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Sommario del 23/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: trovare nuovi modi per dire il miracolo della Misericordia di Dio

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Trovare “nuovi modi” per annunciare a tutti  il “miracolo” delle Misericordia di Dio. E’ l’esortazione rivolta da Papa Francesco ai vescovi filippini, in occasione della loro 112.ma assemblea plenaria in corso a Cebu. La lettera, a firma del cardinale Parolin, è stata letta dal nunzio apostolico nelle Filippine, mons. Giuseppe Pinto, durante la Messa di apertura da lui co-presieduta insieme a mons. Socrates Villegas, presidente della Conferenza episcopale del Paese (Cbcp).

Annunciare “l’amore duraturo di Dio” per tutti gli uomini
Nel messaggio, il Papa torna a sottolineare come il compito prioritario della Chiesa è di annunciare “l’amore duraturo di Dio” per tutti gli uomini, esprimendo l’auspicio che il Giubileo della Misericordia possa essere veramente un’occasione “per fissare uno sguardo ancora più attento sulla misericordia, perché possa diventare un segno più efficace dell’azione del Padre nelle nostre vite”.

Al centro dell’assemblea il 51.mo Congresso Eucaristico internazionale a Cebu
All’ordine del giorno dell’assemblea della Conferenza episcopale filippina, alla quale partecipano 98 presuli, ci sono diversi temi, tra i quali le prossime elezioni presidenziali e legislative del 9 maggio. Ma in primo piano è soprattutto il 51.mo Congresso Eucaristico Internazionale che si apre questa domenica a Cebu, con oltre 10mila partecipanti previsti provenienti da 57 nazioni del mondo, tra i quali 20 cardinali e 50 vescovi asiatici. Il tema scelto per il Congresso, al quale Papa Francesco ha inviato il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, è “Cristo in voi, speranza della gloria,  tratto dalla lettera di San Paolo ai Colossesi. (A cura di Lisa Zengarini)

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Congresso eucaristico a Cebu. Piero Marini: Vangelo del dialogo in Asia

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Un’occasione per rilanciare l’evangelizzazione in Asia attraverso il dialogo e l’esperienza di comunione: è ciò che intende essere il 51.mo Congresso Eucaristico Internazionale, in programma a Cebu, nelle Filippine, da questa domenica al 31 gennaio. E’ quanto afferma ai nostri microfoni mons. Piero Marini, presidente del Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali. Il tema scelto per questo Congresso, che segue quello di Dublino del 2012, è “Cristo in voi, speranza della gloria”, tratto dalla lettera di San Paolo ai Colossesi. All’evento sono attesi 10mila partecipanti e 8.500 delegati da 71 Paesi. Tra relatori principali al Congresso figurano i cardinali Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, Timothy Dolan , arcivescovo di New York, John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja in Nigeria, Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay. A rappresentare il Santo Padre ci sarà il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon (Myanmar). Sul tema di questo Congresso ascoltiamo mons. Piero Marini al microfono di Sergio Centofanti

R. – Il tema della speranza è il tema centrale di questo Congresso Eucaristico in un continente, fatto soprattutto da giovani, in cui la speranza è un elemento necessario per guardare al futuro.

D. – Il Congresso si tiene nelle Filippine, l’unico Paese asiatico, insieme con Timor Est, a maggioranza cattolica…

R. – Sì, le Filippine sono un’eccezione nell’Asia, che è il continente in cui Cristo è nato, e purtroppo bisogna dire che è il continente in cui il Cristo oggi è ancora meno conosciuto. I cattolici nelle Filippine sono circa 100 milioni, l’80% è cattolico. E quindi le Filippine sono un po’, per noi cattolici, il punto di partenza per l’evangelizzazione dell’Asia. E difatti Cebu è proprio nel cuore delle Filippine. Sappiamo che l’evangelizzazione dell’Asia ha avuto varie fasi: la prima è quella dei missionari assiri – i cosiddetti “caldei” – che sono partiti proprio dalla regione da cui è partito Abramo. La prima evangelizzazione è stata la loro. Si pensi che, verso l’anno 1000, alcune fonti riferiscono che questa Chiesa caldea - che ha raggiunto perfino la Mongolia, l’Indonesia e l’India - aveva più fedeli che non la Chiesa di Roma e Costantinopoli messe insieme. Ma poi, a causa anche dell’uso della lingua siriaca e a causa della mancata inculturazione, questa evangelizzazione nel tempo si è perduta. È stata poi ripresa dai Francescani nel 1200-1300 e poi dai Gesuiti. Nel 1800 poi tante congregazioni hanno continuato questa evangelizzazione delle Filippine. Sappiamo che le Filippine sono state evangelizzate dagli spagnoli, i quali sono arrivati nel 1521 proprio a Cebu: ecco perché si celebra il Congresso Eucaristico a Cebu. Le Filippine sono quindi un esempio in tutta l’Asia di una Chiesa che ha vissuto l’inculturazione, perché questo è il grosso programma che da 30 anni viene portato avanti da tutte le Conferenze episcopali dell’Asia, le quali hanno posto il dialogo come fondamento dell’evangelizzazione. Dialogo perché si tratta di un continente ricco di culture. E – naturalmente – se la fede o se la liturgia non vengono inculturate, poi passano senza lasciare il segno.

D. – In Asia ci sono ancora tanti cristiani che stanno soffrendo…

R. – Sì e uno dei motivi fondamentali di ciò è che ancora oggi – purtroppo – persiste in Asia la visione della Chiesa cattolica come di una Chiesa legata all’Occidente. E quindi questo è un grande ostacolo per l’evangelizzazione. Di qui la necessità di una inculturazione della fede, di dialogare con le altre religioni. L’importante del Congresso Eucaristico è far vedere come l’Eucarestia sia un luogo di riconciliazione e un motivo di pace, in cui tutti si ritrovano figli dello stesso Dio e fratelli tra di loro.

D. – Quali sono i frutti di questi Congressi Eucaristici?

R. – Prima di tutto bisogna sottolineare che i Congressi Eucaristici hanno accompagnato la storia della Chiesa, a partire dalla fine del 1800. Il primo Congresso Eucaristico è stato quello di Lille, in Francia, nel 1881. Allora erano Congressi Eucaristici che sottolineavano soprattutto la visibilità: volevano sottolineare la presenza dei cattolici in un ambiente, come quello dell’800, pieno di governi che erano contro la Chiesa cattolica, e la necessità dei cristiani di farsi vedere: tutta l’attenzione era posta sulla processione eucaristica, quasi un prendere possesso di nuovo delle città. Poi i Congressi eucaristici sono diventati delle occasioni, quando Pio X ha anticipato l’età per ricevere l’Eucarestia, di migliaia di Prime Comunioni da parte dei giovani. Sotto Pio XI c’è stato soprattutto l’aspetto missionario, perché i Congressi eucaristici hanno varcato l’Europa, sono andati in America ecc. Quindi è sempre stato un movimento che ha accompagnato e ha sottolineato la storia della Chiesa, fino al 1960, quando si è celebrato il Congresso di Monaco di Baviera che ha segnato una svolta, sottolineando l’importanza della celebrazione della Eucarestia più che di altri elementi, come quello della processione eucaristica o quello dell’adorazione fuori dalla Messa che fino ad allora avevano sottolineato di più le finalità dei Congressi eucaristici. Quelli che vanno a Cebu, vanno a dare una testimonianza della Chiesa universale a questa Chiesa particolare di Cebu, ma vanno anche a ricevere. A Cebu si troverà una popolazione molto povera: non è una grande metropoli del Primo Mondo. Ma i filippini sono persone che hanno una grande fede, un grande amore per la vita e per la gioia. Io vado volentieri perché i filippini hanno dato una testimonianza in tutto il mondo, e la stanno dando ancora, di lavoro e di fedeltà. Questa è dunque anche un’occasione per ringraziare tutti i filippini sparsi nel mondo per la loro testimonianza di fede e unità alla Chiesa cattolica.

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Fisichella ai giornalisti: fate sapere dove serve misericordia

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“Misericordia e verità si incontreranno”, questo il titolo della conferenza tenuta a Roma nella Basilica di Santa Maria in Montesanto da mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione e coordinatore del Giubileo della Misericordia. L’appuntamento, in prossimità della memoria liturgica di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, apre il ciclo di incontri per gli operatori della comunicazione sociale e gli artisti, al quale interverranno anche il cardinale Gianfranco Ravasi (25 febbraio), padre Raniero Cantalamessa (18 marzo), Enzo Bianchi (7 aprile) e mons. Dario Edoardo Viganò (19 maggio). Mons. Fisichella sottolinea che “la verità è il poter fidarsi di una persona, la verità è fedeltà”. Ma in che modo è possibile coniugare verità, misericordia e comunicazione? Glielo ha chiesto Eugenio Murrali: 

R. – Io direi sapendo raccontare quello che si vede, che non è soltanto un’azione negativa nella vita delle persone, delle società. Non c’è soltanto una cronaca nera che deve balzare sempre in primo piano. Ci sono tante impressioni che mostrano l’impegno, la concretezza, la bontà, una delle connotazioni fondamentali della vita delle persone. Senza bontà, senza amore, noi non potremmo vivere. Ecco perché l’esigenza di una comunicazione che sia globale, onnicomprensiva, ma che sappia anche dare il giusto peso e la giusta visione alla realtà. Questa realtà è fatta anche di opere di misericordia che sono elementi silenziosi, quotidiani nella vita delle persone, spesso nascoste. Penso alla tanta azione che spesso è compiuta dal volontariato, in tutte le sue manifestazioni, che non fanno notizia e tuttavia sono un’espressione fondamentale del vivere sociale, civile. Sono una responsabilità, una risposta che viene data alla società contemporanea. Quindi tutte queste forme di impegno di volontariato, civile, sociale, culturale, se vissute con misericordia, possono autenticamente esprimere una rivoluzione culturale. Abbiamo bisogno proprio di questo, di un cambiamento di mentalità, di cultura, che sappia porre al centro quello che è essenziale.

D. – Quale ruolo auspica per noi giornalisti durante questo Giubileo della Misericordia?

R. – Direi di grande responsabilità, che porta a dover esprimere la bontà esplicitata in tante situazioni differenti. Ma avete anche il ruolo di informare, di far sapere dove c’è bisogno di misericordia. Tante volte viviamo una situazione di profonda indifferenza e di distrazione. Credo che chi opera nella comunicazione possa avere anche questo grande compito, non solo di sostenere, ma anche di provocare, di farci veder quello che voi vedete e di farci comprendere di quanta esigenza di vicinanza, di accoglienza, ci sia ancora bisogno nel mondo di oggi.

D. – Un velocissimo bilancio di questo avvio di Anno Santo...

R.- Direi estremamente positivo, perché questo Anno Santo è diverso da tutti quanti gli altri. Questo è un Anno Santo vissuto in tutto il mondo contemporaneamente e quindi c’è una Porta della Misericordia che non è aperta soltanto nelle quattro Basiliche di Roma, ma è una Porta Santa aperta in tutte le Cattedrali, nei Santuari, in tanti luoghi di pietà e religiosità popolare. Quindi, da questa prospettiva, parlando con i vescovi, sentendo le relazioni che ci mandano, devo dire che è veramente un movimento di grazia inaspettato, ma di cui avevamo profondamente bisogno.

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Prof. Carroggio: Papa propone “modello materno” di comunicazione

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Costruire ponti, toccare i cuori delle persone, comunicare la verità con amore. Sono alcuni dei punti principali contenuti nel Messaggio di Papa Francesco per la 50.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, pubblicato ieri. Sul documento, dedicato al tema “Comunicazione e Misericordia: un incontro fecondo”, Alessandro Gisotti ha intervistato il prof. Marc Carroggio, docente di Comunicazione Istituzionale alla Pontificia Università della Santa Croce: 

R. – Penso che sia un Messaggio veramente illuminante sia per noi professionisti della comunicazione che anche per un cittadino qualsiasi, per qualsiasi persona. Perciò, prima di tutto, consiglierei di diffonderlo ampiamente, di leggerlo in famiglia e a scuola. Tocca tanti punti centrali della comunicazione umana, sociale, in un modo molto chiaro, profondo, diretto, e sul come comunicare creando ponti, favorendo l’unione fra tutti quanti noi che abitiamo su questo pianeta.

D. – In questo messaggio Francesco sottolinea l’importanza, soprattutto per un cristiano, di avere “cura delle parole”, perché le parole possono creare ponti, ma - se sono usate male - possono creare anche divisioni…

R. – Mi sembra una parte molto bella del messaggio: quella di scegliere le parole creando ponti con gli altri; scegliere ogni parola! Penso che uno dei temi essenziali anche del Messaggio sia proprio quello: mettere al centro della comunicazione la persona e non pensare soltanto che il messaggio sia più o meno perfetto. Certo, il messaggio è importante in ogni atto di comunicazione, ma poi l’essenziale è arrivare alla persona. I semiotici dicono: il vero atto di comunicazione è tale quando provoca un cambiamento, un miglioramento nell’altro. Allora si dice che l’atto comunicativo ha senso. Ricordo che dopo la prima Messa in Coena Domini che Papa Francesco ha celebrato - in un carcere giovanile - all’uscita, uno dei ragazzi cui Francesco aveva lavato i piedi disse: “E’ la prima volta in vita mia che mi sono sentito amato!”. Questo è un vero atto di comunicazione: quando al centro c’è soprattutto la persona! Io direi che il paradigma di questo Messaggio che Papa Francesco propone a tutti è un paradigma relazionale, che fa vedere soprattutto persone dall’altro lato della comunicazione. Potremmo anche dire un paradigma…. un po’ un modello materno di comunicazione, se si vuole, perché alla fine è la mamma, è la madre che non rompe mai il vincolo: il buon papà e la buona mamma non tagliano le comunicazioni, anche se magari ci sono problemi di relazione con i figli.

D. – Ad aprile, l’Università Santa Croce organizzerà il 10.mo seminario per i comunicatori della Chiesa sul tema della partecipazione e della condivisione nell’era digitale. Papa Francesco dedica la parte conclusiva del Messaggio per le comunicazioni proprio alla Rete e in particolare alle reti sociali, ai social network…

R. – Anche qui, colpisce il modo diretto di affrontare il tema con una visione molto positiva e che ci chiama tutti alla responsabilità. Mi sembra che ci siano tanti spunti in questo messaggio che ci permettono di fare una piccola guida per muoverci nei social. Primo: considera che l’accesso alle reti digitali comporta una responsabilità per l’altro, che anche se non vediamo è reale, ha la sua dignità che va rispettata; secondo: ogni parola usata nei social media dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza, il perdono di Dio per tutti e quindi impegnati a scegliere con cura le parole per superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia; terzo: nei social media dedicati – dice il Papa – a far crescere la comunione e anche quando devi condannare con fermezza il male, cerca di non spezzare mai la relazione e la comunicazione; quarto: nei social possiamo e dobbiamo giudicare situazioni di peccato, di violenza, di corruzione e sfruttamento, ma non possiamo giudicare le persone, perché soltanto Dio può leggere in profondità nel loro cuore; quinto: nei social ascolta gli altri, perché ascoltare significa prestare attenzione, avere il desiderio di comprendere, di dare valore, di rispettare e custodire la parola altrui; sesto e ultimo: prima di postare un messaggio ricorda che – sono parole di Papa Francesco – la misericordia è capace di attivare un nuovo modo di parlare e di dialogare e non dimenticare che solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori. Leggendo questo Messaggio, penso specialmente a noi educatori o ai sacerdoti: anche quando, a volte, uno è insultato, deve tendere a non rispondere con la stessa moneta e quindi non fare uso eccessivo dell’ironia. L’atteggiamento sacerdotale – penso che sia quello che ci sta chiedendo il Papa – sia quello di Cristo in Croce, con le mani aperte a tutti, a quelli di destra, di centro o di sinistra… Allora il Papa parla qui anche di un certo martirio del comunicatore cristiano, che non usa quelle armi che vengono usate contro di lui e che risponde, invece, con atteggiamenti di preghiera, di perdono, di verità, di carità in modo rispettoso.

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Udienze e nomine di Papa Francesco

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Francesco ha ricevuto questa mattina in Udienza: il signor Matthew S.M. Lee, ambasciatore della Repubblica di Cina presso la Santa Sede, in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali; Sua Beatitudine Em.ma il Card. Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti (Libano); il Prefetto Francesco Paolo Tronca, Commissario del Comune di Roma; il card. Rubén Salazar Gómez, Arcivescovo di Bogotá (Colombia) con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, I.M.C., Arcivescovo di Tunja, Presidente della Conferenza Episcopale di Colombia; mons. Óscar Urbina Ortega, Arcivescovo di Villavicencio, Vice Presidente; mons. José Daniel Falla Robles, Vescovo tit. di Calama, Ausiliare di Cali, Segretario Generale. Il Papa ha inoltre ricevuto mons. Roberto Rodríguez, Vescovo emerito di La Rioja (Argentina).

In Polonia, Papa Francesco ha nominato vescovo ausiliare di Płock mons. Mirosław Milewski, finora Vicario Generale e Cancelliere della Curia diocesana, assegnandogli la sede titolare di Villanova.

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José Sanchez Del Rio, martire a 14 anni nella rivolta dei cristeros

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La storia della santità si arricchisce di un altro esempio di fede e di coraggio straordinari. Tra i decreti di canonizzazione approvati ieri da Papa Francesco figura anche quello riguardante José Sanchez Del Rio, un quattordicenne morto martire nel 1928 durante la rivolta dei “cristeros” contro le persecuzioni anticattoliche ordinate dall’allora presidente del Messico. La figura del giovane ricordata in questo servizio da Alessandro De Carolis

Per i cristiani in Messico nella seconda metà degli anni Venti l’aria è semplicemente irrespirabile. Il presidente Calles – per il quale la causa di tutti i mali del Paese sarebbe la Chiesa – cala una ghigliottina su chi ne fa parte: seminari e scuole cattoliche sbarrati, sacerdoti messicani a “numero chiuso” e sottoposti all’autorità civile, i preti stranieri espulsi. E la gente comune messa davanti a una scelta da niente: o rinunci alla fede o perdi il lavoro. Una prigione senza uscita, vessatoria e umiliante, con le pareti architettate per schiacciare senza scampo né pietà.

La rivolta
L’insurrezione è inevitabile. Un esercito di contadini, operai e studenti impugna le armi per spezzare il giogo. Non sono addestrati a combattere i “cristeros” – così si chiamano – vogliono solo ridare al Messico la libertà di pronunciare il nome di Dio. E “¡Viva Cristo Rey!” è il loro grido di battaglia e la Madonna di Guadalupe la bandiera sotto la quale difendersi.

“Tarcisius”
Le mani che tengono su quella bandiera durante la cruenta battaglia di Cotija, il 6 febbraio 1928, non sono quelle nodose di una campesino o di un operaio. Sono piccole come possono esserlo quelle di un ragazzino di quasi 15 anni. José Sanchez del Rio ha implorato la mamma pur di non restare a guardare. È diventato la mascotte dei “cristeros” che lo chiamano “Tarcisius” come il giovane romano, ucciso per aver difeso l’Ostia consacrata. Quando in piena mischia un proiettile abbatte il cavallo del suo comandante, Josè gli offre il suo e tenta di coprirgli la ritirata a colpi di fucile, che presto resta scarico. Il tentativo fallisce, entrambi vengono catturati e qualche giorno dopo José finisce rinchiuso nella chiesa del suo paese, Sahuayo, profanata dai soldati federali e trasformata in un pollaio.

“¡Viva Cristo Rey!”
Per rabbia, il ragazzino tira il collo a qualche volatile e questo gesto scatena la rappresaglia. Alcuni soldati entrano a picchiarlo, lo seviziano, e lui a squarciagola esplode il grido di battaglia, a ripetizione: “¡Viva Cristo Rey!”. La sua resistenza coraggiosa fino all’ostinazione che nessuna sofferenza riesce a piegare diventa ben presto un problema. Processare un ragazzino non ha senso, così in suoi aguzzini cercano di fargli rinnegare la fede promettendogli, oltre alla libertà, denaro a profusione, una brillante carriera militare, addirittura l’espatrio negli Stati Uniti. La risposta di José è immaginabile: “Viva Cristo Re, viva la Madonna di Guadalupe!”. Un’alta idea è chiedere un riscatto ai genitori, ma José riesce a convincerli a non pagare e anzi di nascosto dalla zia Magdalena riesce anche a ricevere la comunione.

Il coraggio e la viltà
È la goccia finale. La sera del 10 febbraio 1928, verso le 23 – un’ora tarda perché nessuno vedesse cosa un gruppo di soldati stava per fare a un bambino e perché il male è anche vigliacco – i militari decidono di sfogare su José la loro crudeltà. Gli spellano le piante dei piedi, lo costringono a camminare sul sale e poi lo strattonano verso il cimitero. José continua imperterrito a gridare il nome di Gesù e di Maria. Uno dei soldati lo accoltella non gravemente, gli chiedono per l’ultima volta di rinnegare la sua fede. Lui rifiuta e domanda di essere fucilato, continuando a invocare quei due nomi uniti in un grido che non si placa. Vorrebbero finirlo a coltellate, in silenzio, ma il capitano innervosito da quell’invocazione estrae la pistola e gli spara.

“Cara mamma, ti aspetto in Paradiso”
Sul corpo gli troveranno questo biglietto: "Cara mamma, mi hanno catturato, stanotte sarò fucilato. Ti prometto che in Paradiso preparerò un buon posto per tutti voi.". Firmato: "Il tuo Josè che muore in difesa della fede cattolica per amore di Cristo Re e della Madonna di Guadalupe".

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Il pastore valdese: cristiani ripartano dalla Parola di Dio

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La Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani è collocata quest'anno nel secondo mese di celebrazione dell'Anno Santo della Misericordia, voluto da Papa Francesco. Il pastore Antonio Adamo, della Chiesa valdese di Piazza Cavour a Roma, commenta la circostanza in questa intervista di Fabio Colagrande

R. – Noi comprendiamo i tempi e le modalità della Chiesa cattolica e delle altre Chiese. E’ chiaro, però, che per noi è sempre il tempo buono per l’annuncio. Certamente, quindi, noi riconosciamo il valore della misericordia, effettivamente in un periodo in cui, nella storia degli uomini e delle donne, di misericordia non ce n’è molta. Quindi, certamente, per il popolo cattolico e anche per gli altri cristiani e cristiane è importante rammentare che noi siamo figli della misericordia, cioè siamo figli della grazia di Dio.

D. – Si è chiuso appena un anno storico, per quanto riguarda il dialogo tra cattolici e valdesi, perché per la prima volta nella storia un Pontefice è entrato in un tempio valdese – è accaduto a Torino – e in quell’occasione il Papa ha detto: “Vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani, che nella storia abbiamo avuto contro di voi”. Cosa ha pensato quando ha ascoltato quelle parole?

R. – Il perdono è una richiesta che si accoglie. Noi come uomini e donne, cristiani e cristiane di questa generazione, possiamo dire per quanto ci riguarda che chiaramente noi ringraziamo il Signore perché c’è questo momento di riconciliazione. E’ chiaro che non possiamo rispondere per chi non c’è più, questo è quasi ovvio. Il principio, però, della richiesta di perdono è anche un richiamo per tutte le Chiese cristiane affinché si rammentino che noi siamo figli di una riconciliazione, che è avvenuta tra il Signore e gli esseri umani attraverso Gesù Cristo. Quindi, noi abbiamo il compito oggi di realizzare questa riconciliazione, innanzitutto tra i cristiani e le cristiane, e poi certamente con l’umanità che ci circonda. Questo segno, quindi, è stato un segno bellissimo e fondamentale, evangelicamente ispirato.

D. – Si parla molto dell’avvicinarsi delle celebrazioni del cinquecentesimo anniversario dell’inizio della Riforma. Lei crede davvero che questo anniversario possa essere un’occasione per rinnovare il dialogo ecumenico?

R. – Io credo di sì. Nel senso che se noi cogliamo qual è stato lo spirito evangelico che ha ispirato Lutero e i riformatori, e non ci attardiamo tanto sugli eventi che riguardano più la rottura, la deflagrazione che poi questo ha avuto nella storia delle Chiese, capiamo che bisogna ripartire dalla Parola di Dio. Perché è da lì che è partito Lutero, che ha agito come un monaco agostiniano, un professore cattolico di teologia. Quindi, dobbiamo partire da quel punto di vista, quello di chi riscopre un rapporto stretto, potente con la Parola di Dio, e ha questo desiderio di coinvolgere la sua Chiesa – in quel caso la Chiesa cristiana cattolica del 500 in cui lui viveva – in questa riflessione, in questo rinnovamento profondo attraverso la Parola di Dio. E quindi noi dobbiamo, secondo me, sottolineare in primo luogo questo momento di ascolto comune della Parola di Dio, al quale quella testimonianza ci richiama. Non è un momento per rinverdire le nostre glorie del passato o per rimpiangere un’occasione perduta. No, noi dobbiamo – la nostra generazione – nel nostro tempo, ripartire da quell’appello: tornare tutti insieme, confrontarsi tutti insieme con la Parola di Dio, per esserne rinnovati intimamente ed esteriormente anche, nel rapporto con il mondo.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Un articolo di Luca M. Possati dal titolo "Tra violenze e speranze di rinascita": rinviato per motivi di sicurezza il ballottaggio per le presidenziali ad Haiti.

Dante e l'armoniosa lira: il cardinale Gianfranco Ravasi sul sommo poeta secondo Paolo VI.

In tutti questi anni sempre libertà: un inedito di Sofia Vanni Rovighi su padre Gemelli con una nota del direttore dal titolo "Illuministi cristiani".

Aiutando s'impara: Silvia Guidi su un nuovo manuale di formazione per le religiose impegnate contro la tratta.

Tragica perfezione: solitudine e voglia di tenerezza nel genio matematico William Sidis in un articolo di Sabino Caronia.

Violenze in famiglia: Marcello Filotei recensisce la "Cenerentola" di Rossini al teatro dell'Opera di Roma.

Dalla sicurezza al coraggio: il vescovo Brian Farrell su ecumenismo e riforma della Chiesa.

Sussulto di responsabilità: a Lisbona il cardinale Turkson parla della "Laudato sì'".

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Oggi in Primo Piano



Lagarde: Schengen a rischio per la crisi dei rifugiati

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Sulla crisi dei rifugiati l'Unione europea "si gioca la sopravvivenza" stessa di Schengen. Lo ha detto oggi a Davos, la direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, in relazione alla chiusura delle frontiere ipotizzata da alcuni Paesi europei per fermare l’ondata di migranti. Sospendere il Trattato di Schengen sarebbe “preoccupante e rischioso” anche per il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Paodan, per il quale minerebbe anche la fiducia verso l’Euro. Dall’Austria intanto arriva la minaccia alla Grecia di una “esclusione provvisoria” da Schengen nel caso in cui non rafforzasse i controlli alle sue frontiere. Ipotesi fortemente criticata e definita “pseudo-soluzione” dalla Germania. Francesca Sabatinelli ha intervistato Paolo Oddi, avvocato esperto di diritto degli stranieri, membro dell’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione: 

R. – Io non voglio credere che l’Unione Europea crolli sull’immigrazione, voglio essere ottimista. Il Trattato di Schengen ha 30 anni, è uno dei capisaldi dell’Unione, la circolazione interna dell’Ue è fondativa dell’Unione Europea. Voglio davvero augurarmi che le deroghe transitorie che alcuni Paesi hanno adottato siano transitorie nel vero senso della parola e che quindi, anche i controlli che la Francia ha ripristinato, non durino più di tanto perché, naturalmente, il prolungarsi di questi metterebbe in discussione uno degli aspetti fondamentali degli accordi, come la libera circolazione interna, di cui prima di tutto godiamo noi europei, perché poterci muovere in un momento in cui la mobilità intracomunitaria è fondamentale, è utile anche per i nostri ragazzi, per i nostri giovani. L’altro aspetto è questo: siamo di fronte ad un afflusso massiccio, vero, di sfollati, di profughi. Schengen consente che l’Unione possa rinforzare i controlli alle sue frontiere esterne, come la Grecia, l’Ungheria, questi controlli, e il loro rinforzo, sono permessi, sono consentiti. Tuttavia, perché questi controlli non facciano diventare l’Europa una fortezza invalicabile a danno delle persone che cercano protezione e quindi un’Europa senza cuore e senz’anima, in violazione dei suoi stessi dirti fondamentali, queste frontiere esterne non possono impedire l’accesso nei territori Schengen, quindi europei, a coloro che vengono da noi per chiedere protezione. Queste persone per il Diritto comunitario, per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la Convenzione di Ginevra, che fanno tutte parte del Diritto comunitario, non possono essere respinte alla frontiera, devono essere accolte e devono poter chiedere protezione sui nostri territori.

D. – Non è già un fallimento dell’Unione Europea l’attuazione dei controlli stabilita da alcuni Paesi?

R. - È sintomo di una crisi. È chiaro che le politiche migratorie europee stanno subendo delle forti tensioni che portano a delle torsioni di alcuni diritti fondamentali che sono presenti nell’ordinamento comunitario europeo, diritti che tutti i Paesi membri devono rispettare. Esistono documenti europei, l’Agenda europea della Commissione del maggio scorso, ci sono le decisioni prese dal Consiglio sulla base di questa Agenda di ricollocazione dei profughi, c’è anche una prospettiva di reinsediamento, di andare a prendere i profughi e, attraverso dei canali umanitari, evitare loro i viaggi terribili che producono tutti questi morti. Ci sono spinte e controspinte. Alcuni Paesi di frontiera sono più sensibili perché si vedono più a ridosso dell’afflusso e quindi tendono a volte a reagire con chiusura, c’è poi in corso una politica che chiede di distinguere tra migranti per motivi economici o profughi, perché i secondi andrebbero comunque accolti dentro i cosiddetti hot spot, che peraltro preoccupano molto noi come Associazione studi giuridici, perché sono luoghi non chiari di reclusione o di trattenimento, dove la cernita, la scelta, viene un po’ affidata alle forze dell’ordine. Certo, siamo in un momento di preoccupazione, però non voglio credere che l’Unione Europea non voglia più tenere conto di 50-60 anni di trattati, di convenzioni, di accordi, di diritti fondamentali, di direttive, di regolamenti, perché mi sembrerebbe davvero uno scenario irrealistico. Voglio continuare ad essere ottimista.

Forte preoccupazione è espressa anche dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), Francesca Sabatinelli ha intervistato Christopher Hein, portavoce e consigliere strategico del Cir: 

R. – Questo contagio di chiudere le frontiere interne e di ripristinare i controlli è una situazione che ormai riguarda una buona parte del nostro continente. E questo effettivamente è molto preoccupante. Proprio il poter passare da un Paese all’altro in Europa, senza controlli ai confini, senza esibire documenti, senza fare le file, è, soprattutto per i giovani, l’elemento più importante di identificazione con l’idea di ‘Europa’. Quindi, effettivamente, la Lagarde ha ragione: se viene messa in discussione la libera circolazione delle persone nello spazio Schengen, siamo all’inizio di un processo molto, molto preoccupante.

D. – Al di là del fatto che in questo modo si tradirebbe l’idea stessa dell’Europa, dell’essere Europa, ma questa chiusura costituirebbe una soluzione per affrontare la questione migranti?

R. – Non è assolutamente una soluzione, né per i Paesi che decidono per il ripristino dei controlli alle frontiere, né certamente per i rifugiati, né per l’idea dell’Unione Europea stessa. Le persone che fuggono dalla Siria, poi costrette ad andare via anche dai Paesi confinanti, Turchia, Libano, Giordania, e che arrivano quindi in Grecia rischiando la vita, non si lasciano spaventare dai controlli ai valichi di frontiera. Quindi avremo di nuovo un movimento irregolare di moltissime persone all’interno del continente e avremo anche nuove vittime. Non è certamente, dunque, una soluzione per nessuno. E’ semplicemente un annuncio populista da parte di alcuni governi.

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Vescovo armeno Aleppo: siamo stremati, ma non cediamo all'odio

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Ancora incertezza sull’inizio dei colloqui di pace per la Siria, previsti a Ginevra per il prossimo lunedì. Il nodo cruciale è la composizione dei rappresentanti dell’opposizione al governo di Bashar Al-Assad. Sul terreno continuano i raid russi nel Nord del Paese. Secondo la tv siriana sarebbero stati uccisi una trentina di militanti del sedicente Stato Islamico. Intanto, ieri sera a Roma si è svolta nella Basilica di Santa Maria in Trastevere una preghiera per la pace in Siria, organizzata dalla Comunità di S.Egidio e presieduta dall’arcivescovo armeno apostolico di Aleppo, mons. Shahan Sarkissian. Ascoltiamolo al microfono di Michele Raviart

R. – In Aleppo the tragedy is continuing…
La tragedia continua ad Aleppo. Una persona che vede ora Aleppo non può immaginare come fosse prima dei bombardamenti, dei combattimenti e della guerra. Al momento non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono comunicazioni. Ed ora che è arrivato il freddo e non c’è più benzina, usiamo il gasolio per scaldare le case e le scuole. La sofferenza è davvero grande.

D. – Come si vive quotidianamente in una città sotto assedio?

R. -  You mentioned that generally Aleppo…
Aleppo è circondata da gruppi differenti che combattono l’uno contro l’altro. C’è una sola strada vecchia e stretta per uscire, e a volte è chiusa. Sfortunatamente c’è anche lo Stato Islamico e fa paura. Penso, però, che nei media occidentali si esageri il potere dello Stato Islamico, anche se è arrivato e ha compiuto atti terroristici.

D. – Di cosa ha bisogno maggiormente la popolazione?

R. – Generally, there are four categories…
Ci sono quattro tipi di aiuti necessari. Il primo bisogno è quello di dare qualcosa da mangiare alla gente; il secondo è l’assistenza sanitaria, che è davvero essenziale, perché molti medici hanno lasciato il Paese; terzo, nel momento in cui finisce il bombardamento, bisogna rimettere porte e finestre nelle case e nelle scuole; quarto, l’educazione. Stiamo aiutando i ragazzi, acquistando quello che è necessario per studiare e pagando gli insegnanti.

D. – Ad Aleppo ci sono undici comunità cristiane, come sono i rapporti tra loro e con la comunità musulmana?

R. – With this situation we are used…
In una situazione del genere, come comunità cristiana, siamo abituati a stare insieme. Sperimentiamo la fratellanza ecumenica tra le Chiese, non solo al più alto livello, cioè tra i vescovi e i rappresentanti, ma anche tra la gente comune. E la stessa cosa vale anche per i cristiani e i musulmani.  La guerra credo che abbia cambiato molte cose. Un giorno forse dovremo parlare di tutti i cambiamenti che si sono verificati, non solo quindi della distruzione del Paese, degli edifici, ma forse anche della mentalità. Non ricordo che prima della guerra ci fosse questa nozione di “ghetto”: cristiani e musulmani stavano insieme, anche se alcune zone erano tipicamente cristiane, con chiese e così via. Ora, però, si sono mescolati e nello stesso edificio si possono trovare cristiani, musulmani, altre minoranze o persone provenienti da parti differenti del Paese, non solo della città.

D. – Di che cosa c’è bisogno, secondo lei, per porre fine a questa guerra?

R. – There must be a solution…
Ci deve essere una soluzione e la soluzione non deve essere militare, ma politica. Nella Chiesa cattolica quando viene eletto il Papa c’è il Conclave. Bisogna riunire insieme nello stesso posto i rappresentanti siriani e devono imporsi di raggiungere la pace. I siriani possono trovare la soluzione tra di loro. So che non c’è altra soluzione. Le risoluzioni delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza e così via non sono sufficienti.

D. – Discutere con tutti include i terroristi?

R. – What is terrorism is excluded…
Ciò che è rappresentato dal terrorismo è escluso. Non si può discutere di pace con i terroristi. Non si può accettare di collocare i terroristi con l’opposizione o con il governo. Il terrorismo non ha religione, non ha cultura, non ha credo, niente, è violenza totale, non ha niente di umano, non ha niente di religioso. Il terrorismo deve essere estirpato.

D. – Cosa può fare la comunità cristiana per il futuro della Siria?

R. – As Christians we must participate…
Come cristiani dobbiamo partecipare alla ricostruzione del Paese. Personalmente non sono solo un arcivescovo o un funzionario nella Chiesa, ma sono prima di tutto un credente. Io credo che il mio Signore mi protegge, ci protegge! Ed io non sono un uomo coraggioso, sono un uomo responsabile: sto con la mia gente, con la mia comunità. Anche se ci sono persone che se ne vanno e lasciano il Paese, noi dobbiamo restare, dobbiamo continuare insieme. E le comunità cristiane o la cristianità in Medio Oriente deve continuare a dare la sua testimonianza. Siamo stati testimoni con il sangue, con il martirio, siamo stati testimoni con il servizio, siamo stati testimoni con la cultura, e stiamo facendo del nostro meglio, aspettando che l’aiuto arrivi dall’Onnipotente.

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Tunisia: coprifuoco notturno dopo le proteste

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E’ tornata la calma in Tunisia dopo l’ondata di proteste sociali per la mancanza di lavoro che in questi giorni ha attraversato tutto il Paese. Le autorità hanno imposto il coprifuoco notturno e decretato la chiusura della frontiera con la Libia. Il governo – che ha tenuto una riunione d’emergenza sull’occupazione - ha accusato i partiti politici di gettare benzina sul fuoco favorendo l’infiltrazione di gruppi terroristici come Al Qaeda e l'Is. Eugenio Bonanata ne ha parlato Luciano Ardesi, esperto di questioni nordafricane: 

R. – Va ricordato che la rivolta è stata provocata per la morte di un giovane disoccupato che si era arrampicato, insieme ad altri, per protesta su un traliccio dell’elettricità: e questo perché queste persone erano state escluse da una lista di disoccupati che potevano ambire ad un posto in un ufficio pubblico. La denuncia era chiaramente di corruzione e di non trasparenza da parte dell’amministrazione pubblica. E questa è una piaga che - insieme alla disoccupazione - attanaglia il Paese da tempo e non sembra che il governo sia sufficientemente sensibile per porre fine a questa pratica.

D. – Questa situazione può favorire davvero l’azione dei gruppi terroristici oppure è una sorta di alibi da parte del governo?

R. – Va riconosciuto che la zona centrale del Paese, dove sono partite le proteste, è già da anni un serbatoio formidabile di terroristi: ricordiamo che gli oltre 7 mila foreign fighters, che sono sparsi tra la Siria e l’Iraq, provengono proprio dalle regioni centrali della Tunisia. Quindi il terrorismo lì c’era già o almeno le persone erano già state, in qualche modo, catturate dalle sirene del terrorismo. Il governo naturalmente ha ragione a temere che sulla situazione soffi poi il vento dell’Is, che certamente cercherà in questo modo di recuperare e reclutare altre persone per installarsi nel Paese. Va anche detto che finora, al contrario della Libia, la Tunisia non ha cellule dell’Is organizzativamente installate nel Paese, anche se è stata colpita dal terrorismo come è successo un anno fa con l’attentato al Museo del Bardo a Tunisi e come ha continuato a fare durante tutto l’anno…

D. – C’è tensione anche in Egitto, che si appresta a ricordare, lunedì, il quinto anniversario della rivoluzione contro Mubarak: qual è il clima nel Paese?

R. – Al-Sisi, malgrado tutte le misure adottate da quanto ha preso il potere, non è riuscito a sconfiggere il terrorismo. Basta ricordare quello che accade nel Sinai - una regione completamente uscita dal controllo del governo - e il fatto che gli attentati si ripetano al Cairo così come in altre località. Inoltre, per tentare di porre fino al terrorismo, al-Sisi ha impiegato le misure forti e tra queste anche l’eliminazione di quell’atmosfera di libertà che si era creata con la caduta di Mubarak. Contrariamente alla Tunisia, l’Egitto non ha trovato una transizione virtuosa: è stato necessario il ricorso ad un militare, appunto al generale al-Sisi, che ha preso in mano la situazione. Nel Paese, quindi, si respira un’area piuttosto pesante. Anche perché tutti gli oppositori sono stati messi a tacere o si tenta di metterli a tacere: Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani contestano al governo di usare misure forti e assolutamente liberticide per mettere a tacere qualsiasi dissenso, anche non violento come può essere semplicemente una protesta sui blog o sui social network.

D. – Il giorno dell’anniversario, infatti, non si potrà manifestare…

R. – E’ probabile che i gruppi tenteranno di ritornare – come cinque anni fa – in Piazza Tahrir, ma credo che l’esercito verrà schierato per impedire la protesta o almeno che la protesta si allarghi il meno possibile.

D. – