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Sommario del 06/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Esercizi spirituali. P. Michelini: umili, per ascoltarci gli uni gli altri

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Ascolto la voce del Signore, che parla in modo umile, oppure metto il mio personale tornaconto davanti al Regno di Dio? Stamani nella prima meditazione degli Esercizi spirituali predicati a Papa Francesco e alla Curia Romana, padre Giulio Michelini esorta i 74 presenti a porsi alcune domande sulla propria vita spirituale. Base di partenza della meditazione odierna è "la confessione di Pietro e il cammino di Gesù verso Gerusalemme" nel Vangelo di Matteo. Ieri pomeriggio l'introduzione agli Esercizi spirituali, che si tengono ad Ariccia fino a venerdì mattina. Il servizio di Debora Donnini

Gli Esercizi spirituali vengono scanditi dalla preghiera della Liturgia delle ore e dalle due meditazioni quotidiane, che passano dall’interpretazione dei testi al risvolto esistenziale. Gesù prendeva le sue decisioni nella preghiera non attraverso sogni o maghi, come faceva invece Alessandro Magno, secondo il racconto di Plutarco. Padre Michelini quindi esorta i presenti a domandarsi come si prendano le decisioni importanti della propria vita:

“Sulla base di quale criterio faccio discernimento? Decido d’impulso, mi lascio prendere dall’abitudine, metto me stesso e il mio tornaconto personale davanti al Regno di Dio? Ascolto la voce di Dio, che parla in modo umile?”.

Pietro e la tradizione rabbinica sulla voce di Dio attraverso i piccoli: umiltà di ascoltarci
Quindi padre Michelini si concentra sulla figura di Pietro e sulla tradizione rabbinica. Pietro riconosce che Gesù è il Messia per rivelazione. Da qui il francescano suggerisce che il Padre abbia parlato non solo per mezzo del Figlio, ma abbia parlato al Figlio, Gesù, anche attraverso Pietro. E’ Gesù che rivela poco per volta la sua vocazione, ma compie gesti anche perché sollecitato da altri. Nella vita di Gesù di Nazareth – spiega il francescano – molto spazio è lasciato agli incontri, che incidono sulla sua missione. Secondo la tradizione giudaica, poi, con la fine della grande profezia, si riteneva che Dio continuasse a parlare in modi molto umili, come ad esempio attraverso la voce dei bambini e dei folli. Con una comunicazione simile al sussurro di un vento leggero come accadde ad Elia sul monte Oreb. E padre Michelini lancia ai presenti un'altra occasione  di riflessione:

“Ho l’umiltà di ascoltare Pietro? Abbiamo l’umiltà di ascoltarci gli uni gli altri, facendo attenzione ai pregiudizi o alle pre-letture che certamente abbiamo, ma attenti a cogliere quello che Dio vuole dire nonostante – magari – le mie chiusure? Ascolto la voce degli altri, magari debole, o ascolto solo la mia voce?”.

Accettare di seguire Gesù e portare la croce
Padre Michelini si sofferma poi sull’interpretazione di quegli studiosi che ritengono che Gesù sapesse quanto stava per accadere. Nel Vangelo di Matteo si dice che Gesù si ritirava, un verbo che nel greco antico indicava la ritirata degli eserciti di fronte a una sconfitta o ad un pericolo. Anche Gesù sembra ritirarsi alla notizia della arresto del Battista e quando sa che i farisei vogliono ucciderlo ma tutte queste ritirate strategiche, sottolinea padre Michelini, non sono per fermarsi: dopo essersi ritirato, Gesù fa delle cose concrete cioè inizia ad annunciare il Regno e guarisce i malati. Tra i tanti riferimenti che arricchiscono la meditazione del frate minore anche quello ad Hanna Arendt che parlava della banalità dal male, in riferimento a come i gerarchi nazisti parlavano delle atrocità da loro compiute, e questo in riferimento all’efferatezza con cui viene compiuta l’uccisione di Giovanni Battista in seguito alla richiesta di Erodiade. E al rabbino Hillel, perché Gesù continua la missione assumendo sempre nuove responsabilità fino a quella che lo porterà a Gerusalemme. Da qui lo spunto per l’ultima riflessione:

“Mi chiedo se ho il coraggio di andare fino in fondo per seguire Gesù Cristo, mettendo in conto che questo comporta portare la croce, come lui ha detto, annunciando la risurrezione, la gioia, ma anche la prova: 'Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua' ”.

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I detenuti di San Vittore scrivono al Papa: aspettiamo un fratello

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Lettere al Papa dal Carcere di San Vittore, a Milano, dove Francesco si recherà in visita il 25 marzo, primo Pontefice a varcare le porte di questo Istituto penitenziario. Il servizio di Roberta Gisotti

“Caro Papa Francesco, con onestà non sono molto credente”, scrive Ivan nella lettera pubblicata oggi insieme ad altre, chiedendo al Papa di “regalargli “una preghiera” per la sua famiglia, per dare alla sua carcerazione “un senso e un po’ di pace e serenità”. Anche Massimo dichiara di non avere fede, ma aspetta Francesco come “un fratello”, confessando di avere peccato, “ho rubato – scrive – la serenità alla mia mamma e ho ucciso la fiducia di mio padre”.

E’ accorato Alfredo, invocando dal Papa un miracolo: di perdonare tutti i suoi sbagli e tutte quelle volte che ha fatto del male, di farlo tornare bambino e “di non fare più - scrive - quelle brutte azioni che mi hanno allontanato dalla mia famiglia”. “Vorrei davvero - conclude la sua lettera - potere ricominciare tutto”.

