"Conosco bene la situazione penosa che la rottura dell’unità nella professione della
fede ha comportato per tante persone e tante famiglie", così il Papa nell'incontro
ecumenico a Colonia
(19 agosto 2005 - ore 18.00) Nell’Arcivescovado di Köln si è svolto nel pomeriggio
di venerdì un incontro ecumenico a cui hanno partecipato circa 30 rappresentanti delle
diverse Confessioni cristiane della Germania. Dopo i saluti del Presidente della
Conferenza episcopale tedesca, il cardinale Karl Lehmann, e quello del Vescovo luterano
Wolfang Huber, di Berlino, Benedetto XVI si è rivolto così ai presenti:
Cari
fratelli e care sorelle! dopo una giornata impegnativa concedetemi di rimanere
seduto. Ciò non significa che io voglia parlare «ex cathedra». Mi scuso anche per
il ritardo. Purtroppo i Vespri hanno richiesto più tempo del previsto e il traffico
è stato più lento di quanto si potesse immaginare. Desidero ora esprimere la gioia
di potere, in occasione di questa mia visita in Germania, incontrare e salutare molto
cordialmente Voi, rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali.
Provenendo
io stesso da questo Paese, conosco bene la situazione penosa che la rottura dell'unità
nella professione della fede ha comportato per tante persone e tante famiglie. Anche
per questo motivo, subito dopo la mia elezione a Vescovo di Roma, quale Successore
dell'apostolo Pietro, ho manifestato il fermo proposito di assumere il ricupero della
piena e visibile unità dei cristiani come una priorità del mio Pontificato. Con ciò
ho consapevolmente voluto ricalcare le orme di due miei grandi Predecessori: di Paolo
VI che, ormai più di quarant'anni fa, firmò il Decreto conciliare sull'ecumenismo
Unitatis redintegratio, e di Giovanni Paolo II, che fece poi di questo documento il
criterio ispiratore del suo agire.
La Germania nel dialogo ecumenico riveste
senza dubbio un posto di particolare importanza. Noi siamo il Paese d'origine della
Riforma; però la Germania è anche uno dei Paesi da cui è partito il movimento ecumenico
del XX secolo. A seguito dei flussi migratori del secolo scorso, anche cristiani delle
Chiese ortodosse e delle antiche Chiese dell'Oriente hanno trovato in questo Paese
una nuova patria. Ciò ha indubbiamente favorito il confronto e lo scambio, cosicché
ora esiste fra noi un dialogo a tre.
Insieme ci rallegriamo nel constatare
che il dialogo, col passare del tempo, ha suscitato una riscoperta della nostra fratellanza
e creato tra i cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali un clima più aperto
e fiducioso. Il mio venerato Predecessore nella sua Enciclica Ut unum sint (1995)
ha indicato proprio in questo un frutto particolarmente significativo del dialogo
(cfr nn. 41s.; 64).
Ritengo che non sia poi così scontato che ci consideriamo
veramente fratelli, che ci amiamo, che ci sentiamo insieme testimoni di Gesù Cristo.
Questa fraternità è in sé, come credo, un frutto molto importante del dialogo, di
cui dobbiamo essere lieti e che dovremmo continuare a curare e a praticare. La
fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce
da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata, come Lei, illustre
Vescovo, ha appena detto, sulla realtà soprannaturale dell'unico Battesimo, che ci
inserisce tutti nell'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12, 13; Gal 3, 28; Col 2, 12).
Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico
mediatore tra Dio e gli uomini (cfr 1 Tm 2, 5), sottolineando la nostra comune appartenenza
a Lui (cfr Unitatis redintegratio, 22; Ut unum sint, 42).
A partire da questo
essenziale fondamento del Battesimo, che è una realtà da Lui proveniente, una realtà
nell'essere e poi nel professare, nel credere e nell'agire, a partire da questo decisivo
fondamento il dialogo ha portato i suoi frutti e continuerà a farlo. Vorrei menzionare
il riesame, auspicato da Papa Giovanni Paolo II durante la sua prima visita in Germania,
delle reciproche condanne.
Penso con un po' di nostalgia a quella prima visita.
Ho potuto essere presente quando eravamo insieme a Magonza in un circolo relativamente
piccolo e autenticamente fraterno. Furono poste delle questioni e il Papa elaborò
una grande visione teologica, nella quale la reciprocità aveva un suo spazio. Da
quel colloquio scaturì poi la commissione a livello episcopale e cioè ecclesiale,
sotto la responsabilità ecclesiale, che con l'aiuto dei teologi portò infine all'importante
risultato della «Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione» del 1999
e a un accordo su questioni fondamentali che fin dal XVI secolo erano state oggetto
di controversie.
