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Sommario del 25/01/2017
- Papa Francesco: le donne sono più coraggiose degli uomini
- Il Papa: l'unità dei cristiani si fa camminando insieme
- Il Papa accetta le dimissioni del Gran Maestro dell'Ordine di Malta
- Nomine in India e Stati Uniti
- Mons. Dal Toso: abbiamo portato ad Aleppo la vicinanza del Papa
- Francesco saluta l'orchestra dei giovani boliviani
- Enoc: al via formazione pediatri a Bangui, come voleva il Papa
- Nataša Govekar: comunicatori cristiani ispirino fiducia e speranza
- Iraq. Patriarca Sako: aiutare i cristiani a tornare nelle loro case
- Pro-life: Strasburgo, sentenza storica contro maternità surrogata
- Usa: muro con Messico non risolve problemi sicurezza e traffici illegali
- Medio Oriente: Onu condanna nuovi insediamenti israeliani
- Corruzione: Nuova Zelanda e Danimarca Paesi virtuosi, Somalia ultima
- Venezuela: nel dialogo governo-opposizione ascoltare il popolo
- Rigopiano, estratti altri corpi. Vittime salite a 24, 5 i dispersi
- Cile: i vescovi auspicano giustizia e pace per la regione dell’Araucanía
- Real Madrid: via la croce dallo stemma per vendere nei Paesi arabi
Papa Francesco: le donne sono più coraggiose degli uomini
Non possiamo insegnare a Dio cosa deve fare ma, senza rassegnazione, dobbiamo fidarci di Lui che sa trarre anche dalla morte la vita. Questo è l’invito del Papa nella catechesi stamani all’udienza generale. Prosegue, dunque, il ciclo di catechesi sulla speranza cristiana e, come mercoledì scorso, il Papa fa riferimento ad un personaggio biblico. La catechesi odierna è stata dedicata a Giuditta, donna coraggiosa. Il servizio di Debora Donnini:
E’ la figura di Giuditta al centro della catechesi del Papa. Una donna di fede dell’Antico Testamento, una donna che indica il cammino della fiducia in Dio. Francesco dipana la sua catechesi ripercorrendo la storia di questa donna, di grande bellezza, che libera il suo popolo dall’assedio dell’esercito del Re Nabucodonosor, che regnava a Ninive e voleva allargare i confini del suo impero fino alla Terra promessa. Sotto la guida del generale Oloferne, l’esercito assediava infatti la città di Betulia tagliando il rifornimento d’acqua.
La tentazione di non avere fiducia nel Signore
La situazione è così drammatica che gli abitanti vogliono arrendersi ai nemici, sono disperati come accade tante volte anche a noi, dice Francesco:
“La capacità di fidarsi di Dio si è esaurita. E quante volte noi arriviamo a situazioni di limite dove non sentiamo neppure la capacità di avere fiducia nel Signore. È una tentazione brutta, eh! E, paradossalmente, sembra che, per sfuggire alla morte, non resti che consegnarsi nelle mani di chi uccide”.
Allora il capo del popolo tenta di proporre un appiglio di speranza, chiedendo agli abitanti di resistere ancora cinque giorni per aspettare l’intervento salvifico di Dio. “Cinque giorni vengono concessi a Dio per intervenire”, e “qui è il peccato”, nota il Papa, non hanno fiducia, aspettano il peggio.
Giuditta: le donne sono più coraggiose degli uomini
Allora entra in scena Giuditta che rimprovera il popolo invitandolo ad attendere la salvezza da Dio che ha pieno potere, dice la donna , “di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere dai nemici”: “è donna di fede perché sa che è salvezza liberare dai nemici, ma, nei piani di Dio impenetrabili, può essere salvezza anche consegnare alla morte”. E il Papa loda il coraggio di Giuditta e delle donne:
“É il linguaggio della speranza. Bussiamo alla porte del cuore di Dio, Lui è Padre, lui può salvarci. Questa donna, vedova, rischia di fare anche una brutta figura davanti agli altri! Ma è coraggiosa! Va avanti! Questa ... è un’opinione mia: le donne sono più coraggiose degli uomini”.
Non mettere condizioni a Dio: accettare il suo aiuto anche diverso da nostre aspettative
Alla fine Dio salva il popolo. Giuditta ha un suo piano, riesce a tagliare la testa al generale Oloferne, e così porta il popolo alla vittoria ma “sempre – sottolinea il Papa – nell’atteggiamento di fede di chi tutto accetta” da Dio. Quindi Francesco chiede di non mettere "mai condizioni a Dio":
“Fidarsi di Dio vuol dire entrare nei suoi disegni senza nulla pretendere, anche accettando che la sua salvezza e il suo aiuto giungano a noi in modo diverso dalle nostre aspettative. Noi chiediamo al Signore vita, salute, affetti, felicità; ed è giusto farlo, ma nella consapevolezza che Dio sa trarre vita anche dalla morte, che si può sperimentare la pace anche nella malattia, e che ci può essere serenità anche nella solitudine e beatitudine anche nel pianto”.
Non siamo noi che "possiamo insegnare a Dio quello che deve fare, ciò di cui abbiamo bisogno”, prosegue il Papa . “Lui lo sa meglio di noi”, spiega, “dobbiamo fidarci perché le sue vie e i suoi pensieri sono diversi dai nostri”.