E ancora Mustapha, che è musulmano, dice di sentirsi accolto da Francesco, che quando prega “non fa distinzioni di sesso, di razza, soprattutto di religione”, e chiede al Papa di continuare a trasmettere la fede che può aiutare anche i carcerati “ad uscire dalle loro dipendenze distruttive”.

Sono storie di sofferenza, di ferite inflitte a se stessi e agli altri, ognuna diversa dall’altra. Non tutti i detenuti potranno parlare con il Papa e pranzare con lui, che si fermerà nel carcere un paio d’ore, in una visita che non sarà formale, ma vuole essere un incontro di anime.

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Giaccardi: Bibbia come il cellulare, Francesco si fa capire da tutti

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Consultare la Bibbia come il telefonino. Le parole del Papa, all’Angelus domenicale, sull’importanza dell’avere sempre con sé la Parola di Dio hanno fatto il giro del mondo. Ancora una volta, Francesco ha saputo lanciare un messaggio di grande importanza in un linguaggio comprensibile a tutti. Su questa “lezione di comunicazione” del Papa, Alessandro Gisotti ha intervistato la prof.ssa Chiara Giaccardi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Cattolica di Milano: 

R.  – Papa Francesco ci ha abituato a grandi lezioni di comunicazione, ma soprattutto è capace di parlare di quello che ci sta a cuore, di cose che noi sappiamo perfettamente perché sono quelle che impregnano la nostra quotidianità. Goethe diceva che le cose che amiamo ci modellano e noi in questo momento amiamo la tecnologia. Quindi un discorso, una parabola dei giorni nostri che parta dalla tecnologia risulta molto più comprensibile; mi sembra che Papa Francesco ci sfidi ad una nuova convergenza, a pensare che i libri e i dispositivi digitali non sono due mondi separati, ma che possono convergere - appunto - impregnando la nostra quotidianità.

D. - Francesco ha domandato ai fedeli, sempre all’Angelus di ieri, cosa succederebbe se i messaggi di Dio contenuti nella Bibbia fossero letti con la frequenza con la quale leggiamo i messaggi sul telefonino? C’è un richiamo forte a rimettere al centro la Parola di Dio nella vita del cristiano ...

R. - A me viene in mente quello che diceva McLuhan sulla Bibbia e sulla rivoluzione che ci fu quando questa diventò un libro stampato, portatile, accessibile a tutti, che poteva essere letto individualmente. Questa rivoluzione è ancora più amplificata dai media digitali. Se queste parole ce le portiamo con noi e possiamo consultarle, questo può veramente creare una novità nella nostra vita. Papa Francesco ci invita, in questo caso come in tanti altri, a non pensare a compartimenti stagni. Lui dice che tutto è connesso, quindi la religione non è qualcosa da confinare la domenica a Messa o nel privato della propria stanza, ma che la Parola di Dio è qualcosa che ci accompagna tutta la vita e che ci offre una finestra diversa. A me viene in mente il messaggio di Benedetto XVI per la 47.ma Giornata della Comunicazioni, quando parlava dei media come porte. Attraverso queste finestre, queste porte, noi guardiamo la realtà in modo nuovo e possiamo avere uno sguardo molto più libero. Mi pare sia questo ciò che Papa Francesco vuole sottolineare: la Bibbia non è un elenco di precetti, ma una finestra che fa entrare un’aria nuova, un’aria che ci fa  respirare e che ci rende anche più liberi dai tanti condizionamenti della quotidianità.

D. - In un Angelus dell’aprile del 2014 Papa Francesco aveva già affrontato questo argomento. Aveva detto: “Si può leggere il Vangelo anche con tanti strumenti tecnologici. Si può portare con sé la Bibbia intera in un telefonino in un tablet”. Il Papa sottolinea quanto la tecnologia possa aiutare anche rispetto alla Parola di Dio …

R. - Papa Francesco ci sfida ad una nuova convergenza, pensare che appunto la Parola non sta in un libro sul comodino, ma in un dispositivo nella nostra tasca e, in ogni momento, noi possiamo lasciarci ispirare. Credo che questa sia una parola importante che spazza un po’ via i nostri pregiudizi nei confronti della Bibbia, che non è appunto un elenco di leggi, di norme di precetti, ma è una Parola che ci libera, che spacca tutti i condizionamenti che tante volte ci sembrano inevitabili. Allora, tenere questa Parola con noi consultarla per poter leggere anche la realtà in un modo nuovo, penso sia veramente un invito alla libertà che Papa Francesco ci sta facendo e anche un riconoscimento che i dispositivi possono essere luoghi di post verità, ma possono anche essere luoghi di libertà, se si lascia che da queste porte entri una Parola di verità.

Ma come hanno accolto i fedeli queste parole di Papa Francesco? Ascoltiamo le testimonianze raccolte in Piazza San Pietro da Marina Tomarro

R. – È molto importante, perché la Bibbia è la Parola di Dio e da lì prendiamo la vita. È una Parola da vivere in modo particolare in questo periodo di Quaresima. Se sapessimo trovare il modo di leggere almeno un pezzettino di Bibbia al giorno, questo sarebbe molto bello!