Bisogna inoltre riconoscere con gratitudine i risultati costituiti
dalle varie comuni prese di posizione su importanti argomenti quali le fondamentali
questioni sulla difesa della vita e sulla promozione della giustizia e della pace.
Sono ben consapevole che molti cristiani in Germania, e non solo qui, si aspettano
ulteriori passi concreti di avvicinamento e anche io me li aspetto. Infatti è il
comandamento del Signore, ma anche l'imperativo dell'ora presente, di continuare in
modo convinto il dialogo a tutti i livelli della vita della Chiesa. Ciò deve ovviamente
avvenire con sincerità e realismo, con pazienza e perseveranza nella fedeltà al dettato
della coscienza, nella consapevolezza che è il Signore, che poi dona l'unità, che
non siamo noi a crearla, che è Lui a donarla, ma che dobbiamo andargli incontro.
Non
intendo sviluppare qui un programma per i temi immediati del dialogo. Questo è compito
dei teologi in collaborazione con i Vescovi: i teologi sulla base della loro conoscenza
del problema, i Vescovi a partire dalla loro conoscenza della situazione concreta
delle Chiese nel nostro Paese e nel mondo.
Mi sia concessa soltanto una piccola
annotazione: si dice che ora, dopo il chiarimento relativo alla Dottrina della giustificazione,
l'elaborazione delle questioni ecclesiologiche e delle questioni relative al ministero
sia l'ostacolo principale che rimane da superare. Ciò in definitiva è vero, ma devo
anche dire che non amo questa terminologia e da un certo punto di vista questa delimitazione
del problema, poiché sembra che ora dovremmo dibattere delle istituzioni invece che
della Parola di Dio, come se dovessimo porre al centro le nostre istituzioni e fare
per esse una guerra. Penso che in questo modo il problema ecclesiologico così come
quello del «ministerium» non vengano affrontati correttamente.
La questione
vera è la presenza della Parola nel mondo. La Chiesa primitiva nel secondo secolo
ha preso una triplice decisione: innanzitutto di stabilire il canone, sottolineando
in tal modo la sovranità della Parola e spiegando che non solo il Vecchio Testamento
è «hai graphai», ma che il Nuovo Testamento costituisce con esso un'unica Scrittura
e in tal modo è per noi il nostro vero sovrano. Ma al contempo la Chiesa ha formulato
la successione apostolica, il ministero episcopale, nella consapevolezza che la Parola
e il testimone vanno insieme, che cioè la Parola è viva e presente solo grazie al
testimone e, per così dire, da esso riceve la sua interpretazione, e che reciprocamente
il testimone è tale solo se testimonia la Parola. E infine, la Chiesa ha aggiunto
come terza cosa la «regula fidei» quale chiave interpretativa. Credo che questa vicendevole
compenetrazione costituisca oggetto di dissenso fra noi, sebbene siamo uniti su cose
fondamentali. Quindi, quando parliamo di ecclesiologia e di ministero, dovremmo
parlare preferibilmente di questo intreccio di Parola, testimone e regola di fede
e considerarlo come questione ecclesiologica e quindi insieme come questione della
Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, in quanto il Signore affida
la sua Parola ai testimoni e ne concede l'interpretazione, che però deve commisurarsi
sempre alla «regula fidei» e alla serietà della Parola. Scusatemi se ho espresso
qui un'opinione personale, ma mi sembrava giusto farlo.
Una priorità urgente
nel dialogo ecumenico è costituita poi dalle grandi questioni etiche poste dal nostro
tempo; in questo campo gli uomini di oggi in ricerca si aspettano con buona ragione
una risposta comune da parte dei cristiani, che, grazie a Dio, in molti casi si è
trovata. Esistono talmente tante dichiarazioni comuni della Conferenza Episcopale
Tedesca e della Chiesa Evangelica in Germania, che possiamo solo esserne grati. Ma
purtroppo non sempre questo avviene. A causa di contraddizioni in questo campo la
testimonianza evangelica e l'orientamento etico che dobbiamo ai fedeli e alla società
perdono di forza, assumendo non di rado caratteristiche vaghe, e così veniamo meno
al nostro dovere di dare al nostro tempo la testimonianza necessaria. Le nostre divisioni
sono in contrasto con la volontà di Gesù e ci rendono inattendibili davanti agli uomini.
Penso che dovremmo impegnarci con rinnovata energia e dedizione a recare una testimonianza
comune nell'ambito di queste grandi sfide etiche del nostro tempo.
