Il senso del dolore e della morte nel magistero del Papa
Il dolore umano vissuto nella fede e trasformato dall’amore alla Croce. La morte come
“Pasqua”, come passaggio all’altra vita. Questi pensieri hanno guidato Giovanni Paolo
II lungo i ventisei anni del suo ministero petrino, specialmente nell’ultimo tratto,
quando la sofferenza sopportata con coraggio è divenuta essa stessa l’icona della
predicazione del Papa: flebile nella voce, ma incisiva nella testimonianza. Per ripercorrere
l’insegnamento del Pontefice scomparso sul senso cristiano del dolore e della morte,
ascoltiamo il servizio di Alessandro De Carolis:
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(musica)
“Carissimi fratelli e sorelle, alle 21.37 il nostro amatissimo Santo Padre Giovanni
Paolo II è tornato alla Casa del Padre”.
(musica)
Non parla di morte ma di risurrezione, la semplice frase con cui dalla folla di Piazza
San Pietro alle folle del mondo riverbera “la” notizia, la sera del 2 aprile: il Papa
ha compiuto l’ultimo passo del suo lungo tragitto terreno ed è tornato tra le braccia
di Dio. In quella frase c’è tutto il senso profondo della speranza cristiana: la morte
è un passaggio dalla vita terrena alla visione di Dio, nella sua Casa. Tuttavia, quello
che la fede insegna non annulla il timore umano della morte, della notte dello spirito,
o del dolore fisico, specie se esso arriva dopo un periodo di agonia. Le domande ineluttabili
sul perché del dolore e della morte non potevano non sollecitare l’insegnamento di
un Pontefice così attento all’uomo, e così provato egli stesso, più avanti, da una
sofferenza lentamente impossessatasi del suo corpo.
L’11 febbraio 1984, meno di cinque anni e mezzo dall’inizio del Pontificato, Giovanni
Paolo II firma una Lettera apostolica che affronta direttamente l’argomento: la Salvifici
doloris. Al dolore e alla morte, viste in sé, non ci sono risposte adeguate, spiega
subito. Ma da due millenni, l’uomo è stato reso partecipe di un mistero che parla
di morte, di risurrezione e di amore. In quel mistero, dolore e morte hanno la loro
spiegazione:
“Il Verbo incarnato si è fatto incontro alla nostra debolezza assumendola su di sé
nel mistero della Croce. Da allora ogni sofferenza ha acquistato una possibilità di
senso, che la rende singolarmente preziosa. Da duemila anni, dal giorno della Passione,
la Croce brilla come somma manifestazione dell’amore che Iddio ha per noi. Chi sa
accoglierla nella sua vita sperimenta come il dolore, illuminato dalla fede, diventi
fonte di speranza e di salvezza”.
La Croce di Gesù: è lì il segreto di un dolore “illuminato”, di una speranza che
diventa salvezza. Ma il dolore può affacciarsi sotto molte forme nella vita di un
uomo, di una donna, di un giovane, di un anziano. La malattia, ad esempio. Giovanni
Paolo II ne è consapevole e, nuovamente, trova la risposta sul simbolo che domina
il Calvario:
“Il dolore e la malattia fanno parte del mistero dell’uomo sulla terra. Certo, è giusto
lottare contro la malattia, perché la salute è un dono di Dio. Ma è importante anche
saper leggere il disegno di Dio quando la sofferenza bussa alla nostra porta. La “chiave”
di tale lettura è costituita dalla Croce di Cristo”.
Ancora e sempre la Croce, dunque. E Giovanni Paolo II non diluisce l’impatto di questa
consapevolezza, che rende il cristiano degno di questo nome, neanche quando affronta
questo discorso con i giovani:
“Il mistero della Croce gloriosa diventa per loro il grande dono ed insieme il segno
della maturità della fede. Con la sua Croce, simbolo universale dell’Amore, Cristo
guida i giovani del mondo nella grande “assemblea” del regno di Dio, che trasforma
i cuori e le società”.
Il mistero della Croce è il miracolo che Gesù paga con il suo sangue, “traendo - si
legge nella Salvifici doloris - il bene dal male”, sacrificando la sua innocenza per
i peccati dell’umanità e vincendo così Satana, “l’artefice del male”. All’uomo che
man mano prende la sua croce, “unendosi spiritualmente a quella di Cristo - scrive
Giovanni Paolo II – si rivela “il senso salvifico della sofferenza”:
“La sofferenza non può non far paura! Ma proprio nella sofferenza redentrice di Cristo
c’è la vera risposta alla sfida del dolore, che tanto pesa sulla nostra condizione
umana. Cristo infatti ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri
dolori ponendoli, mediante la Croce e la sua Risurrezione, in una luce nuova di speranza
e di vita”.
Croce e Risurrezione, speranza e vita: attraverso un dolore trasformato, attraverso
una sofferenza di cui, in quest’ottica, dice il Papa, si è superato “il senso d’inutilità”.
Siamo così al punto di partenza:
“Esse richiamano la prospettiva di fondo della fede cristiana che, anche nell'esperienza
della malattia e della stessa morte, è sempre aperta alla vita. Il credente sa di
poter contare sulla potenza di Dio creatore, di Cristo risorto e dello Spirito vivificante”.
Fa impressione leggere cosa scriveva ventuno anni prima della sua morte, un giovane
Giovanni Paolo II: “Allorché un corpo è profondamente malato, totalmente inabile e
l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore
maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini
sani e normali”. Non sapeva il Papa di scrivere di se stesso. Ed è esattamente questa
la commovente lezione che ci ha lasciata. Fino all’ultimo: con la Croce sollevata
durante l’ultima Via Crucis come un vessillo, come l’estremo atto di fede cui ancorarsi
verso il cielo. Giacché la morte, aveva detto altrove, “è un dono per superare se
stesso”.