R. – Si sente la presenza di Dio quando abbiamo il Vangelo. E ci dà coraggio, che non è esteriore ma interiore: è conforto…

R. – Secondo me è molto importante portare sempre la Bibbia con noi, come il cellulare. Perché la Parola di Dio è forte ed efficace come una ‘spada’. Quindi, anche nella mia vita, se ho un problema o una crisi, uso qualche versetto della Parola di Dio veramente come una ‘spada’, contro le tentazioni, contro le crisi di spiritualità.

D. – Siamo nel periodo di Quaresima. Ecco, la Bibbia in che modo ci può anche guidare durante questo tempo di grazia?

R. – Ci può dare sempre una spinta per una nuova vita. Leggendo la Bibbia diventiamo sempre delle persone nuove.

D. – Papa Francesco ci invita a portare la Parola di Dio nel cuore: cosa vuol dire per lei?

R. – Penso che dia speranza più di tutto, è ciò che manca oggi, visto quello che succede nel mondo.

R. – Vuol dire vivere la vita ogni giorno pensando di avere sempre vicino Gesù; insomma, è importante sapere che anche nei momenti di sconforto e di tristezza c’è la Parola di Dio che è sempre con noi e sempre ci sostiene.

R. – Vuol dire fare memoria che la luce è già dentro di noi e non dobbiamo cercarla fuori, in tante cose che ci danno una felicità apparente ma che poi ci lasciano infelici dentro. Perché è dentro di noi la luce.

D. – L’invito è rivolto a tutti, però in particolare ai giovani che usano di più i telefonini: in che modo allora anche aiutare i giovani ad accogliere questa esortazione del Santo Padre?

R. – Mi vengono in mente le parole di una mamma: “Abbandonate i cellulari e guardatevi negli occhi! Abbiate rapporti veri, non virtuali". Ecco, i cellulari sì, ma che non siano l’assoluto.

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Oggi in Primo Piano



Fuga dei cristiani dal Sinai. Padre Samir: si fa poco per proteggerli

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In Egitto, continua l'esodo delle famiglie cristiane dalla Penisola del Sinai dopo l'uccisione di sette copti nelle ultime tre settimane da parte dei jihadisti del sedicente Stato islamico. Sulla situazione ascoltiamo il padre gesuita egiziano Samir Khalil Samir, docente di islamistica presso Pontificio Istituto Orientale di Roma, al microfono di Fabio Colagrande

R. – Sono aumentati negli ultimi mesi gli attacchi di gruppi di fanatici contro i cristiani, con qualunque pretesto. Questi jihadisti vogliono liberare tutta la Penisola del Sinai per farne una nuova terra di conquista: visto che stanno perdendo terreno in Siria e in Iraq, allora cercano un rifugio nel Sinai per continuare la lotta. E siccome lì c’è una piccola concentrazione di egiziani cristiani, era una "bella occasione" per fare due colpi in uno: recuperare tutto il Sinai e combattere i cristiani. Nel pensiero di alcuni dei fanatici, in teoria il cristiano ha pieno diritto di vivere insieme ai musulmani, ma non avendo gli stessi diritti, accettando, cioè, di essere sottomesso al sistema islamico e pagando un tributo. Ma i jihadisti vanno anche oltre queste norme e considerano i cristiani come nemici.

D. – Il governo egiziano fa abbastanza per tutelare i cristiani copti nella Penisola del Sinai, secondo lei?

R. – Non ha pensato di fare qualcosa di speciale, perché il governo è già in difficoltà con i terroristi del Sinai cercando proteggere i suoi militari che regolarmente subiscono perdite. Una cosa bella da sottolineare è che gli esuli sono stati accolti a Ismailia, sul Canale di Suez, non solo da cristiani evangelici ma anche da musulmani e il governo cerca di aiutarli; però hanno perso tutto ciò che avevano costruito nel corso di anni …

D. – Al Cairo, durante una recente conferenza su “Libertà e cittadinanza”, organizzata dall’Università di al Azhar, il Grande Imam Al Tayyib ha condannato questa nuova spirale di violenze contro i cristiani nel Sinai. Quanto contano queste parole?

R. – Sono parole che lui deve dire e penso che sia sincero. Ma questo non significa che sul terreno potrà fare qualcosa o farà qualcosa. Lui ha organizzato questo grande convegno su “Libertà e cittadinanza”, invitando tanta gente, cristiani, in particolare: erano presenti i Patriarchi del Medio Oriente. Il principio che è emerso è molto importante: non fare distinzione tra cittadini a causa della religione. O siamo tutti cittadini o non c’è più un Paese. Questo è un grande passo avanti, purché si prenda sul serio e si vada fino in fondo. E’ quello che noi chiediamo. “Cittadino” significa anche riconoscimento della Carta Universale dei Diritti Umani, dove non c’è differenza secondo la religione o secondo il sesso o secondo qualunque altro criterio. Attualmente c’è questa distinzione, per esempio nel caso dell’eredità; nel sistema musulmano applicato in Egitto, la donna riceve la metà rispetto a quello che riceve l’uomo, i suoi fratelli. Anche la questione del divorzio: l’uomo ha sempre il diritto di mandare via la moglie con una semplice decisione. Il presidente al-Sisi due settimane fa ha chiesto ufficialmente che sia cancellata questa norma. Purtroppo, al Azhar ha rifiutato dicendo: “Questa norma esisteva già al tempo del Profeta, non possiamo toccarla”.