Non rassegnazione ma coraggio nella fede e nelle opere
Proprio Giuditta ci indica quindi il “cammino della speranza”: “ha pregato tanto”, è stata “coraggiosa nella fede e nelle opere”. Quindi l’invito del Papa è a fare, “senza facili rassegnazioni”, quanto è “nelle nostre possibilità”, ma sempre “rimanendo nel solco della volontà del Signore”. Francesco ricorda in conclusione le parole sagge delle donne umili, delle nonne che hanno l’esperienza della vita, hanno sofferto e si sono affidate a Dio:
"E noi, se facciamo un po’ di memoria, quante volte abbiamo sentito parole sagge, coraggiose, da persone umili, da donne umili che uno pensa che - senza disprezzarle – fossero ignoranti … Ma sono parole delle saggezza di Dio, eh! Le parole delle nonne .. Quante volte le nonne sanno dire la parola giusta, la parola di speranza, perché hanno l’esperienza della vita, hanno sofferto tanto, si sono affidate a Dio e il Signore dà questo dono di darci il consiglio di speranza”.
Il Papa: l'unità dei cristiani si fa camminando insieme
Papa Francesco presiede oggi pomeriggio alle 17.30 nella Basilica di San Paolo fuori le Mura i Secondi Vespri della Festa della Conversione di San Paolo a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Presente, insieme alla Cappella Musicale Pontificia “Sistina”, anche il Coro anglicano di Westminster Abbey che stamane all’udienza generale ha salutato il Papa con alcune esecuzioni musicali. Il servizio di Sergio Centofanti:
In un tweet pubblicato oggi il Papa afferma: “Amo ripetere che l’unità dei cristiani si fa camminando insieme, con l’incontro, la preghiera e l’annuncio del Vangelo”.
Al tradizionale appuntamento ecumenico presieduto dal Papa ogni 25 gennaio a chiusura della Settimana di preghiera per l’unità, si uniscono i delegati delle varie confessioni cristiane. Partecipano ai Vespri anche l’arcivescovo-metropolita ortodosso d’Italia e Malta, Gennadios Zervos, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, e il rappresentante dell’arcivescovo di Canterbury presso la Santa Sede nonché direttore del Centro Anglicano a Roma, David Moxon.
Durante i Vespri si pregherà perché siano risanate “le ferite e le divisioni” che ancora separano i discepoli di Gesù e si invocherà Dio perché sostenga i cristiani vittime delle persecuzioni.
Papa Francesco, all’udienza generale di stamane, ha invitato tutti “a non smettere mai di pregare perché i cristiani lavorino, con rispetto fraterno e carità attiva, per raggiungere la tanto desiderata unità”, spinti soltanto dall’amore di Cristo e guidati dallo Spirito Santo, per diventare nel mondo “testimoni di speranza”.
Un pensiero speciale il Papa lo ha rivolto agli ammalati, chiedendo di offrire le loro sofferenze per la causa dell’unità della Chiesa di Cristo. Infine il Papa ha ringraziato il Coro anglicano di Westminster Abbey, “per la lode a Dio attraverso il canto”.
Il Papa accetta le dimissioni del Gran Maestro dell'Ordine di Malta
Ieri, nell’udienza con il Santo Padre, Sua Altezza Fra’ Matthew Festing ha rassegnato le dimissioni dall’ufficio di Gran Maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta. Lo riferisce la Sala Stampa vaticana. Oggi, il Papa ha accettato tali dimissioni, esprimendo a Fra’ Festing “apprezzamento e riconoscenza per i sentimenti di lealtà e devozione nei confronti del Successore di Pietro e la disponibilità a servire umilmente il bene dell’Ordine e della Chiesa”.
Il governo dell’Ordine sarà assunto ad interim dal Gran Commendatore finché verrà nominato il Delegato Pontificio.
Per le nomine odierne del Papa (negli Stati Uniti e India) consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.
Mons. Dal Toso: abbiamo portato ad Aleppo la vicinanza del Papa
“La popolazione di Aleppo spera ed intravede la pace”. Così il segretario delegato del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, mons. Giampietro Dal Toso, rientrato a Roma dalla Siria. La delegazione della Santa Sede, inviata dal Papa dal 18 al 23 gennaio, ha visitato i campi profughi, incontrato le comunità cristiane e i rappresentanti dell’Islam. Ribadita la responsabilità delle religioni nell’educare alla pace e alla riconciliazione. Era presente nella Delegazione anche il nunzio a Damasco, il card. Mario Zenari. Hélène Destombes ha intervistato lo stesso mons. Dal Toso:
R. – Il significato del viaggio è certamente quello di rendere presente il Santo Padre e la sua preoccupazione per queste comunità, che hanno sofferto tanto nel corso degli ultimi anni: comunità cristiane e comunità musulmane, perché la sofferenza non conosce appartenenze culturali o religiose. L’intenzione della Chiesa, che si è appunto manifestata anche attraverso questa visita, è quella di poter aiutare tutti, di poter contribuire attraverso la nostra azione a diversi livelli - e quindi l’azione caritativa, l’azione educativa, l’azione in campo sanitario - e attraverso tutte queste attività di poter alleviare le sofferenze di queste popolazioni e soprattutto di incamminarci anche verso un futuro migliore.
D. – Fino a poco tempo fa la città di Aleppo era divisa in due: come vive oggi la popolazione, insieme, in questa Aleppo che presenta un nuovo volto?
R. – Evidentemente la popolazione ha sofferto molto la divisione, i bombardamenti di questo periodo e le violenze che si sono sommate in questi anni da una parte e dall’altra: purtroppo la guerra non conosce frontiere e da una parta e dall’altra ci sono state violenze. Adesso la popolazione – con la cessazione delle ostilità in città – si è chiaramente rimessa in moto e soprattutto intravede in qualche misura – speriamo presto – anche un futuro di pace. Peraltro si notava anche che c’è realmente un lento risveglio – e questo lo posso dire con certezza – per le tante istituzioni cattoliche, che stanno avviando programmi per aiutare la popolazione, sia le comunità cristiane sia le comunità musulmane.
