Rinasce la speranza in Libano: la testimonianza di un padre gesuita
(4 ottobre 2006 - RV) E’ la sua terra di missione da sette anni: mai sarebbe scappato.
Ma ha dovuto lasciare il Paese dopo tredici giorni di guerra perché era già previsto
per lui uno spostamento temporaneo altrove. Non vede l’ora di tornarci. A raccontare
l’abbandono forzato del Libano nel pieno degli scontri tra esercito israeliano e milizie
hezbollah, è il padre gesuita di origine maltese Oliver Borg Olivier, docente di teologia
spirituale all’Università St. Joseph di Beirut. “Il Libano è tornato indietro di almeno
quindici anni – dice ai nostri microfoni -. Bisogna dare speranza a gente devastata”.
Ma come la popolazione ha accolto il contingente di pace ONU “UNIFIL2”? Il suo commento
nell’intervista di Antonella Palermo.
********** R. - Con molta gioia
e molta speranza, perché credo che la popolazione non ne possa più di situazioni di
guerra. E, infatti, lo stato di scoraggiamento attuale è tale che la gente dice: “Non
possiamo, ogni dieci anni, cominciare una nuova guerra per poi dover ricostruire tutto
da capo”.
D. – Che situazione ha lasciato?
R. – Da una parte
tragica, perché è un Paese che si stava rimettendo in piedi e nutriva speranze molto
grandi. Questa estate erano attesi un milione e mezzo di turisti e, per un Paese che
vive dell’industria del turismo, voleva dire tanto. Si aspettavano anche l’incontro
chiamato “Parigi due” di investitori che dovevano venire ad investire in Libano. Tutto
questo è saltato. Ci sono, comunque, segni di ripresa, visto proprio il grande movimento
di solidarietà di tutti i Paesi per aiutare il Libano nella ricostruzione economica,
soprattutto per quel che riguarda la ricostruzione delle case. Ma questa non è la
cosa più importante.
D. – Qual è la cosa più importante? R. – La cosa
più importante è prima di tutto dare di nuovo speranza alla popolazione, perché 250
mila libanesi hanno lasciato il Paese con la speranza di tornare, ma per il momento
non ne hanno tanta voglia, avendo ancora paura.
D. – I cristiani dove
sono? Quanti sono?
R. – I cristiani una volta erano la maggioranza, adesso
saranno il 30 o 33 per cento della popolazione. Purtroppo partono sempre di più, perchè
non vedono un avvenire chiaro per i loro figli. Li capisco, perché la situazione non
è facile. Allo stesso tempo è un peccato. Papa Giovanni Paolo II aveva una frase molto
bella per il Libano, che dice: “Il Libano è un messaggio per il mondo ed è un messaggio
proprio di convivenza possibile tra le varie religioni”. E’ sempre stato un Paese
di dialogo. Se i cristiani perdono di vista questo anche quel messaggio di speranza
si perde. Sì, ci sono problemi, c’è sofferenza, ma l’ultima parola non è mai di odio,
di morte.
D. – I giovani che tipo di risorse possono oggi mettere in campo
per questo Paese?
R. – L’hanno fatto durante la guerra con molta generosità,
cercando di aiutare la Caritas ed altri Organismi ad animare i campi dove c’erano
i profughi, che erano nelle scuole, nei conventi e così via. Credo che questo abbia
creato anche un dialogo nel quotidiano, tra la gente semplice, ed è stato molto bello.
Credo siano loro che potranno dare questa speranza, se sono capaci di fare la scelta.
Noi rimaniamo, perchè crediamo nel nostro Paese e perché la nostra fede ci aiuta.
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