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Carestia in Somalia: centinaia di vittime. Onu: intervenire subito

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La carestia colpisce nuovamente la Somalia. Le Nazioni Unite lanciano l’allarme: occorrono beni di prima necessità da portare con urgenza soprattutto nella regione sudoccidentale di Bay, dove nelle ultime 48 ore si contano ben 110 persone morte per fame. Cinque milioni i civili a rischio a rischio, afferma l’Onu, anche a causa della siccità e del colera. Il servizio di Giancarlo La Vella

Stato di calamità nazionale in Somalia. La decisione è del governo di Mogadiscio che ha alzato le mani di fronte a questa nuova emergenza; rappresenta un grido d’aiuto alla comunità internazionale, affinché si arrestino le morti per fame. Se si interviene con urgenza sarà possibile limitare al massimo le conseguenze della carenza di cibo, ma ogni giorno di ritardo vuol dire nuove vittime, soprattutto tra i più deboli: bambini e anziani. Ma in Somalia non si muore solo per la fame. La siccità sta colpendo varie zone e rappresenta l’anticamera della carestia; dove non ci sono raccolti non c’è cibo. E poi c’è il colera che ha causato già almeno 70 vittime. Sullo sfondo, l’instabilità politica cronica del Paese, che da poche settimane ha un nuovo presidente, e la violenza del gruppo fondamentalista al-Shabab. Sulla situazione in Somalia sentiamo Marcelo Garcia, coordinatore dell'unità emergenze dell’ong Intersos, appena rientrato dal Paese del Corno d’Africa:

R. – Sono tornato da poco. Ora c’è un team Intersos nelle zone del Centro Sud Somalia, le più colpite dalla siccità. Le due stagioni delle piogge precedenti sono state scarsissime; i raccolti sono stati meno del 50 percento rispetto al previsto. Poi ovviamente ci sono i conflitti che devastano il Centro Sud della Somalia ormai da anni. Quindi le cause sono sia naturali sia dovute all’uomo.

D. - Come si può intervenire per alleviare questa emergenza?

R. - Intersos è una della pochissime ong presenti nel Centro Sud Somalia; ci sono zone gestite ancora dagli al-Shabaab, quindi ci sono ancora grandi problemi di accesso. Al livello interno, fortunatamente riusciamo ad essere presenti. È molto importante la distribuzione di cibo, perché la gente non ha di che mangiare e si concentra nei grossi centri urbani. Quindi attraverso gli elicotteri riusciamo ad arrivare in queste zone per portare generi alimentari. A livello esterno quello che noi vediamo è che non c’è nessuna visibilità di quello che sta succedendo adesso in Somalia. Quindi quello che state facendo voi come Radio Vaticana è ottimo. È importante parlarne, sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale e, attraverso i canali di donazione, riuscire ad avere dei finanziamenti per poi andare avanti.

D. - La recente elezione del nuovo presidente aveva fatto sperare in una sorta di tentativo di ripresa di uno Stato che è senza Stato. Queste sono ancora emergenze troppo gravi davanti alle quali il governo non riesce a far fronte?

R. - Direi di sì. La crisi verrà difficilmente gestita dal governo, che appunto è nuovo e si trova a controllare una situazione politica difficilissima. La stessa comunità internazionale ha grandissime difficoltà, proprio per la mancanza di fondi e di coordinamento. Purtroppo i fondi che sono disponibili sono un trenta percento di quello di cui ci sarebbe bisogno.

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Bangui: sfollati lasciano Convento di Notre Dame e tornano a casa

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“Tutti i profughi sono rientrati a casa!”: lo annuncia in un dispaccio - inviato all’Agenzia Fides - padre Federico Trinchero, missionario carmelitano scalzo che opera nel Convento di Nostra Signora del Monte Carmelo di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove, a seguito della guerra civile scoppiata nel 2012, erano stati accolti 10.000 sfollati.

“Dopo tre anni e tre mesi, termina qui la nostra avventura iniziata il 5 dicembre del 2013. E questa è l’ultima puntata della storia del nostro convento diventato improvvisamente un campo profughi” scrive p. Federico. Qui di seguito pubblichiamo un estratto del suo racconto:

“Dal mese di gennaio un progetto finanziato dall’Alto Commissariato per i profughi dell’ONU, in collaborazione con il Governo Centrafricano e altri partner, ha permesso a tutti i nostri profughi (e a quelli, molto più numerosi, ancora accampati nei pressi dell’aeroporto di Bangui) di poter rientrare finalmente nei quartieri della città e di riprendere una vita normale. Ogni famiglia ha ricevuto un piccolo sostegno economico alle sole condizioni di trasportare tutte le proprie masserizie nella nuova residenza, smantellare la propria tenda e abbandonare definitivamente il campo. La partenza era libera e nessuno è stato obbligato ad abbandonare il campo; ma, di fatto, tutti hanno accettato volentieri di partire. Tutto si è svolto in modo ordinato e senza particolari intoppi. Anzi: siamo rimasti stupiti della maniera rapida, serena e disciplinata con la quale il nostro campo profughi si è svuotato e ha terminato la sua esistenza. Ovviamente tutto questo è stato possibile non solo grazie al piccolo incentivo economico, ma soprattutto per la situazione di tranquillità e sicurezza che ormai si è creata nella capitale. Questo nuovo clima ha incoraggiato i nostri profughi a compiere il grande passo e a iniziare una nuova vita nel quartiere di origine oppure in un altro quartiere della città.