Ed ora chiediamoci:
che cosa significa ristabilire l'unità di tutti i cristiani? Sappiamo tutti che
esistono numerosi modelli di unità e voi sapete anche che la Chiesa cattolica si prefigge
il raggiungimento della piena unità visibile dei discepoli di Gesù Cristo secondo
la definizione che ne ha dato il Concilio Ecumenico Vaticano II in vari suoi documenti
(cfr Lumen gentium, nn. 8;13; Unitatis redintegratio, nn. 2; 4 ecc.). Tale unità,
secondo la nostra convinzione, sussiste, sì, nella Chiesa cattolica senza possibilità
di essere perduta (cfr Unitatis redintegratio, n. 4); la Chiesa infatti non è scomparsa
totalmente dal mondo.
D'altra parte questa unità non significa quello che si
potrebbe chiamare ecumenismo del ritorno: rinnegare cioè e rifiutare la propria storia
di fede. Assolutamente no! Non significa uniformità in tutte le espressioni della
teologia e della spiritualità, nelle forme liturgiche e nella disciplina. Unità nella
molteplicità e molteplicità nell'unità: nell'Omelia per la solennità dei santi apostoli
Pietro e Paolo, lo scorso 29 giugno, ho rilevato che piena unità e vera cattolicità
nel senso originario della parola vanno insieme. Condizione necessaria perché questa
coesistenza si realizzi è che l'impegno per l'unità si purifichi e si rinnovi continuamente,
cresca e maturi.
A questo scopo può recare un suo contributo il dialogo. Esso
è più di uno scambio di pensieri, di un'impresa accademica: è uno scambio di doni
(cfr Ut unum sint, n. 28), nel quale le Chiese e le Comunità ecclesiali possono mettere
a disposizione i loro tesori (cfr Lumen gentium, nn. 8; 15; Unitatis redintegratio,
nn. 3; 14s; Ut unum sint, nn. 10-14). È proprio grazie a questo impegno che il cammino
può proseguire passo passo fino a quando, come dice la Lettera agli Efesini, finalmente
arriveremo «tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo
stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef
4, 13). È ovvio che un tale dialogo può svilupparsi solo in un contesto di sincera
e coerente spiritualità. Non possiamo «fare» l'unità con le sole nostre forze. La
possiamo soltanto ottenere come dono dello Spirito Santo. Perciò l'ecumenismo spirituale,
e cioè la preghiera, la conversione e la santificazione della vita costituiscono il
cuore dell'incontro e del movimento ecumenico (cfr Unitatis redintegratio, n. 8; Ut
unum sint, nn. 15s; 21 ecc.). Si potrebbe anche dire: la forma migliore di ecumenismo
consiste nel vivere secondo il Vangelo.
Desidero anche io in questo contesto
ricordare il grande pioniere dell'unità, Padre Roger Schutz, che è stato strappato
alla vita in modo così tragico. Lo conoscevo personalmente da tempo e avevo con lui
un rapporto di cordiale amicizia. Mi ha spesso reso visita e, come ho già detto a
Roma, il giorno della sua uccisione ho ricevuto una sua lettera che mi è rimasta nel
cuore perché in essa sottolineava la sua adesione al mio cammino e mi annunciava
di volermi venire a trovare. Ora ci visita dall'alto e ci parla. Penso che dovremmo
ascoltarlo, ascoltare dal di dentro il suo ecumenismo vissuto spiritualmente e
lasciarci condurre dalla sua testimonianza verso un ecumenismo interiorizzato e spiritualizzato.
Vedo
un confortante motivo di ottimismo nel fatto che oggi si sta sviluppando una sorta
di «rete» di collegamento spirituale tra cattolici e cristiani delle varie Chiese
e Comunità ecclesiali: ciascuno si impegna nella preghiera, nella revisione della
propria vita, nella purificazione della memoria, nell'apertura della carità.
Il
padre dell'ecumenismo spirituale, Paul Couturier, ha parlato a questo riguardo di
un «chiostro invisibile», che raccoglie tra le sue mura queste anime appassionate
di Cristo e della sua Chiesa. Io sono convinto che, se un numero crescente di persone
si unirà interiormente alla preghiera del Signore «perché tutti siano una sola cosa»
(Gv 17, 21), una tale preghiera nel nome di Gesù non cadrà nel vuoto (cfr Gv 14, 13;
15, 7.16 ecc.).
Con l'aiuto che viene dall'Alto, troveremo, nelle varie questioni
tuttora aperte, soluzioni praticabili, e il desiderio di unità alla fine, quando e
come Egli vorrà, sarà appagato. Ora andiamo insieme lungo questa via nella consapevolezza
che l'essere in cammino insieme è un tipo di unità. Rendiamo grazie a Dio per
questo e preghiamolo affinché continui a guidarci tutti.