D. – Avete incontrato, durante questa visita ad Aleppo, i leader musulmani: qual è stato il senso di questo scambio?
R. – Sì. Abbiamo incontrato il muftì di Aleppo e abbiamo anche fatto una visita alla Grande Moschea di Aleppo, che è stata in parte distrutta: il minareto è stato fatto saltare durante questi anni di occupazione da parte di fazioni ribelli… Chiaramente tutti hanno colto il significato della visita nel senso della vicinanza del Santo Padre per la città e per tutta la Siria.
Francesco saluta l'orchestra dei giovani boliviani
Al termine dell’udienza generale, Francesco ha salutato i giovani musicisti boliviani dell'Orchestra della Gioventù Boliviana "Hombres nuevos" di Santa Cruz de la Sierra, che si sono esibiti in Aula Paolo VI. Questi ragazzi provengono della borgata più povera della città. Oggi pomeriggio i giovani musicisti boliviani presentano, al Pontificio Istituto di Musica Sacra, l'Opera di "San Ignazio di Loyola" di Domenico Zipoli sotto la direzione di Ruben Dario Suarez Arana. In questa occasione si rende omaggio a mons. Nicolas Castellanos, vescovo emerito di Palencia, nato in Spagna, mentore del progetto "Hombres Nuevos". Un progetto giunto al 25.mo anno di vita concentrato sul recupero di giovani in condizioni economiche disagiate, facendoli diventare talentuosi artisti.
Enoc: al via formazione pediatri a Bangui, come voleva il Papa
E’ stata siglata l’intesa tra Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e il centro pediatrico a Bangui nella Repubblica Centrafricana con lo scopo di formare nuovi medici. La richiesta di un’opera concreta, espressa dal Santo Padre all’Ospedale pediatrico della Santa Sede durante la visita nel Paese nel novembre 2015, ha visto la sua realizzazione con questo accordo. Giulia Angelucci ha intervistato la dottoressa Mariella Enoc, presidente del Bambin Gesù:
R. – C’ero stata a ottobre, a Bangui, tre mesi fa: ho trovato i progetti che il Santo Padre desiderava che fossero portati avanti, stanno camminando veramente; la situazione dei profughi è una situazione ormai quasi risolta: stanno tutti tornando alle loro case con l’aiuto che è stato dato. Poi abbiamo firmato un progetto per l’ospedale, il primo progetto a cui si teneva; abbiamo firmato un progetto con il Ministero dell’Educazione per la parte che riguarda l’università e la formazione e con il Ministero della Salute per la riabilitazione e la gestione in maniera adatta del centro pediatrico di Bangui. Quindi c’è stato anche un atto ufficiale che adesso ci impegna veramente a lavorare con il governo per il Paese. Ci sono due ong all’interno del centro pediatrico, quindi in questo momento bisogna cercare di mettere in sintonia anche loro che ovviamente sono molto abituati a lavorare da soli e questo è stato anche un po’ lo sforzo. E speriamo che adesso si incominci presto anche la ristrutturazione dell’ospedale: a settembre inizierà il lavoro vero con l’università per fare noi la formazione dei medici e soprattutto dei pediatri, perché in alcune specialità non hanno proprio nessuno che insegna e quindi per noi sarà anche una formazione un po’ generica, quella che dovremo fare, ma lo facciamo volentieri.
D. – Come e quando è nata, l’iniziativa?
R. - L’iniziativa è nata dopo la visita del Papa nella Repubblica Centrafricana, quando ha chiesto all’Ospedale Bambino Gesù di farsi carico del centro pediatrico di Bangui che lui aveva visitato e trovato in condizioni veramente difficili; poi, in un’udienza che mi ha concesso, mi ha chiesto di occuparmi anche degli altri progetti. La cosa che mi sembra più bella è che noi stiamo lavorando con il Paese e non solo per il Paese. E’ veramente un grande sforzo che coinvolge le autorità, che hanno questa responsabilità, in maniera che sia il Paese a crescere dal suo interno. E’ una fatica più grande che non quella di fare un ospedale nuovo, di gestirlo un po’ come si voglia. Io penso che questo sia anche il pensiero del Santo Padre per aiutare la crescita globale del Paese. C’è anche un progetto agricolo presso i Carmelitani, un progetto molto importante perché dopo aver dato le case, si incomincia a dare il lavoro e contemporaneamente anche la salute. E’ come se la visita del Santo Padre fosse stata un’adozione globale del Paese. Ma le devo dire che si vedono grandissimi cambiamenti a soli due mesi di distanza.
D. – Come avviene la formazione di questi medici?
R. – In grande parte a distanza, perché in grande parte cominciamo dal primo anno, quindi sono lezioni teoriche; e poi si pensa di poterli fare venire mentre qualche volta qualcuno dei nostri medici andrà per le parti un po’ più pratiche. Certo, loro mancano assolutamente di alcuni insegnanti: questo è forse uno dei progetti più complicati di quelli che stiamo affrontando. Però, formare le persone è anche un compito importante. Il Bambin Gesù ha anche un’iniziativa a Betlemme e a Karak, in Giordania; ci vogliono molte risorse economiche ma anche umane. Portare a termine bene questo progetto che sta molto a cuore al Santo Padre: le devo dire che la gente di Bangui è veramente entusiasta e mi vengono a dire: “Ma lei può salutarci il Santo Padre e dirgli che noi gli vogliamo bene, che dobbiamo tutto a lui?”. Il Papa non è andato solo a fare una visita pastorale, ma l’ha tradotta in opere di carità vere.
D. – Questo rapporto di Papa Francesco con la Repubblica Centrafricana …
R. – Lui è arrivato in questo Paese con una guerra terribile in atto; da quel momento è scoppiata la pace. Questa pace è mantenuta: ci sono ancora dei focolai al Nord … I profughi sono tornati alle loro case … se lei vedesse cos’è il seminario: sembra un monastero di clausura. Bisognerebbe affrontare magari piccoli Paesi, però con questo spirito diventano dei grandi segnali.
