto più di ogni ragionamento
umano, ci soccorre la novità sconvolgente della rivelazione biblica: il Creatore del
cielo e della terra, l’unico Dio che è la sorgente di ogni essere ama personalmente
l’uomo, lo ama appassionatamente e vuole essere a sua volta amato da lui. Dà vita
perciò a una storia d’amore con Israele, il suo popolo, e in questa vicenda, di fronte
ai tradimenti del popolo, il suo amore si mostra ricco di inesauribile fedeltà e misericordia,
è l’amore che perdona al di là di ogni limite. In Gesù Cristo un tale atteggiamento
raggiunge la sua forma estrema, inaudita e drammatica: in Lui infatti Dio si fa uno
di noi, nostro fratello in umanità, e addirittura sacrifica la sua vita per noi. Nella
morte in croce si compie dunque “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli
si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale”,
nel quale si manifesta cosa significhi che “Dio è amore” (1 Gv 4,8) e si comprende
anche come debba definirsi l’amore autentico (cfr Enc. Deus caritas est, nn. 9-10
e 12).
Proprio perché ci ama veramente, Dio rispetta e salva la nostra libertà.
Al potere del male e del peccato non oppone un potere più grande, ma - come ci ha
detto il nostro amato Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dives in misericordia
e, da ultimo, nel libro Memoria e identità – preferisce porre il limite della sua
pazienza e della sua misericordia, quel limite che è, in concreto, la sofferenza del
Figlio di Dio. Così anche la nostra sofferenza è trasformata dal di dentro, è introdotta
nella dimensione dell’amore e racchiude una promessa di salvezza. Cari fratelli e
sorelle, tutto questo Giovanni Paolo II non lo ha soltanto pensato, e nemmeno soltanto
creduto con una fede astratta: lo ha compreso e vissuto con una fede maturata nella
sofferenza. Su questa strada, come Chiesa, siamo chiamati a seguirlo, nel modo e nella
misura che Dio dispone per ciascuno di noi. La croce ci fa giustamente paura, come
ha provocato paura e angoscia in Gesù Cristo (cfr Mc 14,33-36): essa però non è negazione
della vita, da cui per essere felici occorra sbarazzarsi. È invece il “sì” estremo
di Dio all’uomo, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigine della vita piena
e perfetta: contiene dunque l’invito più convincente a seguire Cristo sulla via del
dono di sé. Qui mi è caro rivolgere un pensiero di speciale affetto alle membra sofferenti
del corpo del Signore: esse, in Italia come ovunque nel mondo, completano quello che
manca ai patimenti di Cristo nella propria carne (cfr Col 1,24) e contribuiscono così
nella maniera più efficace alla comune salvezza. Esse sono i testimoni più convincenti
di quella gioia che viene da Dio e che dona la forza di accettare la croce nell’amore
e nella perseveranza.
Sappiamo bene che questa scelta della fede e della sequela
di Cristo non è mai facile: è sempre, invece, contrastata e controversa. La Chiesa
rimane quindi “segno di contraddizione”, sulle orme del suo Maestro (cfr Lc 2,34),
anche nel nostro tempo. Ma non per questo ci perdiamo d’animo. Al contrario, dobbiamo
essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos)
della nostra speranza, come ci invita a fare la prima Lettera di San Pietro (3,15),
che avete scelto assai opportunamente quale guida biblica per il cammino di questo
Convegno. Dobbiamo rispondere “con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza” (3,15-16),
con quella forza mite che viene dall’unione con Cristo. Dobbiamo farlo a tutto campo,
sul piano del pensiero e dell’azione, dei comportamenti personali e della testimonianza
pubblica. La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una
fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco
e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande
espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto
anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane
la strada maestra per l’evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità
tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l’evangelizzazione
dell’Italia e del mondo di oggi.
L’educazione In concreto, perché l’esperienza
della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione
all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona.
Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle
della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche
all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel
rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la
crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle
nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle
decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra
libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande
nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi
per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per
la persona umana e la sua formazione vengono i nostri “no” a forme deboli e deviate
di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione
soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi “no” sono piuttosto
dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio. Voglio
esprimere qui tutto il mio apprezzamento per il grande lavoro formativo ed educativo
che le singole Chiese non si stancano di svolgere in Italia, per la loro attenzione
pastorale alle nuove generazioni e alle famiglie. Tra le molteplici forme di questo
impegno non posso non ricordare, in particolare, la scuola cattolica, perché nei suoi
confronti sussistono ancora, in qualche misura, antichi pregiudizi, che generano
ritardi dannosi, e ormai non più giustificabili, nel riconoscerne la funzione e nel
permetterne in concreto l’attività.