L’8 gennaio abbiamo celebrato una Messa di ringraziamento al Signore per tutti i benefici di cui ci ha colmato in questi tre anni e per non averci mai fatto mancare la sua protezione e la sua provvidenza. Abbiamo terminato la Messa sulla collina al centro della nostra proprietà con la benedizione della città di Bangui e l'implorazione del dono della pace per tutto il Paese. In effetti, non bisogna dimenticare che, se la situazione è nettamente migliorata nella capitale, non è così in altre zone del Paese, come Bocaranga o Bambari. Piccoli gruppi di ribelli – non sempre ben identificabili, spesso divisi tra loro e poco chiari nelle loro rivendicazioni – continuano purtroppo a compiere azioni criminali causando vittime innocenti, seminando paura e costringendo la popolazione ad abbandonare i centri abitati. Con molta fatica la missione dell’ONU cerca di arginare questi fenomeni che, si spera, dovranno assolutamente essere sradicati per permettere a tutto il Paese – non solo alla capitale – di imboccare risolutamente il cammino della pace e dello sviluppo”.

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La Corea del Nord lancia missili al largo del Giappone

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Nuova sfida della Corea del Nord: il regime comunista ha lanciato quattro missili balistici, di cui tre sono caduti vicino alle coste del Giappone. Immediata la protesta di Tokyo. Il servizio di Sergio Centofanti:

 

I missili nordcoreani hanno percorso mille chilometri e sono caduti al largo della costa nipponica, nella cosiddetta Zona Economica Esclusiva, ricca di petrolio e gas. I nuovi test – ha detto il premier giapponese Shinzo Abe – rivelano che quella del regime nordcoreano è "una minaccia reale e immediata". Oltre alla distanza, appare anche significativa la capacità di lanciare quattro vettori nel giro di pochi minuti.

Inoltre sarebbero stati installati schermi per ostacolare la sorveglianza satellitare. In allarme anche la Corea del Sud che da una settimana sta svolgendo grandi manovre militari congiunte con il contingente americano, forte di oltre 28 mila uomini nella penisola a Sud del 38° parallelo. Irritazione anche a Pechino che ha condannato il lancio. La Cina, dopo il test missilistico nordcoreano a febbraio, ha bloccato le importazioni di carbone verso Pyongyang, adeguandosi alle sanzioni varate dall’Onu. Da parte sua la nuova amministrazione americana ha detto che in caso di minacce dirette la sua risposta sarebbe “efficace e travolgente”. Il presidente Trump ha già fatto sapere di voler potenziare l’arsenale nucleare degli Stati Uniti. Mentre la Santa Sede, ha ribadito recentemente la sua richiesta di bandire dal mondo le armi nucleari. Nella Corea del Nord intanto si continua  a morire di fame: su 24 milioni di persone, almeno un quinto ha gravi problemi di denutrizione.

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India. Chiesa difende popoli tribali: no a esproprio terre

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I cristiani del Jharkhand si oppongono alla modifica di due leggi sulla proprietà terriera che rischiano di privare i popoli tribali dell’uso delle terre. Il card. Telesphore Toppo, arcivescovo di Ranchi, ha guidato una delegazione cristiana in visita alla governatrice dello Stato indiano, composto in maggioranza da contadini tribali. Di fronte a Draupadi Murmu, essi hanno espresso tutta la loro preoccupazione per le nuove norme che solo all’apparenza favorirebbero i contadini. Ad AsiaNews l’arcivescovo afferma: “Gli emendamenti non portano beneficio al nostro popolo. Le norme condurranno ad un esproprio delle terre”.

La diatriba ruota attorno agli emendamenti a due leggi approvati dal governo statale, guidato dal partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party (Bjp). Il 23 novembre 2016 i parlamentari hanno dato il consenso alla modifica del Chotanagpur Tenancy Act e del Santhal Paragana Tenancy Act. Le modifiche annullano un precedente divieto ad acquisire le terre dei tribali imposto sia allo Stato che agli individui. Tale bando tutelava e proteggeva le proprietà terriere dei tribali, in maggioranza persone senza istruzione le cui terre sono la unica fonte di reddito che garantisce loro la sopravvivenza.

Sulla carta, gli emendamenti consentirebbero ai tribali l’utilizzo delle terre per scopi non agricoli, senza perderne il possesso. I cristiani però lamentano che con questo espediente si dà il via libera allo sfruttamento indiscriminato del territorio. Infatti nel caso in cui i tribali si trovassero in condizioni di difficoltà economiche, sarebbero portati a vendere i terreni al miglior offerente.

Secondo i cristiani, nessuno – e tantomeno la legge in questione – garantisce che le proprietà dei tribali non saranno utilizzate per massimizzare i profitti di attività industriali o turistiche. Le popolazioni che da secoli abitano queste regioni, dice il comunicato della delegazione cristiana, “rimarrebbero senza terre”. Poi rivolgendosi direttamente alla governatrice, cui spetta la decisione finale, aggiungono: “Chiediamo di fermare la legislazione”.

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Patriarcato Gerusalemme, Pizzaballa: necessario rinnovamento

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“Davvero la Quaresima è un cammino di conversione. Noi, vescovi e preti del Patriarcato, siamo tra i peccatori che implorano la misericordia di Dio e chiedono la grazia della conversione. I nostri errori e i nostri giudizi erronei stanno chiaramente davanti ai nostri occhi”: è quanto scrive mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che in una lettera alla diocesi racconta ai fedeli gli oltre 7 mesi iniziali del suo mandato e le problematiche che il Patriarcato sta attraversando. “Per 170 anni questo Patriarcato ha avuto un ruolo importante e lo ha ancora nella vita dei cristiani di Terra Santa. Le nostre parrocchie, le nostre scuole e molte altre nostre istituzioni - spiega - hanno contribuito molto alla vita dei cristiani in queste terre e hanno rafforzato la nostra testimonianza a Cristo e alla Sua resurrezione dalla morte. Sono stati fatti degli errori che hanno ferito la vita del Patriarcato, finanziariamente ed amministrativamente, soprattutto riguardanti l’Università Americana di Madaba”.

