2005-12-31 08:05:51

Il cardinale Sepe sui missionari martiri nel 2005


(30 dicembre 2005 - RV) Anche l’anno che sta per chiudersi ha conosciuto un tragico tributo di sangue per la fede: religiosi, religiose, sacerdoti e laici che in diverse parti del mondo hanno pagato a prezzo della vita il servizio a Cristo, alla Chiesa e ai fratelli. Di questo Giovanni Peduto ha parlato con il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli: RealAudioMP3

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R. - Prima del numero vorrei dire che la testimonianza di tanti missionari, di tanti che hanno donato la vita a Cristo fa parte un po’ della natura stessa della Chiesa. In più di 2000 anni di storia della Chiesa, non c’è stato un anno in cui la Chiesa non ha potuto scrivere nel suo martirologio quanti hanno dato la vita. Naturalmente questa situazione dipende da tante cause. Quest’anno 2005 purtroppo registra quasi un raddoppio rispetto al 2004. Sono 26 tra vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, laici. Sono missionari ad gentes, cioè quelli che sono partiti per evangelizzare, testimoniare Cristo presso i fratelli che ancora non lo conoscono, e sono anche persone del posto che per diverse cause e situazioni sono morti per la loro identità cattolica, sacerdotale o religiosa.

D. – In molti casi questi eroi che hanno perso la vita erano consapevoli di essere in situazioni difficili. Quali frutti restano della loro fermezza nel voler annunciare Cristo?

R. – Io credo che ognuno sia cosciente di vivere in certe situazioni particolari. Il missionario che lascia la sua terra e va a vivere in una terra spesso poco ospitale da un punto di vista climatico, sociale e religioso è cosciente di quello che trova. Ognuno che parte porta il suo bagaglio e quindi anche questa consapevolezza di possibili sacrifici, fino alla morte. Fa parte della missionarietà di ognuno che accoglie l’invito di Cristo di andare. Naturalmente chi dà la sua vita semina sempre qualcosa. I fedeli, la gente, di fronte a queste testimonianze, non rimangono indifferenti. Abbiamo avuto dei casi anche quest’anno in cui la morte di qualche vescovo, missionario e missionaria ha visto la partecipazione di grandi folle di fedeli, ma spesso anche di autorità civili. Cioè c’è stato un coinvolgimento di tutti, credenti o non credenti, cristiani o non cristiani, di fronte alla testimonianza di questi nostri missionari.

D. – Nella cronaca di alcuni degli episodi drammatici ricorre spesso un elemento che colpisce moltissimo: la serenità con cui si affronta l’ingiustificata violenza. Le è rimasto in mente un episodio in particolare?

R. – Questa è una caratteristica del missionario. La coscienza e la consapevolezza di vivere la propria testimonianza per i fratelli li porta a quella serenità di spirito, li porta a vivere queste ore drammatiche un po’ come Santo Stefano: col volto sereno nel momento in cui dà la vita per il Signore. L’esempio recente del missionario che in un villaggio africano, avendo investito una bambina, è rimasto sul posto nonostante che tutti gli chiedessero di andare via sapendo la reazione della gente. Il coraggio con cui ha affrontato gli aggressori, il sorriso e la parola di perdono sulle sue labbra mentre veniva ucciso, sono proprio quelle note particolari del testimone, del martire che offre fino alla fine con serenità e con gioia la sua vita per il Signore e per i fratelli.
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