Testimonianze di carità Gesù ci ha detto
che tutto ciò che avremo fatto ai suoi fratelli più piccoli lo avremo fatto a Lui
(cfr Mt 25,40). L’autenticità della nostra adesione a Cristo si verifica dunque specialmente
nell’amore e nella sollecitudine concreta per i più deboli e i più poveri, per chi
si trova in maggior pericolo e in più grave difficoltà. La Chiesa in Italia ha una
grande tradizione di vicinanza, aiuto e solidarietà verso i bisognosi, gli ammalati,
gli emarginati, che trova la sua espressione più alta in una serie meravigliosa di
“Santi della carità”. Questa tradizione continua anche oggi e si fa carico delle molte
forme di nuove povertà, morali e materiali, attraverso la Caritas, il volontariato
sociale, l’opera spesso nascosta di tante parrocchie, comunità religiose, associazioni
e gruppi, singole persone mosse dall’amore di Cristo e dei fratelli. La Chiesa in
Italia, inoltre, dà prova di una straordinaria solidarietà verso le sterminate moltitudini
dei poveri della terra. È quindi quanto mai importante che tutte queste testimonianze
di carità conservino sempre alto e luminoso il loro profilo specifico, nutrendosi
di umiltà e di fiducia nel Signore, mantenendosi libere da suggestioni ideologiche
e da simpatie partitiche, e soprattutto misurando il proprio sguardo sullo sguardo
di Cristo: è importante dunque l’azione pratica ma conta ancora di più la nostra partecipazione
personale ai bisogni e alle sofferenze del prossimo. Così, cari fratelli e sorelle,
la carità della Chiesa rende visibile l’amore di Dio nel mondo.
Responsabilità
civili e politiche dei cattolici Il vostro Convegno ha giustamente affrontato anche
il tema della cittadinanza, cioè le questioni delle responsabilità civili e politiche
dei cattolici. Cristo infatti è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive
nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio,
hanno avuto una dimensione e una valenza anche pubblica. Come ho scritto nell’Enciclica
Deus caritas est (cfr nn. 28-29), sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo
ha portato una novità sostanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano
e più libero, attraverso la distinzione e l’autonomia reciproca tra lo Stato e la
Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22,21). La stessa libertà
religiosa, che avvertiamo come un valore universale, particolarmente necessario nel
mondo di oggi, ha qui la sua radice storica. La Chiesa, dunque, non è e non intende
essere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene
della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un duplice livello
il suo contributo specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta
ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale pertanto, argomentata a partire
da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far
sì che ciò che è giusto possa essere efficacemente riconosciuto e poi anche realizzato.
A tal fine sono chiaramente indispensabili le energie morali e spirituali che consentano
di anteporre le esigenze della giustizia agli interessi personali, o di una categoria
sociale, o anche di uno Stato: qui di nuovo c’è per la Chiesa uno spazio assai ampio,
per radicare queste energie nelle coscienze, alimentarle e irrobustirle. Il compito
immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società
non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini
sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza,
al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con
coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità
di Cristo.
Una speciale attenzione e uno straordinario impegno sono richiesti
oggi da quelle grandi sfide nelle quali vaste porzioni della famiglia umana sono maggiormente
in pericolo: le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune terribili epidemie.
Ma occorre anche fronteggiare, con pari determinazione e chiarezza di intenti, il
rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e
principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano, in particolare
riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla
morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando
di introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero
a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo
sociale. La testimonianza aperta e coraggiosa che la Chiesa e i cattolici italiani
hanno dato e stanno dando a questo riguardo sono un servizio prezioso all’Italia,
utile e stimolante anche per molte altre Nazioni. Questo impegno e questa testimonianza
fanno certamente parte di quel grande “sì” che come credenti in Cristo diciamo all’uomo
amato da Dio.
Essere uniti a Cristo Cari fratelli e sorelle, i compiti e
le responsabilità che questo Convegno ecclesiale pone in evidenza sono certamente
grandi e molteplici. Siamo stimolati perciò a tenere sempre presente che non siamo
soli nel portarne il peso: ci sosteniamo infatti gli uni gli altri e soprattutto il
Signore stesso guida e sostiene la fragile barca della Chiesa. Ritorniamo così al
punto da cui siamo partiti: decisivo è il nostro essere uniti a Lui, e quindi tra
noi, lo stare con Lui per poter andare nel suo nome (cfr Mc 3,13-15). La nostra vera
forza è dunque nutrirci della sua parola e del suo corpo, unirci alla sua offerta
per noi, come faremo nella Celebrazione di questo pomeriggio, adorarlo presente nell’Eucaristia:
prima di ogni attività e di ogni nostro programma, infatti, deve esserci l’adorazione,
che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire. Nell’unione a Cristo
ci precede e ci guida la Vergine Maria, tanto amata e venerata in ogni contrada d’Italia.
In Lei incontriamo, pura e non deformata, la vera essenza della Chiesa e così, attraverso
di Lei, impariamo a conoscere e ad amare il mistero della Chiesa che vive nella storia,
ci sentiamo fino in fondo parte di essa, diventiamo a nostra volta “anime ecclesiali”,
impariamo a resistere a quella “secolarizzazione interna” che insidia la Chiesa nel
nostro tempo, in conseguenza dei processi di secolarizzazione che hanno profondamente
segnato la civiltà europea.
Cari fratelli e sorelle, eleviamo insieme al Signore
la nostra preghiera, umile ma piena di fiducia, affinché la comunità cattolica italiana,
inserita nella comunione vivente della Chiesa di ogni luogo e di tutti i tempi, e
strettamente unita intorno ai propri Vescovi, porti con rinnovato slancio a questa
amata Nazione, e in ogni angolo della terra, la gioiosa testimonianza di Gesù risorto,
speranza dell’Italia e del mondo.