(25 luglio 2005 - RV) Confrontarsi sulle scoperte scientifiche più recenti nel campo
della prevenzione e della terapia dell’HIV/AIDS: con questo obiettivo, oltre 6 mila
operatori sanitari di 130 Paesi sono riuniti da oggi fino a mercoledì a Rio de Janeiro,
in Brasile, per la III Conferenza promossa dalla Società internazionale dell’AIDS.
Il virus per la prima volta è stato individuato, anche se non identificato, a Los
Angeles nel 1980. Attualmente colpisce 45 milioni di persone, con 5 milioni di nuovi
malati ogni anno, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. Tra le aree ad alta
concentrazione, figurano inoltre il Sud-Est asiatico, l’America Latina e, recentemente,
l’Europa dell’Est. Ma come è cambiata l’epidemia nel corso di questi 25 anni, in termini
di diffusione e di cure? Roberta Moretti lo ha chiesto al prof. Ferdinando Aiuti,
presidente dell’ANLAIDS, l’Associazione nazionale italiana per la lotta contro l’AIDS:
********** R.
– In Africa la situazione più o meno è rimasta la stessa. Ha sempre colpito tutta
la popolazione indiscriminatamente. In Europa, invece, all’inizio degli anni Ottanta
erano colpiti prevalentemente i tossico-dipendenti e gli omosessuali, mentre oggi
il 50 per cento sono eterosessuali. Sono diminuiti molti casi nei bambini, grazie
alla prevenzione e anche alle terapie in gravidanza. In Italia la situazione possiamo
definirla stabile da circa 8 anni, con un numero di 4.000-4.500 casi di infezione
da HIV all’anno.
D. – Quali sono le scoperte più recenti nel campo della prevenzione
e della terapia dell’HIV-Aids?
R.- Ogni anno vengono prodotti nuovi farmaci
sempre più efficaci, sempre meno
tossici e con una migliore possibilità
di utilizzo da parte dei pazienti di queste terapie antiretrovirali. Purtroppo, però,
ogni anno il virus muta e quindi si creano resistenze. E’ sempre una corsa che la
ricerca e la scienza fanno. Sicuramente, un dato di fatto c’è: nei Paesi sviluppati
che hanno possibilità economiche, questi farmaci riescono ad aggredire il virus e
contenere l’infezione. Ovviamente non riescono ancora a dare la guarigione completa.
D.
– In questo senso, che differenza c’è in termini di aspettativa di vita tra l’ammalarsi
di HIV-Aids in un Paese sviluppato piuttosto che in uno in via di sviluppo?
R.
– Nei Paesi sviluppati l’attesa di vita è almeno di 20 anni, forse anche di più con
i nuovi farmaci. Nei Paesi in via di sviluppo, purtroppo, nella metà dei soggetti
la diagnosi viene fatta troppo tardi; solo il 5 per cento della popolazione riceve
i farmaci e la vita media è al massimo di 8-10 anni. I bambini a migliaia si infettano
perché c’è la trasmissione dalla mamma che non si riesce a contenere se non in pochi
casi.
D. - In genere, qual è la risposta politica ed economica al virus?
R.
– Dopo il silenzio, dopo il dramma dell’Africa negli ultimi tre-quattro anni, ci sono
state varie iniziative non solo del G8 ma anche dell’UNAIDS, della Banca Mondiale
del Global Found per cercare di sopperire a queste carenze. Quindi i farmaci cominciano
ad arrivare. Ci sono migliori condizioni di vita. Il problema dell’Africa, soprattutto,
va diviso in due grossi concetti. Uno è quello dell’arrivo di farmaci e dell’assistenza
nelle grosse città, dove siamo già a un buon punto, e l’altro è invece quello della
completa assenza dell’assistenza sanitaria nell’area rurale dell’Africa subsahariana.
D.
– Quindi c’è un impegno più forte, più deciso degli Stati per cercare di fronteggiare
il problema?
R. – Penso che si risolva con questi aiuti che devono arrivare
dai Paesi sviluppati, che dovrebbero comprare i farmaci a basso costo per i Paesi
meno sviluppati. Oppure, si potrebbe investire in tecnologie per fare sviluppare la
ricerca in quei Paesi e quindi poi produrre in loco i farmaci nuovi e i brevetti.
Questa è un’altra soluzione e sarebbe l’ottimale. **********