Nataša Govekar: comunicatori cristiani ispirino fiducia e speranza
“Vorrei invitare tutti a offrire agli uomini e alle donne del nostro tempo narrazioni contrassegnate dalla logica della buona notizia”. E’ uno dei passaggi forti del Messaggio di Papa Francesco per la 51.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, pubblicato e presentato ieri. Sul documento, che invita i media a creare fiducia “a partire dalla Buona Notizia che è il Vangelo", Alessandro Gisotti ha intervistato la prof.ssa Nataša Govekar, direttore della Direzione Teologico-Pastorale della Segreteria per la Comunicazione:
R. – La “buona notizia”, come la intendiamo noi cristiani, non è un ottimismo facile, superficiale, ma è il Vangelo, è Gesù Cristo stesso, il Verbo, nel quale c’è la vita e questa vita è la luce degli uomini, come leggiamo nel Prologo di Giovanni: questa luce splende nel mondo e le tenebre di questo mondo non possono sopraffarla. Ora, chi ha colto questa luce tende a leggere gli avvenimenti nella chiave della speranza, così che in ogni dramma della storia umana, noi abbiamo la possibilità di guardare oltre il male, di vedere anche ciò che germoglia di nuovo, ciò che suscita la fiducia e di arginare così la paura e dare piuttosto spazio alla novità che Dio sta facendo in mezzo a noi. Proprio questo, credo, dovrebbe essere la differenza di uno stile cristiano di comunicare: cioè questa capacità contemplativa, la capacità di domandarsi che cosa in una data situazione sta succedendo tra Dio e l’umanità, la capacità di accorgersi che non siamo soli perché c’è il Padre. E il frutto di questa esperienza della presenza del Padre, di questa solidarietà di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, è la speranza che lo Spirito riversa nei nostri cuori e che poi si manifesta come creatività anche in mezzo alle vicende più tragiche dell’umanità. Credo che noi cristiani siamo i primi a dover essere in grado di riconoscere e raccontare queste storie di speranza e creatività per ispirare appunto speranza e fiducia agli uomini e alle donne del nostro tempo.
D. – Papa Francesco scrive fra l’altro nel Messaggio che “le immagini, più dei concetti, comunicano la bellezza del Regno di Dio”. Questa potrebbe essere anche un’indicazione per la presenza cristiana nelle reti sociali, dove i contenuti, appunto per immagini, sono proprio i più condivisi…
R. – Il rapporto tra parola e immagine è di fondamentale importanza per la fede cristiana, perché il Verbo si è fatto carne, si è fatto Volto, si è fatto immagine. Ora, l’era digitale è solo un motivo in più per ricordare ciò che sta al cuore del messaggio cristiano, ma anche per chiederci, proprio perché viviamo in un mondo sommerso da immagini sensuali, immagini passionali, per chiedersi in quali immagini si esprime la Buona Notizia, che non è – appunto – solo una realtà abbellita, ma contiene in sé la sobrietà della Pasqua, dell’amore di Dio che muore e risorge. Credo che siamo chiamati al continuo discernimento tra una bellezza che è solo cosmetica e la bellezza che appartiene al Regno di Dio, che è la rivelazione della verità, è la realizzazione dell’amore.
Iraq. Patriarca Sako: aiutare i cristiani a tornare nelle loro case
Il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha confermato ieri che la zona est di Mosul è stata liberata dai miliziani jihadisti. L'annuncio era stato dato alle forze governative, a tre mesi dall'inizio della Campagna per riprendere la seconda città del Paese, ultima roccaforte dell’Is. Intanto nella zona ovest della città irachena ci sono ancora 750 mila civili che vivono sotto il controllo delle forze jihadiste. Grande la preoccupazione da parte delle Nazioni Unite per le prossime operazioni militari, che dovrebbero liberare questa parte di Mosul ma che potrebbero essere causa della perdita di un numero non calcolabile di vite umane. Ascoltiamo il commento del Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, al microfono di Marina Tomarro:
R. – L’esercito iracheno ha liberato la parte nord-est della città, che è più grande. Adesso cominciano a liberare l’altra parte, al di là del Tigri: dunque la parte sud-est, che è più complessa perché le case sono antiche, c’è più gente, non ci sono strade: sono vicoli, solo per camminare, ma le macchine non possono passarci. Perciò è molto complicata, la situazione, che lì è anche tragica perché da quasi un mese non c’è acqua … Non sappiamo quale sia la reale situazione lì. Io parto domani per fare una visita al quartiere Al Nour, a 15 km da Mosul e vado a visitare la chiesa del Santo Spirito, liberata, dove era stato rapito il vescovo Raho e assassinato il padre Ragheed.
D. – Com’è in questo momento la situazione? Quali sono i bisogni più urgenti della popolazione?
R. – Dunque, adesso fa veramente molto freddo: la gente ha bisogno di riscaldamento ma non ne hanno; tanti vivono sotto le tende. Poi, serve cibo, medicinali, acqua … è una situazione molto, molto difficile!
D. – Il vostro premier Abadi ha affermato che il neo-Presidente degli Stati Uniti, Trump, avrebbe promesso di rafforzare ulteriormente l’assistenza per il vostro Paese. Lei cosa ne pensa?
R. – Non abbiamo tanta fiducia, perché ogni tanto cambia. E non sappiamo cosa succederà: non sappiamo ma anche forse loro – il governo iracheno – non sa cosa succederà “dopo” l'Isis. I problemi non saranno tutti risolti, perché ce ne saranno altri: la riconciliazione, il futuro di Mosul, della Piana di Ninive e tutto questo … non è facile.
D. – Secondo lei, le Nazioni Unite adesso cosa dovrebbero fare?
R. – La priorità è la sicurezza, che consenta alle persone di tornare. Poi, la politica: lo Stato deve avere una politica globale per l’Iraq, nella quale tutti saranno partecipi, tutti saranno integrati. Io spero che il regime sarà un regime neutro in cui tutti sono cittadini nuovi. Anche la ricostruzione delle case, delle infrastrutture – acqua, elettricità, scuole, ospedali … per la fine dell’estate, deve essere tutto finito affinché la gente possa tornare nelle case.
D. – La parte est di Mosul è stata liberata: come sta riprendendo la vita in questi giorni?
R. – Prima di tutto, non ci sono cristiani a Mosul: i cristiani sono sfollati in Kurdistan e a Erbil, Duhok, Baghdad, Kirkuk … ma anche per i musulmani, lì, è uno shock: anche loro hanno perso tutto, loro adesso sono rifugiati nei Campi ma c’è tanta gente che è rimasta nelle sue case, anche se manca loro quasi tutto.
D. – Come potrebbe evolversi la situazione, a questo punto?
R. – C’è una speranza. Noi inizieremo molto presto, come Chiesa, a ricostruire o riparare le case di coloro che vogliono tornare, soprattutto nella direzione verso Nord. In tutta questa linea di villaggi totalmente caldei, loro possono tornare! Abbiamo compilato una lista, in questi giorni, delle famiglie che vogliono tornare subito e abbiamo raccolto un po’ di denaro da tutte le diocesi caldee per aiutare questo ritorno, per riparare le case e così incoraggiare la gente a rientrare. E’ un inizio. Dopo faremo di più. Faremo un appello anche alle nostre Chiese, ma anche ad “Aiuto alla Chiesa che soffre”, alla Caritas, alle Conferenze episcopali perché è peccato che tutta questa gente vada via e non torni nei suoi villaggi …
Pro-life: Strasburgo, sentenza storica contro maternità surrogata
Una sentenza storica. Lo ribadiscono i movimenti pro-life commentando la decisione della Corte dei diritti umani di Strasburgo che ieri, ribaltando un pronunciamento del gennaio 2015, ha affermato che una coppia non può riconoscere un figlio come suo, se il bimbo è stato generato da una madre surrogata, senza alcun legame biologico con i due aspiranti genitori. Massimiliano Menichetti:
Il caso è quello di due coniugi italiani che nel 2011 hanno avuto un figlio grazie alla maternità surrogata in Russia e poi sono rientrati in patria, dove tale pratica è vietata, con un falso certificato di nascita. Da qui partiranno una serie di accuse, sul piano penale. Seguirà una complessa vicenda giudiziaria che vedrà affidare il piccolo ad altra famiglia fin dal 2013 ed il conseguente ricorso, a Strasburgo, della coppia prima e dell’Italia poi. Il prof. Vincenzo Bassi, delegato dell’Unione Giuristi cattolici:
"La sentenza ha una portata importantissima perché fissa un principio: il riconoscimento della genitorialità è automatico solo se passa da un legame biologico. Sembra un principio semplice ma non è banale soprattutto perché in questi ultimi anni è sempre stato messo in discussione. Non ci dimentichiamo che ad ottobre c’è stata la relazione De Sutter, ovvero una parlamentare e ginecologa belga, che ha cercato in modo indiretto di ammettere la tolleranza sulla pratica della maternità surrogata. Questa sentenza ha precisato che non esistono i presupposti giuridici per fare entrare negli ordinamenti degli Stati sovrani pratiche come la maternità surrogata, senza passare per la via parlamentare. Sul tema della maternità surrogata quindi non è possibile quella che i giuristi chiamano la 'giurisprudenza creativa', ovvero pronunciamenti dei giudici che prescindendo dal diritto positivo, si permettono di creare artificialmente dei diritti, come nel caso di questi ricorrenti alla Corte di giustizia dei diritti dell’uomo che hanno portato in Italia un bambino fatto nascere attraverso la maternità surrogata".
Una decisione storica per Massimo Gandolfini, presidente del Comitato “Difendiamo i nostri figli”:
"Penso che sia davvero una sentenza storica che condanna definitivamente, ad alto livello europeo, quella che io continuo a definire una pratica incivile e abominevole: l’utero in affitto. Quindi ribadisce un concetto fondamentale: i bambini non si comprano, i bambini non sono merce che si va ad acquistare al supermercato. Quindi pone al centro la dignità della donna, che non deve essere vista come una sorta di macchina che serve per realizzare desideri altrui".
Il bambino della coppia di italiani rimane presso la famiglia affidataria dove si trova da quando aveva circa nove mesi. Ancora Gandolfini:
"Il bambino ha il diritto di avere un padre ed una madre, questo è il legame che è stato offeso fin dall'inizio".
La sentenza di Strasburgo comunque non incide in quei Paesi dova la maternità surrogata è possibile, ma è un altro tassello nella direzione del rispetto della donna e dei diritti del bambino. Ancora Bassi:
"Adesso, dopo la bocciatura della relazione Sutter e dopo questa sentenza della Corte europea tutti quanti noi siamo più incoraggiati a continuare questa battaglia di civiltà e di verità contro lo sfruttamento delle donne e a favore dei diritti dei bambini".
Usa: muro con Messico non risolve problemi sicurezza e traffici illegali
“Un grande giorno per la sicurezza nazionale. Tra le tante cose costruiremo il muro”, così ha twittato il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciando la firma per sbloccare i fondi necessari per completare la barriera lungo il confine con il Messico. Roberta Gisotti ha intervistato il prof. Gregory Alegi, docente di Storia delle Americhe all’Università Luiss di Roma.
