Dieci anni fa gli accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi
Ha sollevato un’ondata di ‘no’ nel mondo intero il via libera – in linea di principio
anche se ancora non operativo – all’espulsione del presidente dell'Autorità nazionale
palestinese, Yasser Arafat, dai territori occupati.
L’annuncio, fatto due giorni
fa dal governo israeliano, preoccupa soprattutto per il pericolo di vedere completamente
annullata la “road map”, cioè il piano messo a punto dal cosiddetto quartetto, Usa,
Ue, Onu e Russia, con l’obiettivo di far nascere entro il 2005 uno stato palestinese
indipendente e sovrano, in pace con Israele.
Ma come valutare l’ipotesi dell’espulsione
di Arafat? Fausta Speranza lo ha chiesto al direttore del Centro italiano per la pace
in Medio Oriente, Janiki Cingoli:
R. – La questione è che, in sé, la risposta
di Israele sarebbe una risposta sbagliata perché non è che espellendo Arafat risolva
nessun problema. Anzi, Arafat all’estero probabilmente potrebbe influire sull’opinione
pubblica mondiale ed avere una voce più forte di quanto non l’abbia chiuso nel palazzo
della Mukata. D’altra parte, forse il governo israeliano pensa che così potrebbe influenzare
meno direttamente gli apparati sul posto, soprattutto gli apparati di sicurezza che
loro ritiene essere strettamente intrecciati con le stesse attività terroristiche,
soprattutto alcuni. Quello che gli israeliani rimproverano ad Arafat è la sua doppiezza,
la sua incapacità di scegliere tra opzione diplomatica ed opzione terroristica. In
questo momento è molto alto l’allarme per il fatto che è ripresa la stagione del terrore,
con Hamas, e quindi il tentativo coraggioso di Abu Mazen è sostanzialmente fallito,
cioè il tentativo di rilanciare la scelta diplomatica, ponendo un termine al terrorismo.
In questa recrudescenza del terrorismo di Hamas ha avuto probabilmente un ruolo molto
pesante la scelta israeliana di riprendere gli omicidi mirati contro i leader delle
organizzazioni terroristiche. Anche questa è una soluzione che – certo – non porta
molto lontano perché innesca di nuovo una spirale violenza-terrore.
D. – Da
parte della comunità internazionale, quale impegno è possibile oltre a questo ‘no’
all’ipotesi dell’espulsione di Arafat?
R. – In questo momento ho l’impressione
che si debba andare in doppia direzione. Se i palestinesi non riescono a fermare l’escalation
terroristica e se i palestinesi continuano a tollerare l’esistenza di diversi eserciti,
di diverse bande armate, oltre a quelle ufficiali dell’Autorità palestinese, questa
situazione non durerà a lungo. E’ molto probabile che si possa ritornare alla situazione
di occupazione totale preesistente agli Accordi di Oslo. D’altra parte, questo rappresenterebbe
un costo terribile per gli stessi israeliani, anche in termini economici. Diventerebbero
essi responsabili di quella popolazione palestinese. Quindi, la pressione va fatta
sugli israeliani perché non facciano precipitare la situazione, ma contestualmente
va fatta sui palestinesi perché facciano scelte adeguate alla gravità del momento,
uscendo dalla doppiezza che fino adesso ha contraddistinto l’attività e l’azione della
loro leadership.
D. – Gli Accordi di Oslo sono stati firmati il 13 settembre
del 1993: a dieci anni di distanza, che cosa sopravvive di quel tentativo?
R.
– Credo che sopravviva il percorso fatto e poi credo che le due parti abbiano imparato
a conoscersi molto meglio. Sopravvive ancora qualche barlume dell’Autorità nazionale
palestinese e inoltre non è totalmente annullata l’acquisizione di capacità autonoma
di dirigere se stessi nella leadership palestinese. Credo che tutti siano consapevoli
che sarà ad un certo momento necessario tornare al punto in cui si è arrivati a Camp
David e a Taba. Il problema è se le parti decidono di spargere un bel po’ di sangue
in più per sedersi più forti al tavolo delle trattative: questo è il dubbio terribile
che ci attanaglia.