Gli errori commessi
“Abbiamo sbagliato in alcuni ambiti importanti, forse non concentrandoci abbastanza sulla nostra primaria missione: predicare il Vangelo e dedicarci alle attività pastorali”, ammette l’amministratore apostolico, che in questi mesi ha incontrato vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici, visitato molte parti della diocesi, rilevato situazioni che devono essere affrontate “con onestà, coraggio, determinazione, amore fraterno”. La scorsa settimana, per affrontare meglio la questione, mons. Pizzaballa ha avuto una riunione con tutti i sacerdoti del Patriarcato latino per riflettere su vocazione e missione del clero e discutere degli errori che “hanno portato ad una situazione critica, soprattutto finanziariamente”.

Ripartire dalle attività pastorali
“Abbiamo molto da fare. Ora - prosegue la lettera di mons. Pizzaballa - è il momento di iniziare il lavoro di riforma, ricostruzione e rinnovamento in alcuni settori della nostra amministrazione, ma non solo. Tra le altre conclusioni, infatti, abbiamo deciso di concentrarci ancora di più sulle nostre attività pastorali e di aprire, per esempio, nuovi uffici diocesani per il lavoro pastorale che vadano a coordinare ed unificare il nostro servizio pastorale alla comunità. “La strada che abbiamo davanti - aggiunge - sarà indubbiamente difficile, le sfide notevoli e gli ostacoli grandi: se lavoriamo insieme, concentrandoci sulla nostra missione di servire Cristo nella Sua Chiesa, supereremo anche questo momento. Sento che i nostri vescovi e i nostri preti sono pronti a ‘combattere la buona battaglia’ e ad andare avanti con coraggio, per quanto difficile possa essere la strada”. Infine mons. Pizzaballa chiede ai fedeli preghiere perché vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e laiche, giovani e anziani possano lavorare insieme per il Patriarcato. (T.C.)

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Voices of faith: le donne dimostrano che l'impossibile è possibile

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Torna per il quarto anno l’appuntamento "Voices of Faith", nella Casina Pio IV in Vaticano. Sono le voci della fede, di donne provenienti da tutto il mondo, le cui storie raccontano la lotta e l’impegno in difesa dei diritti umani. A collaborare con la Fidel Gotz foundation, organizzatore dell’evento, è il Jesuit refugee Service. La presentazione oggi a Roma. Francesca Sabatinelli

Fare dell’impossibile il possibile, è lo spirito che animerà in Vaticano l’8 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna, ‘Voices of faith’ che vedrà riunite donne provenienti da diversi Paesi del mondo unite nel raccontare, attraverso le loro storie, il contributo che in quanto donne di fede, e non solo, hanno fornito e continueranno a fornire nei processi di riconciliazione e di pacificazione. Con le loro testimonianze intendono anche essere di supporto a Papa Francesco e al suo richiamo alle politiche di non violenza. Nel corso dell’incontro si discuterà anche di come far ascoltare la voce delle donne, apporto importante se si vuole che la pace sia instaurata e sostenuta; soprattutto si alzerà la richiesta di maggiore accesso alle donne nei processi di pace e dialogo ad alto livello e in ruolo di responsabilità, anche a livello ecclesiale. Tra le partecipanti, Marguerite Barankitse, fondatrice di Maison Shalom, orfanotrofio in Burundi per bambini rimasti soli a causa della guerra civile, e creatrice di un ospedale, vincitrice di numerosi premi umanitari e che oggi vive fuori dal suo Paese perché considerata criminale:

R. - Moi, je viens d’un pays où beaucoup de femmes…
Vengo da un Paese in cui molte donne, senza fare tanto rumore, coltivavano la terra di notte pur di nutrire i loro figli. Visto che gli uomini oggi sono impegnati nel traffico di armi, di droga, a farsi la guerra, e visto che noi abbiamo una vocazione, dovremmo dirci: andiamo! Bisogna seminare! Vedete, il male produce molto rumore, ma il bene non ha bisogno di fare tanto rumore. E noi continueremo… Viviamo in un mondo in cui gli uomini non vogliono più ascoltare la voce della loro mamma, della loro donna, delle loro figlie … Ecco la mia testimonianza: avevo costruito la Maison Shalom in Burundi, avevo costruito l’ospedale … ma un solo uomo, Pierre Nkurinziza (il presidente, ndr), che voleva il potere, è riuscito a rovinare tutto: ha chiuso l’ospedale e ci ha cacciati via! Questo accade perché per gli uomini che vogliono il potere, le donne che invece si impegnano per la coesione sociale diventano il nemico numero uno. Per esempio, io in questo momento sono definita una criminale: sulla mia testa pende un mandato di cattura internazionale, per aver denunciato il crimine che il potere nel mio Paese sta perpetrando e cioè uccidere i nostri bambini, stuprare le donne”.

D. - E qual è il messaggio che lei, con il suo lavoro e con il suo esempio, intende lanciare?

R. - Mon message c’est de montrer combien une femme chrétienne peut faire de l’impossible …
Il mio messaggio è dimostrare come una donna cristiana possa rendere l’impossibile possibile, come possa far cambiare completamente le cose. Questa è stata la mia esperienza personale. Tutti mi dicevano: “Non ce la farai mai! Tu sei pazza!” … ed ecco che per centinaia di migliaia di bambini, la situazione è cambiata: hanno cambiato la loro vita, sono diventati medici, dottori, quando invece una volta vivevano per la strada; ci sono bambini soldato che sono diventati meccanici; bambini prigionieri che sono diventati insegnanti … Ecco, quindi, bisogna crederci! Voglio dimostrare che è possibile rendere possibile l’impossibile …

La britannica Scilla Elworthy è la fondatrice dell’Oxford research group e nota attivista per la pace, con 30 anni di esperienza. Importantissima per lei la possibilità che le leadership siano aperte alle donne:

“I think it is absolutely vital not just for women but for humanity as a whole …
Credo che sia fondamentale, e non soltanto per le donne, ma per l’umanità intera, proprio in questa epoca, perché l’umanità si trova di fronte a grandi crisi che non hanno precedenti create dall’uomo, come il riscaldamento globale, come la sovrappopolazione, come il divario tra ricchi e poveri, come le migrazioni di massa … Ed è necessario che noi risvegliamo la nostra consapevolezza, dobbiamo incrementare la nostra capacità evolutiva per far fronte a queste sfide. Fino ad oggi, è mancato l’elemento femminile: non abbiamo avuto una vera eguaglianza nella leadership”.

Oltre un certo limite le donne non riescono ad andare, vengono escluse, derise, emarginate, prosegue la Elworthy, ma il contributo delle donne è importante per il loro approccio diverso, più  consapevole e più spirituale:

“In my profession for the last 30-40 years that has been in security peacebuilding and military change, ...
Nella mia professione, quella che svolgo dagli ultimi 30-40 anni, che è nel campo della costruzione della sicurezza e nell’edificazione della pace e nel cambiamento dell’assetto militare, mi sono spesso trovata come unica donna in un ambiente in cui erano riuniti 200 uomini; spesso sono stata derisa, si sono fatti gioco di me per via degli argomenti che andavo presentando. E’ necessario credere fermamente nel contributo che le donne possono dare e ci sono molti uomini che in realtà lo sanno, per esperienza diretta, e amano lavorare con le capacità delle donne e imparare a condividerle. Io credo che quella che si potrebbe chiamare “intelligenza femminile”, sia data agli uomini come è data alle donne; essa si compone – in breve – di: compassione, inclusività, interconnettività e la capacità di curare e coltivare il nostro mondo”.

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Sempre meno bimbi in Italia. Belletti: non s'investe sulla famiglia

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Gli italiani sono sempre di meno. Al primo gennaio 2017 si stima che la popolazione residente in Italia scenda a 60 milioni 579mila; 86mila unità in meno rispetto all'anno precedente. Lo riferisce l’Istat, che questa mattina ha diffuso i dati relativi agli indicatori demografici. Alessandro Guarasci

Oramai è un refrain che dura da qualche anno. Se non ci fossero gli stranieri, la popolazione residente calerebbe in modo ancora più sensibile di quanto avviene ora. Nel 2016 il saldo naturale (nascite-decessi), è stato negativo per 134 mila unità, mentre quello migratorio con l'estero è positivo per 135 mila unità. Dunque i due flussi si equivalgono. Secondo le stime relative al 2016, il calo della popolazione non si presenta in tutte le regioni. Le due regioni più popolose del Paese, Lazio e Lombardia, registrano un incremento del +1,3 e del +1,1 per mille rispettivamente. L'incremento relativo più consistente è quello ottenuto nella Provincia autonoma di Bolzano (+6,6 per mille), la Regione col saldo negativo più pesante è la Basilicata, con un meno 5,7 per mille. Francesco Belletti, presidente del Centro Studi Famiglia:

“A me pare che sia più importante il clima complessivo di un territorio, di una comunità. Probabilmente in alcune province, in alcuni territori la nascita di un bambino è ancora una bella notizia per le famiglie: non è solo questione di soldi. I soldi c’entrano, le politiche hanno la necessità di spostare risorse nei confronti dei bambini, delle nascite, delle giovani generazioni, ma serve anche l’idea che questi figli siano non un bene privato, non una scelta arbitraria di una persona, ma siano davvero una bella notizia per la comunità”.

E gli italiani sono sempre più vecchi, chi ha più di 65 anni è il 22,3%. Dunque, ancora una volta, il Paese viene salvato dall’ingresso degli stranieri, una tendenza che però recentemente è calata. Franco Pittau del centro studi sull’immigrazione Idos:

“Le migrazioni in entrata sono diminuite perché noi abbiamo una situazione economica pesante; c’è stato un leggero sviluppo che non ha consentito di abbattere la massa dei disoccupati – circa 3 milioni, dei quali quasi mezzo milione sono immigrati – e così gli ingressi per lavoro sono quasi completamente scomparsi. Poche migliaia per lavoro stagionale, poi i lavori qualificati che per legge europea se trovano lavoro possono entrare, non ci sono quote: loro possono venire liberamente”.

Ma è certo che gli stranieri fanno più figli: Le straniere, infatti, hanno avuto in media 1,95 figli nel 2016, mentre le italiane sono rimaste sul valore di 1,27 figli, come nel 2015. Ancora Belletti:

“Dobbiamo investire sulle famiglie e sui bambini, perché descrive l’idea di qualcuno che poi farà anche impresa. E purtroppo, la politica fa sempre il processo contrario: investiamo nelle imprese e poi vedremo che anche sulla vita quotidiana delle famiglie succederà qualcosa. E la storia sta dimostrando costantemente che questo è perdente, è sbagliato. Non si riesce neanche a rinnovare, a fare impresa, nel nostro Paese …”.

C’è da aggiungere che il numero di italiani che decidono di trasferirsi in un Paese estero nel 2016 cresce del 12,6% rispetto al 2015 ed è quasi triplicato in sei anni. Sull’altro fronte, aumentano pure gli stranieri che prendono la cittadinanza italiana. Ancora Pittau:

“In diverse province, l’emigrazione è leggermente diminuita perché è molto elevato il numero dei cittadini stranieri che diventano italiani, che attualmente saranno all’incirca un milione e 200 mila. E anche questo è un altro motivo per ragionare con serenità. L’emigrazione non scompare; noi abbiamo molte persone che sono di origine immigrata e questo ci fa pensare a come vivere in una società multiculturale e multireligiosa: ci vogliono più accortezze per venirne a capo”.

Insomma, l’Italia cambia, più velocemente di quanto in molti, compresa la politica si aspettano.

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Addio a Thomas Starzl, padre dei trapianti di fegato

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Enorme cordoglio sta suscitando in tutto il mondo, non solo in ambito scientifico, la notizia della scomparsa di Thomas Starzl, 91 anni, chirurgo americano iniziatore dei trapianti di fegato. I suoi allievi italiani lo ricordano come un "eclettico scienziato" e un "maestro di vita" per intere generazioni di immunologi, epatologi, medici e chirurghi: grazie a lui, uno dei trapianti più difficili e delicati, come quello di fegato, è attuato oggi negli ospedali di tutto il mondo. Il servizio di Gabriella Ceraso

"I trapianti di tessuti e di organi rappresentano una grande conquista della scienza medica e sono certamente un segno di speranza per tante persone”. Le parole del Papa emerito Benedetto XVI, nel lontano 2008, rievocano senza dubbio la figura di Thomas Starzl che alle conquiste della scienza ha senza dubbio contribuito in modo ineguagliabile. Poco noto rispetto a Barnard, pioniere dei trapianti cardiaci, Starzl nel 1963 effettuò il primo trapianto di fegato in un'epoca che i suoi allievi definiscono "preistorica". Tra loro c'è Umberto Cillo, presidente della Società italiana Trapianti di organo, che ne parla come un “gigante della medicina”:

“E’ il padre della trapiantologia moderna, non soltanto perché ha fatto il primo trapianto di fegato, ma anche perché ha avviato una serie di approfondimenti scientifici che hanno aperto aree di sviluppo nell’area dell’immunosoppressione, dell’immunologia, della preservazione d’organo addirittura in aree come le neuroscienze. Insomma, un eclettico scienziato che amava approfondire ma non rimanere soltanto un teorico, e portare a casa degli interventi considerati, appunto, non possibili”.

Chirurgo e scienziato, Starzl ha insegnato a tornare sempre alla ricerca, per migliorare la gestione delle patologie, delle complicanze, per migliorare le cure, e il paziente di tutto questo si rendeva conto. Ancora il dottor Cillo:

“Ogni paziente sapeva che dietro qualsiasi scelta clinica e terapeutica c’era un pensiero, un approfondimento, uno studio; questo è un messaggio per i giovani, per me, a quel tempo".

Starzl è dunque riuscito a trasformare il trapianto di fegato rendendolo accessibile e realizzabile in tanti ospedali del mondo con buone percentuali di riuscita, anche se resta, tra tutti trapianti, il più delicato e difficile. ”Progressi ne sono stati fatti dal 1963, ma restano le sfide”, così il professor Vincenzo Mazzaferro, anche lui allievo di Starzl e oggi primario di Chirurgia epato gastro-pancreatica e trapianto del fegato, all'Istituto dei Tumori di Milano:

“Il trapianto, di fatto, chiede risorse: risorse in organi donati che non sono assolutamente sufficienti rispetto al numero di pazienti che ne avrebbero bisogno: c’è una discrepanza di almeno quattro volte tra le persone che avrebbero bisogno di trapianto e quante possono ottenerlo. E rimangono aperti anche problemi di sviluppo delle tecnologie intorno al trapianto, che permettono di renderlo sempre più sicuro”.

Dunque servono più risorse, ma anche una maggiore "cultura del dono". Come diceva Benedetto XVI e dice la Chiesa, la "donazione di organi è una forma peculiare di testimonianza della carità":

“Il problema è quello di orientare, di indirizzare, spingere questo tipo di desiderio verso risultati virtuosi”.

Ma questa logica quanto e come viene considerata dai medici? Ancora Umberto Cillo, presidente della Società italiana trapianti:

“Il fascino della nostra professione è questo, che noi riusciamo a fare da catalizzatori di un passaggio, il più affascinante di tutta la medicina, che è qualcuno che salva qualcun altro attraverso l’operazione dei medici. Il più bel risultato è che ci sono ormai migliaia di pazienti all’anno e soprattutto i bambini. Mi creda, fare un intervento di questa complessità è ancora una 'magia', ma è una delle cose che gratifica di più nella nostra professione”.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 65

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.