Un muro che in realtà già esiste dal 1994, la cui costruzione è iniziata alla presidenza di Bill Clinton e proseguita sotto quella di Barak Obama. Su 3140 km di frontiera con il Messico, circa 1000 km sono già presidiati con barriere fisiche lungo aree urbane e disabitate, da migliaia di agenti. Migliaia gli arresti e decine i morti ogni anno tra quanti cercano di passare clandestinamente il confine, messicani ma anche guatemaltechi, honduregni, salvadoregni e nicaraguensi. Qualcuno lo ha chiamato il “muro della vergogna” ma la pubblica opinione sembra averlo scoperto solo durante la campagna elettorale di Trump, come conferma il prof. Gregory Alegi:
R. – Il problema della sicurezza della frontiera con il Messico sia per gli aspetti di immigrazione sia per quelli forse più pericolosi di traffico di esseri umani e traffico di stupefacenti c’è da tempo. Ed è per questo che da tempo quel confine è super-pattugliato e su molti larghi tratti ci sono sistemi di protezione: in alcuni casi di sensori, in altri di muro vero e proprio. Ed è per me un ‘mistero’ che in campagna elettorale il Partito democratico abbia lasciato a Trump campo libero su questo tema senza ricordare che larghi tratti sono chiusi già dall’era Clinton.
D. - Quindi il problema è stato sottaciuto?
R. - C’è un problema di percezione. Come in qualsiasi campagna elettorale e in qualsiasi Paese è da questa percezione che nasce il desiderio di una chiusura fisica del confine; non senza contraddizioni, perché poi ci sono invece delle aree, dei gruppi che sono considerati desiderabili o degni di aiuto per i quali vale invece il meccanismo contrario. Uno degli ultimi provvedimenti presi da Obama fu quello di rimuovere la pregiudiziale a favore dei rifugiati cubani, che se riuscivano in qualche modo a mettere piede negli Stati Uniti godevano automaticamente del permesso di soggiorno e di una via privilegiata per diventare cittadini americani. Mentre quelli sudamericani, latinoamericani, non solo messicani, anche quando riescono ad entrare poi devono affrontare una lunga esistenza da clandestini senza documenti.
D. – Ma ci sono possibilità che davvero questo provvedimento poi garantisca la sicurezza?
R. – Ci può essere qualche ragionevole dubbio. Il confine già oggi è ricco di tunnel e di passaggi, di varchi costruiti anche in maniera piuttosto sofisticata per aggirarlo. E’ una misura da un lato psicologica e dall’altro politica perché vuole mostrare come il nuovo Presidente mantenga subito le sue promesse. Da questo punto di vista parla all’elettorato di Trump senza rimuovere le cause di questa immigrazione clandestina che presumibilmente potrebbe anche aumentare una volta che dovessero andare in porto le iniziative per ridurre gli investimenti americani in Messico. Quindi riducendo l’occupazione, riducendo la crescita in Messico, i messicani potrebbero avere più stimolo a tentare la fortuna negli Stati Uniti piuttosto che rimanere a casa propria.
D. – Trump ha anche annunciato una serie di provvedimenti restrittivi verso gli immigrati siriani e di altri Paesi, in particolare Iraq, Iran, Yemen, Libia, Sudan, Somalia. Come a dire al resto del mondo: sono problemi vostri! Però è pure vero che lasciare svuotare questi Paesi non basta e servono politiche di pacificazione efficaci…
R. – Ridurre e chiudere, in qualche modo controllare i canali di accesso legali, è anche in questo caso una decisione che parla alla psicologia dell’elettore trumpiano che ormai vede nel mediorientale il terrorista. A prescindere dalla valutazione dei casi sembra una resa, in qualche modo una denuncia indiretta della capacità delle strutture di sicurezza americane - FBI, etc. - di valutare, individuare, comprendere queste dinamiche piuttosto complesse. Quindi non è una soluzione anche perché un attacco agli Stati Uniti può avvenire fuori dai suoi confini, perché aziende, interessi e presenze diplomatiche americane sono sparse ovunque. Quindi non credo che sia facile tradurre automaticamente in sicurezza una misura che per come è annunciata contiene più di un tono di pregiudizio.
Medio Oriente: Onu condanna nuovi insediamenti israeliani
Le Nazioni Unite hanno condannato il progetto di Israele, che prevede la costruzione di nuovi insediamenti e l’ampliamento di alcuni di essi nei Territori occupati in Cisgiordania. Un alto funzionario Onu ha affermato che queste “azioni unilaterali” da parte del governo guidato da Benjamin Netanyahu sono un ostacolo alla pace e alla soluzione dei due Stati. Silenzio, invece, alla Casa Bianca – riporta l’agenzia AsiaNews - dove la neo amministrazione Trump non ha voluto commentare la decisione di Israele.
Annunciato la realizzazione di 2.500 nuove abitazioni
Ieri il premier Netanyahu ha annunciato la realizzazione di 2.500 nuove case - il progetto più imponente degli ultimi anni - in “risposta ai bisogni abitativi”. Si tratta del secondo annuncio di questa natura in pochi giorni; all’indomani del giuramento del neo Presidente Trump, il 20 gennaio scorso, il governo aveva concesso il via libera a centinaia di nuovi insediamenti.
La decisione allontana sempre di più le speranze di pace
Nel pomeriggio di ieri l’approvazione di altre migliaia di unità abitative. Una decisione che ha fatto infuriare i vertici palestinesi, che definiscono sempre più remote le speranze di pace e la possibilità di vedere nascere un futuro Stato sulla loro terra. Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) parla di “furto di terre” e di neo “colonialismo”.
Un negoziato per raggiungere l'obiettivo dei due Stati
Intervenendo sulla questione Stephane Dujarric, portavoce del segretario generale Onu Antonio Gutierres, sottolinea che “per il Segretario generale non esiste un piano B alla soluzione del due Stati”. In questo senso, aggiunge, “ogni azione unilaterale” che può essere un “ostacolo” all’obiettivo finale è fonte di “grave preoccupazione”. “È necessario - conclude - che le due parti si impegnino in un autentico negoziato per raggiungere l’obiettivo dei due Stati, per due popoli”. A parole, nei giorni scorsi, Netanyahu ha affermato di voler perseguire ancora l’obiettivo dei due Stati; in realtà, egli ha impresso una accelerazione mai vista prima alle colonie che rischiano di distruggere o impossessarsi dello spazio fisico e geografico per la nascita di un futuro Stato palestinese.
Sotto il governo Netanyahu, un considerevole incremento delle colonie israeliane
Nel 2015 almeno 15mila nuovi coloni si sono trasferitisi nella West Bank. Secondo l’organizzazione Peace Now nel 2016 l’amministrazione israeliana ha dato il via libera a 2.623 nuovi insediamenti. Fra questi vi sono 756 case abusive e “legalizzate” a posteriori. Ad oggi almeno 570mila cittadini israeliani vivono in oltre 130 insediamenti costruiti da Israele a partire dal 1967, data di inizio dell’occupazione e cresciuti a ritmo esponenziale negli ultimi tempi grazie alla politica del governo israeliano. Agli insediamenti si aggiungono anche almeno 97 avamposti, considerati illegali non solo dal diritto internazionale ma dallo stesso governo israeliano. (R.P.)
Corruzione: Nuova Zelanda e Danimarca Paesi virtuosi, Somalia ultima
Sono Nuova Zelanda e Danimarca i Paesi più virtuosi al mondo secondo il Rapporto sulla corruzione, pubblicato oggi da Transparency International. Lo studio dell’organizzazione, giunto alla 22.esima edizione, si basa sul cosiddetto “indice di percezione” che misura la corruzione nel settore pubblico e politico di 176 Paesi. A seguire, nella classifica, figurano Finlandia e Svezia, Stati che - sottolinea Transparency International - “possiedono legislazioni avanzate su accesso all’informazione, diritti civili, apertura e trasparenza dell’amministrazione pubblica”.
Italia è 60.ma, ultima la Somalia
L'Italia fa segnare un miglioramento nel 2016 rispetto al 2015, ma è 60.ma assieme a Cuba ed è terzultima nella classifica dei Paesi Ue, seguita da Grecia e Bulgaria. Germania e Regno Unito sono al 10.mo posto, la Francia al 23.mo. Fanalino di coda del Rapporto risulta la Somalia, immediatamente preceduta da Sud Sudan, Corea del Nord e Siria.
Il caso degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti sono scesi al 18.esimo posto, due posizioni in meno rispetto all'anno precedente. Secondo Alejandro Salas, direttore regionale di Transparency International per le Americhe, l'impatto della gestione del neo Presidente Donald Trump potrà riflettersi solo nelle classifiche future. “Trump ha un duplice rapporto con la questione della corruzione”, ha detto Salas. “Da un lato - ha aggiunto - ha fatto una campagna contro la corruzione, dicendo che voleva scuotere l'istituzione, dando il potere al popolo, ma dall’altro con la sua mancanza di trasparenza manda segnali allarmanti che la corruzione potrebbe essere alimentata”.
Venezuela: nel dialogo governo-opposizione ascoltare il popolo
"I punti principali da discutere al tavolo del dialogo sono le domande della gente, le lacrime delle persone, ciò che le famiglie vogliono offrire per mostrare ai giovani un percorso con un futuro" ha detto il nunzio apostolico in Venezuela, mons. Aldo Giordano, ad una televisione locale, Venezolana TV, interpellato sull'andamento del colloquio fra opposizione e governo.
La situazione dei prigionieri politici, uno dei temi più urgenti da affrontare
Il rappresentante della Santa Sede al tavolo dei colloqui - riferisce l'agenzia Fides - ha riferito ieri, che gli osservatori internazionali hanno la speranza di ottenere un documento comune condiviso da governo nazionale e opposizione, per rilanciare il processo di dialogo. "Ci sono anche altri temi come l'autonomia delle istituzioni, le elezioni e la Commissione per la verità, la giustizia e il risarcimento delle vittime" ha detto ancora l’arcivescovo, secondo la nota inviata a Fides, e ha concluso sottolineando che "la situazione dei prigionieri politici è forse una delle più urgenti e delicate questioni da considerare". (C.E.)
Rigopiano, estratti altri corpi. Vittime salite a 24, 5 i dispersi
Le macerie del Rigopiano stanno purtroppo restituendo solo morti. Le vittime della slavina sono salite a 24, i dispersi sono scesi a 5 e le speranze che siano ancora in vita sono ridotte al minimo. E’ stato fatto ogni sforzo possibile per salvare vite, ha detto il presidente del Consiglio Gentiloni che, in Senato, ha riferito sulla situazione nel Centro Italia in generale, dell’Hotel Rigopiano in particolare. Francesca Sabatinelli:
E’ stato fatto tutto, ogni sforzo possibile dal punto di vista umano e organizzativo. Il premier Gentiloni non vuole alimentare le polemiche e non intende condividere, spiega, la voglia di cercare capri espiatori. Dalle rovine del Rigopiano stanno continuando ad emergere corpi che, con il riconoscimento dei familiari, ritrovano mano a mano la loro identità: c’è il receptionist dell’albergo, il ternano Alessandro Riccetti, c’è l’amministratore del Resort Roberto Del Rosso, così come il giovane Stefano Feniello, la cui fidanzata Francesca è tra i sopravvissuti. Per alcuni dei 24 morti oggi si sono svolti i funerali, per i genitori del piccolo Edoardo tratto in salvo, Nadia e Sebastiano Di Carlo.
Soccorritori esemplari: così ha definito Gentiloni tutti coloro che ormai da una settimana scavano ininterrottamente e che nelle prime ore delle ricerche hanno tratto in salvo nove persone. La capacità di reazione dimostrata è stata all’altezza di un gran Paese, ha proseguito Gentiloni con l’evidente intenzione di stemperare le polemiche sull’allarme inizialmente ignorato da parte di funzionari della Prefettura. Saranno le inchieste a determinare o meno ritardi, malfunzionamenti, responsabilità. “La verità serve a fare meglio – ha precisato Gentiloni – ma non ad avvelenare pozzi”. 40 le dighe nella zona interessata dal sisma che il premier ha garantito essere state verificate negli ultimi mesi, sul black out di energia che vede ancora oggi alcune centinaia di utenze non allacciate nel teramano si dovrà indagare per capire, ha quindi proseguito Gentiloni, quanto abbiano inciso le circostanze eccezionali e quanto invece dipenda da problemi più generali di manutenzione. Sembrano comunque rientrate tutte le emergenze e, al di là di Rigopiano, non ci sono altri scenari operativi in corso, ha dichiarato la Protezione Civile che, però, non nega ancora situazioni di disagio nei territorio colpiti dall’emergenza che verrà affrontata con 4 miliardi della legge di bilancio e con altri fondi che ci saranno, ha garantito il premier.
Cile: i vescovi auspicano giustizia e pace per la regione dell’Araucanía
Il Consiglio permanente della Conferenza episcopale cilena (Cech) ha emesso ieri una nota, firmata dal presidente, mons. Santiago Silva Retamales, vescovo castrense, nella quale auspica che il lavoro della Commissione presidenziale consultiva per l’Araucanía “possa tradursi in proposte e decisioni politiche pubbliche con l’urgenza che è richiesta, poiché la regione, colpita da anni da scontri e violenze, e con essa il popolo mapuche non possono soffrire “nuove dilazioni nel cammino di incontro, giustizia, riparazione e pace”. Nella nota - riporta l'agenzia Sir - la Cech ringrazia in particolare il vescovo di Temuco, mons. Héctor Vargas, che ha coordinato la Commissione, redigendo un rapporto finale, con una serie di proposte, consegnato lunedì alla presidente della Repubblica Michelle Bachelet. Proposte che vengono “giudicate positivamente” dalla Chiesa cilena.
Grave situazione di povertà e violenza nella regione
La nota dell’episcopato mette in evidenza tre aspetti rilevanti che la Commissione ha invitato ad affrontare: la realtà storica e i diritti del popolo mapuche, la drammatica sofferenza delle vittime di violenza rurale, con chiese o templi di diverse confessioni religiose bruciati, e la grave situazione di povertà della regione. A giudizio del Consiglio permanente della Cech, il rapporto della Commissione fa emergere “una realtà di ingiustizia, rinvio nella soluzione dei problemi e violenza che la Chiesa ha denunciato e accompagnato attraverso anni di missione evangelizzatrice e di servizio alla zona”.
Piano speciale per l’Araucanía
Le richieste della Commissione, consegnate alla presidente Bachelet, prevedono, tra l’altro, il riconoscimento costituzionale dei popoli indigeni; una rappresentanza speciale in Congresso e la costituzione di un ministero per i Popoli indigeni; l’approvazione di una legge speciale per l’Araucanía; la creazione di commissioni per la ridistribuzione delle terre indigene e per la riparazione delle vittime della violenza; piani organici di sviluppo per le comunità indigene; la creazione di un’Agenzia per l’Acqua. La presidente Bachelet nell’incontro di lunedì aveva spiegato che ci sono le risorse per un Piano speciale per l’Araucanía e che questa è una priorità. La Commissione ha lavorato dallo scorso luglio ed era composta da venti membri, rappresentanti del Governo, della comunità mapuche, della Chiesa e della società civile. (A.P.)
Real Madrid: via la croce dallo stemma per vendere nei Paesi arabi
Il Real Madrid Club de Fútbol, storico club di calcio spagnolo e organizzazione tra le più prestigiose dello sport mondiale, modificherà il disegno del proprio scudo per eliminare la croce che sovrasta la corona del proprio simbolo. La decisione - riporta l'agenzia AsiaNews - è stata presa a seguito di un accordo regionale siglato ieri per la distribuzione del materiale tecnico della squadra in alcuni Paesi del Medio Oriente.
Nelle casse del club spagnolo 50 milioni di euro
L’accordo, di durata quinquennale e che frutterà alle casse del club spagnolo 50 milioni di euro, è stato siglato con Marka, una società di distribuzione con sede negli Emirati Arabi Uniti. Essa acquisisce così i diritti esclusivi per la produzione, la distribuzione e la vendita dei prodotti a marchio Real Madrid negli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein e Oman.
Nei Paesi del Golfo vi è una forte sensibilità nei confronti di prodotti che hanno impressa una croce
Il business è importante nello sport attuale e così a farne le spese è la piccola croce sulla corona del glorioso stemma. In un’intervista telefonica con la Reuters, Khaled al-Mheiri, vicepresidente di Marka, ha così motivato la decisione: "Dobbiamo essere attenti poiché nella regione del Golfo vi è una forte sensibilità nei confronti di prodotti che hanno impressa una croce". Le vendite cominceranno a marzo.
Il Real Madrid non ha ancora rilasciato dichiarazioni
Seppur sollecitato per posta elettronica da media e tifosi che chiedevano spiegazioni, il Real Madrid da parte sua non ha ancora rilasciato dichiarazioni. Esso non è nuovo a questo genere di provvedimenti. Una situazione simile si verificò nel 2012 per la costruzione del Real Madrid Resort Island negli Emirati Arabi. Nel 2014 il club spagnolo dispose la rimozione della croce cristiana presente nel proprio marchio qualora questo venisse sfruttato dalla Banca Nazionale di Abu Dhabi, suo partner commerciale. Questo scatenò la reazione di soci e tifosi che protestarono con durezza contro la decisione unilaterale del presidente Florentino Perez. Anche l’opinione pubblica si mosse. (R.P.)

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 25