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Sommario del 11/02/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a malati: da Maria la tenerezza di Dio. Messa di Parolin a Lourdes

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“Desidero incoraggiarvi tutti a contemplare in Maria, Salute dei malati, la garante della tenerezza di Dio per ogni essere umano”: è quanto scrive in un tweet Papa Francesco nella Giornata Mondiale del Malato che ricorre oggi nella Memoria della Beata Vergine di Lourdes. Proprio nella “cittadella mariana”, il cardinale Pietro Parolin ha celebrato, stamani, una Messa come Inviato speciale del Pontefice davanti a una moltitudine di fedeli. Il servizio di Alessandro Gisotti

“L’Eccomi” di Maria è stato il tema forte dell’omelia del cardinale Pietro Parolin al Santuario mariano di Lourdes. Il segretario di Stato vaticano ed Inviato Speciale del Papa ha, innanzitutto, rammentato le parole di Francesco nel Messaggio per l’odierna 25.ma Giornata Mondiale del Malato, chiedendo a medici e volontari di essere “segni gioiosi della presenza e dell’amore di Dio” per coloro che soffrono. Proprio sul significato dell’Eccomi di Maria per i malati, abbiamo raggiunto telefonicamente a Lourdes, don Giovanni Frigerio, assistente dell'Unitalsi nel Santuario mariano:

R. – Attraverso questo Eccomi di Maria noi possiamo riconoscere l’Eccomi di ciascun battezzato, ma direi soprattutto l’Eccomi del malato, il quale è chiamato proprio a condividere con il Signore Gesù e attraverso l’intercessione di Maria, proprio questo cammino del sì, un sì che dice amore, che dice che la sofferenza, la malattia non sono un castigo e che attraverso la malattia uno partecipa a questo dono di salvezza per il mondo di oggi e per ogni persona.

D. – Il cardinale Parolin ha sottolineato che è proprio attraverso l’Eccomi di Maria, che poi si declina nell’Eccomi della presenza di ognuno vicino a chi soffre. Lei, questa, è un’esperienza che vive quotidianamente …

R. – L’accompagnamento spirituale dei malati è davvero una cosa grande. Innanzitutto, la prima esperienza che io faccio è che tutto quello che posso donare a loro è quello che loro donano anche a me, come prete. Tu vedi persone che davvero ritrovano quella speranza e quel senso della vita, nonostante che a volte il loro corpo possa essere anche rovinato dalla malattia! La gioia del cammino per dire davvero che non siamo abbandonati: il Signore ci è vicino! E soprattutto attraverso Maria sentono questo. E ritorniamo nel nostro quotidiano con nel cuore una nuova speranza.

Per un bilancio di questa 25.ma Giornata mondiale del malato, istituita da San Giovanni Paolo II, Fabio Colagrande ha intervistato don Carimene Arice, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della salute:

R. – Il senso di una giornata importante e solenne non è dato solo dalle tante autorità che sono qui presenti – il delegato pontificio cardinale Parolin, il cardinale Turkson i tantissimi vescovi e i tantissimi sacerdoti – ma dal volto gioioso delle persone che sono qui oggi. Essere l’11 febbraio a Lourdes, per chi conosce la grazia di questo luogo, è veramente un monumento di particolare intensità spirituale. E poi oggi in modo particolare vogliamo portare a Lourdes tutti gli ammalati, perché è la Giornata nella quale la Chiesa prega in modo particolare per loro e quindi li presentiamo qui alla Santa Vergine.

D. – Si può fare un bilancio di questo 25.mo della Giornata mondiale del Malato?

R. – Il Santo Padre ci ha ricevuto ieri in udienza come Conferenza episcopale italiana e ha fatto un bilancio puntualissimo, mettendo in evidenza delle luci e delle ombre. Tra le luci, la ricerca scientifica, il lavoro di tanti operatori sanitari molto generosi che - con scienza, competenza e coscienza - fanno veramente questo servizio; il volontariato – ha sottolineato molto – quanto sia prezioso questo dono per l’Italia. E poi ha messo anche in evidenza alcune ombre, nella speranza che diventino luce: la difficoltà di accedere alle cure sanitarie di tante persone – sempre di più, 11 milioni di italiani – e quindi il desiderio da parte del Santo Padre di vedere una Chiesa impegnata ad andare soprattutto verso le persone più indigenti. Ha richiamato l’importanza di garantire il diritto alla salute per tutti, sancito dalla Costituzione ed ha richiamato la Chiesa e le istituzioni sanitarie cattoliche ad essere particolarmente presenti accanto alla persone più indigenti.

D. – Sappiamo come la crisi economica, che dura ormai da diversi anni, abbia creato questo circolo vizioso: dalla crisi economica alla povertà sanitaria. Su questo aspetto la Chiesa e le strutture sanitarie cattoliche, che mandato hanno?

R. – Il Papa è stato molto chiaro e ci ha detto: provate a capire se non dovete riconvertire le vostre strutture per lasciare magari quello che già trova risposta e andare verso coloro che risposta non hanno. Quindi si tratta di essere molto concreti nell’abitare il territorio, ascoltare la gente e fare delle proposte concrete di vicinanza a loro. Ma concrete! E quindi che passino dalla cura assistenziale fino all’attenzione a tutta la persona – come diceva ieri il Papa – per una salute integrale.

Sull’importanza dei pellegrinaggi, ascoltiamo la riflessione dell'arcivescovo emerito di Trento mons. Luigi Bressan, assistente ecclesiastico nazionale di Unitalsi, anch’egli oggi a Lourdes:

R. – Veramente oggi è stata una giornata eccezionale, anche per moltissima gente, e speriamo che sia anche una ripresa dei pellegrinaggi durante tutto l’anno. Il pellegrinaggio è un arricchimento per le persone che partecipano, per le Chiese che visitiamo ma anche per le Chiese da cui partiamo e delle quali portiamo le preoccupazioni, le gioie ma anche le attese e le aspirazioni.

Ieri, il cardinale Parolin aveva accompagnato i pellegrini durante la tradizionale fiaccolata al Santuario mariano. La fragilità, aveva affermato, “non annulla mai l’altissima e intrinseca dignità di ciascun essere umano”. “La dignità umana - aveva poi sottolineato - è qualcosa che nessuno può cancellare o compromettere”. Oggi pomeriggio, il porporato tiene una meditazione durante la celebrazione dell’Adorazione Eucaristica e a seguire il rito dell’unzione dei malati.

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Fra Fabello: oggi non si lotta per i diritti dei malati

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“Lottare per il rispetto dell’integralità e della dignità delle persone”. Nel suo Messaggio per la Giornata mondiale del malato, che si celebra oggi, il Papa usa un verbo forte in difesa di chi patisce i disagi di una salute fragile. E ieri, nell’udienza alla Commissione per il servizio della carità e la salute della Cei, Francesco ha esortato a non speculare sui malati ma a usare verso i sofferenti la “fantasia della carità”. Su questi aspetti riflette fra Marco Fabello, direttore generale dell'Istituto Fatebenefratelli di Brescia, intervistato da Alessandro De Carolis: 

R. – Oggi dobbiamo – tra virgolette – lottare molto per difendere certi diritti. In effetti siamo in un tempo in cui non si lotta per i malati e per le persone in genere, ma anche per lo stesso ambiente non si ottengono risultati accettabili. E lo vediamo adesso, in questi anni, come le persone anziane, le persone più deboli debbano lottare contro – ad esempio – la carenza di mezzi e di strutture o anche solo contro una impreparazione o la visione distorta della vita da parte di molti.

D. – I Fatebenefratelli sono esperti di pastorale sanitaria che promuovono anche con una specifica formazione accademica. Qual è - verrebbe da dire - l’attuale stato di salute di questa pastorale?

R. – Devo dire che c’è una migliore attenzione in questi anni a livello anche nazionale: però siccome prima si faceva poco, adesso quel poco che si fa sembra tanto, ma siamo ancora un po’ all’inizio e abbiamo ancora tanta strada da percorrere, anche perché la formazione di cui c’è bisogno oggi è molto più alta di quella di cui ci si poteva accontentare ieri. E se la professionalità della classe media è cresciuta deve crescere anche la professionalità della pastorale: deve avere almeno lo stesso grado di dignità e di formazione.

D. – Si parla sempre di sfide: quelle della pastorale sanitaria oggi quali sono?

R. – La sfida oggi è quella di essere capaci di rimanere nell’ambito sanitario, perché c’è anche una certa repulsione in alcune realtà verso la presenza, anche solo del sacerdote in ospedale o anche nel territorio. E’ anche per questo che probabilmente la Chiesa stessa invita a scendere nell’ospedale più grande, che è il territorio. Perché nel territorio deve trovare linfa lo spazio della pastorale della salute. Sappiamo tutti che ormai l’ospedale più grande è il territorio: l’ospedale tradizionale serve per alcuni giorni e poi dopo tutte le persone tornano ancora malate a casa.

D. – Il Papa, nel suo messaggio, nota come la Vergine apparsa a Lourdes parli a Bernadette, analfabeta e malata, con rispetto e senza compatimento. Questo è da sempre anche lo stile della missione dei Fatebenefratelli…

R. – Questo è ciò che dovrebbe declinare l’azione di ogni operatore sanitario: Fatebenefratelli, religiosi, laici. E’ proprio qui il bello dell’essere operatori sanitari: quello di vedere cioè in ogni essere umano una integrità, una grande totalità di persona. Non è ancora molto facile distinguere oggi un malato dall’altro oppure che un malato abbia meno diritti perché è meno presente e pensiamo ai malati di Alzheimer che molto spesso sono dimenticati, sono abbandonati a se stessi oppure sono ritenuti incapaci e quindi come incapaci sono anche abusate e abusate anche a livello economico e a livello pratico. Quindi io credo che il richiamo del Papa su Santa Bernadette sia assolutamente pieno di attualità e che questo rispetto sia un qualcosa che dobbiamo recuperare presto e bene.

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Papa nomina inviato speciale della Santa Sede per Medjugorje

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Papa Francesco ha incaricato mons. Henryk Hoser, arcivescovo-vescovo di Warszawa-Praga (Polonia), di recarsi a Medjugorje quale Inviato Speciale della Santa Sede. Lo riferisce la Sala Stampa vaticana. Il servizio di Sergio Centofanti: 

La missione dell'Inviato Speciale a Medjugorje - afferma la Sala Stampa della Santa Sede - "ha lo scopo di acquisire più approfondite conoscenze della situazione pastorale di quella realtà e, soprattutto, delle esigenze dei fedeli che vi giungono in pellegrinaggio e, in base ad esse, suggerire eventuali iniziative pastorali per il futuro. Avrà, pertanto, un carattere esclusivamente pastorale. È previsto che mons. Hoser, il quale continuerà ad esercitare l’ufficio di  arcivescovo-vescovo di Warszawa-Praga, completi il suo mandato entro l’estate prossima".

Il direttore della Sala Stampa vaticana Greg Burke ha sottolineato che "la missione dell'Inviato Speciale è un segno di attenzione del Santo Padre verso i pellegrini. Lo scopo non è inquisitorio, ma strettamente pastorale. L'Inviato non entrerà nella questione delle apparizioni mariane, che sono di competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede, e sarà in contatto con il vescovo diocesano, i frati minori francescani - ai quali è affidata la parrocchia di Medjugorje - e con i fedeli del luogo”. Quindi ha concluso: "E' una missione per i pellegrini, non è contro nessuno".

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Oggi in Primo Piano



Il muro tra Usa e Messico. La testimonianza di un sacerdote di Puebla

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Il presidente Usa Trump - contrariamente a quanto detto ieri - non farà ricorso alla Corte Suprema dopo la conferma della sospensione, da parte della Corte d'Appello, del bando anti-migranti nei confronti di sette Paesi. Il capo della Casa Bianca però è pronto a presentare un nuovo ordine esecutivo sul divieto di ingresso, un “bando bis”. “Abbiamo bisogno di fare in fretta - ha detto - per ragioni di sicurezza nazionale. Intanto, rimangono le tensioni con il Messico per i rimpatri di immigrati e il prolungamento del muro tra i due Paesi annunciato da Trump. Massimiliano Menichetti ha raggiunto telefonicamente in Messico, padre Armando Javier Prado Flores, vicario episcopale per i laici nell'arcidiocesi di Puebla: 

R. – L’arcidiocesi di Puebla è la sesta per numero di fedeli cattolici: ne ha sei milioni; poi, ne ha ancora due milioni negli Stati Uniti. Per questo ci tocca profondamente quello che avviene negli Usa. Attendiamo l’arrivo di 30 mila rimpatriati dagli Stati Uniti, proprio nella regione più povera della nostra diocesi, e per questo siamo preoccupati. Le rimesse inviate da chi lavora negli Usa vanno aumentando ogni anno e questo per il Messico significa tanto…

D. – Come farete fronte a questa emergenza?

R. – L’arcivescovo ha istruito la Commissione per l’immigrazione a sollecitare gli alberghi per l’accoglienza, ma anche la società civile, il governo, le ong, gli imprenditori, per creare fondi destinati al lavoro. Noi non siamo preparati a ricevere all’improvviso 30 mila persone, dobbiamo fare uno sforzo non soltanto per il momento del rientro, ma soprattutto per creare condizioni di vita e di lavoro nel tempo.

D. – I rimpatri, da una parte, e la volontà espressa dal presidente statunitense Trump di prolungare il muro che divide i due Paesi: come vive la popolazione tutto questo?

R. – Diciamo che quelli che sono andati negli Stati Uniti sono stati costretti, mossi dalla ricerca di mezzi per vivere, ed ora sono sfiduciati, anche qui ciò che prevale è l’incertezza. Sono state dette parole, ma poi bisogna vedere lo sviluppo delle politiche reali negli Stati Uniti.

D. – In questa situazione, che cosa state facendo?

R. – La Chiesa cattolica di Puebla e quella di Denver hanno sviluppato un programma per l’attenzione, la pastorale e l’aiuto dei migranti; a un livello più generale, la presidenza dell’episcopato messicano si è incontrata con il presidente del Messico per dirgli che questo è un tempo in cui abbiamo bisogno di rimanere uniti, di sviluppare creatività, cercare altri mercati e soprattutto di renderci vicini a quelli che hanno bisogno.

D. – Il Papa più volte ha parlato contro i muri: questo incoraggia vi incoraggia?

R. – Nel Messico circola un piccolo video su whatsapp in cui Papa Francesco parla chiaro e tondo, dicendo: “Tutti i muri cadono; bisogna costruire ponti di amicizia, di lavoro, di servizio”. Questo incoraggia moltissimo.

D. – La Chiesa è anche molto impegnata per quanto riguarda la crescita, il sostegno alla popolazione …

R. – La Chiesa è un articolatore sociale. Offre speranza nella parola del Vangelo e con il governo, con gli imprenditori stiamo cercando di creare opportunità nuove per aiutare. Incoraggiamo tutti ad aiutare in questa situazione.

D. – Queste sfide sono immerse nelle piaghe del narcotraffico e della corruzione …

R. – La corruzione è terribile; penso sia il problema più grave del Paese. Lo stato di diritto è debole: non abbiamo un sistema di giustizia per fare fronte alla criminalità. Questo richiede uno sforzo, una nuova coscienza nazionale. Bisogna creare un nuovo stile di rapporto, di onestà: questo, da un lato. Dall’altro, il Paese vive non soltanto la povertà ma anche l’iniquità: è ingiusto, è un’offesa a Dio e al prossimo che qui a Puebla abbiamo un milione di persone in estrema povertà.

D. – Mi diceva che per vincere questa sfida avete avviato un programma ambizioso …

R. – Noi abbiamo preso l’iniziativa di portare avanti un programma per tutti i settori sociali fino al 2031 per eliminare la vera povertà, l’estrema povertà da Puebla. Le autorità sono impegnate in questo e credo che in pochi anni avremo iniziative che serviranno a questo proposito.

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I vescovi colombiani: la corruzione sta distruggendo il Paese

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A conclusione della 102.ma Assemblea Plenaria dei vescovi della Colombia, venerdì 10 febbraio, durante la conferenza stampa, i vescovi del Paese hanno espresso preoccupazione per quattro temi: la corruzione, la salute, la pace e l'istruzione.

La corruzione
I presuli hanno descritto la corruzione come un "processo di morte e il cancro che attacca il bene comune". Hanno avvertito che questa malattia è contagiosa e peggiora l'impunità. Essi hanno inoltre rilevato che, se non ci si impegnerà seriamente, la corruzione porrà fine alla società colombiana.

La salute
Sulla questione della salute i presuli hanno espresso preoccupazione, perché “non si vede una reazione responsabile né una risposta adeguata” di fronte alle carenze del sistema sanitario colombiano. “Non si può permettere che il sistema sanitario colombiano collassi, è urgente e necessario - hanno detto - che le persone e le istituzioni trovino definitivamente una soluzione a breve e lungo termine”.

La pace
Circa il tema della pace hanno assicurato di  guardare al futuro con speranza, tuttavia hanno espresso la loro preoccupazione per l'aumento della violenza e il clima di insicurezza e hanno così invitato i colombiani ad essere vigili e ad assumersi le responsabilità.

L’educazione
Infine, hanno chiesto che l'educazione dei bambini, degli adolescenti e dei giovani sia un "obiettivo nazionale". "I problemi che affliggono la società richiedono una educazione vera e completa che metta al centro l'essere umano, la sua dignità e i suoi diritti". (A cura di Anna Poce)

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Guerra in Afghanistan: le principali vittime sono i bambini

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L'ultimo Rapporto della Missione di assistenza Onu in Afghanistan parla chiaro: il numero di vittime civili, circa 3.500 morti e 8.000 feriti, è il più alto dall'inizio del conflitto. Dati che sono registrati dal 2009 ma che in realtà si riferiscono ad una guerra iniziata ormai 15 anni fa. Ad essere principale bersaglio sono i bambini, con un 24% in più di piccoli uccisi e mutilati nel Paese rispetto allo scorso anno. Sono le mine e gli esplosivi a ferire i più piccoli mentre vanno a scuola, giocano nel cortile o vanno a prendere l'acqua al fiume. Armi vigliacche di un conflitto che fa sentire la sua eco anche a distanza di 40 anni, ovvero la durata di una mina inesplosa. Dal 2014, con il ritiro delle truppe internazionali, la situazione è peggiorata: non sono state costruite strade né infrastrutture. Il sistema sanitario e la scuola non hanno più risorse. Il servizio di Giulia Angelucci: 

Secondo il Rapporto della Missione di assistenza Onu in Afghanistan, il Paese avrebbe raggiunto il record di vittime civili nel 2016. E’ il numero più alto dall’inizio del conflitto: e le principali vittime sono purtroppo i bambini. Più di 200 rimangono vittime di raid afghani e americani. Non solo gli aiuti stanno diminuendo ma la situazione sta addirittura peggiorando. Tra mine ed esplosivi ci sono altri allarmanti problemi denunciati, tra cui malnutrizione e assenza di scolarizzazione. Ascoltiamo Manuela Valenti, pediatra e coordinatrice medica di Emergency:

R. - Almeno, il 90% delle vittime dei conflitti moderni sono civili, ed è veramente impressionante vedere come almeno un terzo dei nostri pazienti siano bambini. Per noi, bambini significa persone sotto i 14 anni. Nei nostri registri delle ammissioni, questo triste elenco si ripete da molti anni. E devo dire che soprattutto nei nostri ospedali di Kabul e di Lashkar Gah, che sono ospedali di guerra, abbiamo un reparto dedicato ai bambini e alle donne proprio per l’alto numero di feriti civili: questo è veramente un controsenso, una follia della guerra. Quindici anni di guerra hanno soltanto peggiorato la situazione del Paese: non è migliorato proprio niente nella vita quotidiana delle persone. La sanità, la scuola, sono aspetti che pian piano stanno andando peggiorando. Nei nostri ospedali abbiamo sempre visto una piccola percentuale di malnutrizione; soltanto negli ultimi due anni, l’Afghanistan ha raggiunto la percentuale di malnutrizione infantile per cui l’Afghanistan adesso ha ricevuto l’attenzione dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Unicef come Paese a rischio di malnutrizione infantile e questo prima non accadeva.

Oltre alle cure per i più piccoli, le Ong forniscono supporto per far andare i bambini a scuola, fornire acqua potabile, vitamina A e servizi per la loro nutrizione. Abbiamo chiesto alcuni dettagli ad Aziz Froutan, dell’Ufficio della comunicazione per l’Unicef in Afghanistan: 

R. – Children should go to school, children should have access to health services... 
I bambini dovrebbero andare a scuola, dovrebbero avere accesso ai servizi sanitari e dovrebbero vivere in un ambiente salubre e pacifico. In Afghanistan, purtroppo, non hanno accesso alla scuola né ai servizi sanitari e soprattutto non hanno accesso all’acqua potabile. Dovrebbero essere protetti da ogni tipo di conflitto e attività militare; dovrebbero essere tutelati e non armati nei conflitti … I bambini sono il futuro di questo Paese e dovrebbero essere tutelati; i bambini non dovrebbero essere coinvolti in nessuno dei conflitti che feriscono l’Afghanistan, secondo la Legge internazionale, secondo quella nazionale – quella afghana – e anche secondo quella musulmana che è applicata in questo Paese. I bambini non dovrebbero essere armati nei conflitti e nelle guerre. I bambini afghani hanno lo stesso diritto di andare a scuola, di avere accesso all’istruzione, all’acqua potabile e alla protezione.

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Giornata bambini soldato. Unicef: oltre 250 mila nel mondo

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Oltre 250 mila sono ancora i bambini che nel mondo vengono arruolati nelle guerre. Una piaga che distrugge la loro infanzia e calpesta i loro diritti. Tutelare la dignità dei piccoli e debellare il traffico di armi è stata anche l’intenzione di preghiera del Papa nel dicembre scorso, mentre questa domenica 12 febbario, Giornata Mondiale contro l’Impiego dei Minori nei Conflitti Armati, servirà a ribadire la necessità di un impegno istituzionale globale. Il servizio di Gabriella Ceraso

Armati dagli adulti e per le loro guerre: Francesco lo ha più volte denunciato nel corso del suo Pontificato il fenomeno aberrante dei bambini reclutati come soldati, ma non solo, come spie, corrieri, messaggeri, bambini violati e abusati, strappati alle loro famiglie o venduti dalle famiglie stesse perchè in condizioni disperate. I dati di Andrea Iacomini, presidente Unicef Italia:

“Ad oggi possiamo dire che si contano circa 250 mila bambini soldato, ma non è un numero preciso. I conflitti dove si registrano le più ampie partecipazioni sono sicuramente all’interno del conflitto siriano, nello Yemen – dove già nello scorso anno si sono registrati mille casi di bambini reclutati come soldati – in Sud Sudan, in Centrafrica o in Myanmar si registrano quasi 10 mila bambini reclutati come soldati. Annualmente riusciamo, dipende dalla lunghezza delle trattative, a far liberare 200-300 bambini. Vengono fatte poi delle verifiche per cercare di ricongiungerli ai familiari e quindi si passa a una fase di trattamento psicologico e a un percorso di scolarizzazione, perché questi bambini devono tornare comunque alla loro normalità”.

Ma chi sono i bambini soldato? Quali le loro ferite e i loro pensieri? Lo abbiamo chiesto a Lucia Castelli, pediatra della Ong Avsi, attiva per quasi dieci anni in Nord Uganda:

“Io ho visto bambini che sono scappati dopo avere vissuto con i ribelli, essere stati obbligati da loro ad azioni atroci: uccidere e bruciare villaggi o andare a rapire altri bambini, rubare cibo, vettovaglie, ecc. Si tratta innanzitutto di bambini pieni di ‘colpe’ che non sono loro, bambini che devono essere riaccolti, e resi consapevoli del fatto che – appunto – alcune azioni, in fondo, non erano da loro volute ma loro erano obbligati a farle”.

Dopo l'addio alle armi dunque la sfida è la reintegrazione. Fondamentale, racconta Lucia Castelli, è la presenza della comunità anche per combattere il fenomeno dell'arruolamento:

“Io credo che uno dei fattori che ha molto contribuito, in Uganda, se non altro a fare andare i ribelli in altri Stati è che c’è stato un movimento di popoli: i genitori di alcuni di questi bambini hanno creato un’associazione, ci si è messi insieme anche coinvolgendo la gente e il governo, che ha avuto una grossissima implicazione. Purtroppo esistono dei meccanismi e delle dinamiche nei confronti delle quali io mi sento molto impotente, per esempio il discorso di chi sostiene economicamente queste bande di ribelli dando loro le armi”.

Traffico di armi dunque e guerre irrisolte, questo il nodo cruciale anche per l'Unicef, nonostante i tanti successi ottenuti. Ancora Andrea Iacomini: 

“Purtroppo, fin quando continueranno le guerre è chiaro che l’ottimismo viene meno. Però, dobbiamo lavorare per fare in modo che perlomeno gli Stati, i Paesi applichino i protocolli opzionali. Ma è complesso quando ci sono fazioni che sfuggono naturalmente alle regole normali di una nazione”.

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Migranti, associazioni cattoliche: dal governo svolta securitaria

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Critiche da parte di tante associazioni che si occupano di immigrati nei confronti del governo, per l’approvazione ieri del pacchetto sicurezza. Il decreto prevede, tra l’altro, la creazione di centri di permanenza per il rimpatrio. Alessandro Guarasci

Un decreto tutto improntato alla sicurezza e poco all’accoglienza. Le organizzazioni cattoliche che si occupano di immigrati non condividono l’impronta data dal governo al pacchetto sicurezza. Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas:

“Dalla presenza di centri di identificazione in ogni regione d’Italia all’idea di rimpatri forzati più facile, sapendo peraltro, con l’esperienza maturata negli anni, che non sono misure che in qualche modo possano aiutare il governo della migrazione, che ha ben altri problemi sul tavolo”.

Nei centri di permanenza potranno andare al massimo 1.600 persone. Nella bozza del provvedimento si stanziano a favore del Ministero dell'Interno 19,1 milioni di euro nel 2017 per "garantire l'esecuzione delle procedure di espulsione, respingimento o allontanamento degli stranieri irregolari dal territorio dello Stato”. Roberto Morozzo Della Rocca, della Comunità di Sant’Egidio:

“Noi avremo in Italia il problema di tante persone che si inseriranno, che faranno anche attività socialmente utili, che poi troveranno anche lavoro o comunque si dedicheranno ad apprendere la lingua bene, a inserirsi e se all’esito di questo arriva un provvedimento di diniego, forse il problema vero è chiedersi se davvero dobbiamo dare l’espulsione a tutti, senza poi riuscire a mandarli via o non creare invece dei canali di regolarizzazione almeno per coloro che hanno dimostrato capacità di inserimento”.

Ma come risponde la maggioranza? Il 22 febbraio la Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema d’accoglienza ascolterà il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il presidente Federico Gelli:

“Certo è che presentarlo in contemporanea con il decreto sicurezza, con maggiori ruoli e poteri dei sindaci, fa effettivamente intravedere una svolta sicuritaria cosa che, a mio avviso, va ben distinta invece dal sistema di organizzazione e di accoglienza dei profughi nel nostro territorio. E questo è il punto cardine. Quindi, il 22 sarà in audizione alla mia commissione, la commissione d’inchiesta parlamentare per l’accoglienza dei migranti, e capiremo meglio di cosa si tratta. Noi siamo sempre stati contrari ai Cie così come erano intesi nel passato”.

Il vero nodo è la ricollocazione dei migranti a livello nazionale ed europeo. Ancora Forti:

“Il sistema è molto sbilanciato, con alcuni comuni che hanno numeri particolarmente importanti e altri invece che non hanno nemmeno una presenza sul proprio territorio. E questa situazione poi la ritroviamo in Europa dove il sistema della relocation, quello previsto dall’agenda europea, non sta assolutamente funzionando: qualche migliaio di persone ricollocate in alcuni Paesi europei, a fronte di decine di migliaia, come previsto dal piano europeo”.

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I giovani europei e il futuro: gli italiani tra i più pessimisti

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Pessimisti nei riguardi del futuro, preoccupati da guerre e terrorismo, ma consapevoli che occorrono soluzioni nuove di fronte all’immigrazione: così i ragazzi italiani tra i 16 e i 22 anni secondo la ricerca intitolata "La generazione Z: sondaggio della cittadinanza globale – Ciò che la gioventù mondiale pensa e sostiene", pubblicata di recente dalla Varkey Foundation e realizzata dalla società britannica Populus che ha raccolto le opinioni di ragazzi di 20 Paesi del mondo. Il servizio di Adriana Masotti

“Io sto studiando all’università; ho preso la facoltà di Lingue, quindi sarei orientata sul turismo. In questa città comunque mi sento abbastanza ottimista. Ho studiato anche in Francia un anno e vedo che comunque la situazione non cambia molto. Io spero che, piano piano, l’economia ricominci a partire e che si dia più importanza, appunto, al futuro dei giovani. Ci vorrebbe un governo con nuovi pensieri, più orientati verso il futuro”

A parlare così è una ragazza di vent’anni, incontrata a Roma da Giulia Angelucci. E’ ben consapevole dei problemi della società attuale, ma abbastanza fiduciosa se il 53% dei suoi coetanei italiani, secondo l’indagine, ritiene invece che le prospettive di vita nel mondo stiano peggiorando. Il loro tasso di pessimismo nei riguardi del futuro è condiviso da giovani francesi e turchi ed è più elevato rispetto a quello dei ragazzi delle altre nazioni. Un dato che non sorprende il pedagogista sociale dell’Università Lumsa di Roma, prof. Mario Pollo:

R. - Non è una sorpresa perché sono andato a rivedere una ricerca che ho fatto tra il 1999 e il 2000. Questo pessimismo verso il futuro, pensare che il mondo nel futuro sarebbe stato peggiore di quello presente così come le condizioni di vita, era già presente allora, anzi, forse era ancora più marcato di oggi. Ormai questo trend negativo sta durando da un paio di decenni e nasce dal fatto che l’Italia è un Paese in cui i giovani non sono vissuti come il futuro, ma come dei contemporanei di età diversa da proteggere e tutelare, ma da non lanciare come coloro che porteranno avanti la civiltà, la vita, i valori e gli ideali aldilà della nostra morte. Basta pensare alla difficoltà che hanno i giovani ad inserirsi nel lavoro, nella vita sociale e politica. Questo può essere un motivo per cui i giovani italiani hanno questa difficoltà ad aprirsi al futuro in modo sereno. Inoltre, dopo la crisi dei grandi sistemi di pensiero, delle grandi narrazioni in cui il futuro appariva il luogo della speranza, dove tutte le promesse si sarebbero realizzate, il domani si è trasformato invece in un futuro minaccioso: guerre, carestie, crisi ecologiche … Tutta l’educazione che noi stiamo facendo è dare a questi giovani le attrezzature per combattere, per sopravvivere, per affermarsi in questo futuro minaccioso e pericoloso.

A spaventare di più i giovani è infatti la possibilità di guerre e conflitti insieme al terrorismo e all’estremismo. Tuttavia, in Italia, il 38% di loro, a fronte del 27% dei francesi e il 31% degli inglesi, si dice aperto a immigrati e rifugiati e il 57% vorrebbe che il governo facesse di più per la loro accoglienza e integrazione. Ancora il prof. Mario Pollo:

R. - Questo è un dato molto positivo; indica che nei giovani italiani, più di quelli degli altri Paesi, c’è un riconoscimento dell’umano, del valore dell’altro, della diversità culturale di cui questo è portatore. È un segno di speranza.

D. - Anche sui temi etici, di comportamento personale, pare che i giovani siano molto liberali. Insomma, ognuno deve fare la vita che sceglie. Questo è un bene e un male …

R. - Quando sento questa affermazione faccio un po’ di fatica a coglierla come pienamente positiva, perché dietro questa c’è la visione di poter vivere senza avere come riferimento una serie di valori che sono costitutivi dell’umano, che dovrebbero servire da bussola nei confronti della vita. C’è quindi un relativismo etico, per cui ogni sistema di valore è accettabile, quindi che non esistono dei valori che siano gerarchicamente superiori ad altri. L’unico aspetto che questo tipo di sondaggio non può evidenziare, proprio per il modo in cui vengono effettuati questi studi, è che ogni aspetto della vita di un giovane che oggi rappresenta un limite, se oggetto di un adeguato intervento educativo, diventa risorsa per la crescita.

D. - In poche parole, lei vuol dire che bisogna investire di più sui giovani?

R. - Bisogna investire di più sui giovani e investire sull’educazione, quindi non solo sull’istruzione professionale, culturale ... Non sentiamo mai parlare di quell’educazione che aiuti il giovane a scoprire se stesso, a elaborare il progetto di vita che svilupperà fino in fondo la sua vocazione personale, la sua umanità. È questo invece che è importante.

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Il commento di don Sanfilippo al Vangelo della VI Domenica T.O.

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Nella sesta Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: 

“Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: (…) se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”

Su questo brano evangelico ascoltiamo una breve riflessione di don Gianvito Sanfilippo presbitero della diocesi di Roma: 

Chi trasgredirà uno solo di questi precetti minimi e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà sarà considerato grande…”. Pochi giorni fa Rita, romana, giovane moglie e madre di tre bellissimi figli ha varcato le soglie dell’eternità insegnando l’obbedienza al Padre e la fiducia in Cristo dalla “cattedra” della sua lunga malattia. Innumerevoli persone hanno riconosciuto la grandezza della sua fede e la compostezza nel dolore della sua famiglia, partecipando in massa al funerale. Michel, francese di mezz’età, ha onorato il precetto della fedeltà e dell’indissolubilità del sacramento del matrimonio attendendo, per anni, la moglie che lo aveva abbandonato. Quando Dio “ha saziato” la sua speranza, con il ritorno della sposa, i vicini, edificati, lo hanno ringraziato commossi. Un parroco ottantenne del Veneto, Don Gianni, a cui numerose persone devono la fede, continua a trasmettere umiltà e perdono, nel silenzio della sua anzianità talvolta dimenticata. La voce del Maestro, che riecheggia nell’Humanae Vitae, è stata accolta da Paloma e Rafaèl, sposi spagnoli, che educano i loro diciannove figli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa. Sarà divertente, nel Regno dei cieli, scoprire i  veri “grandi” della terra!

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 42

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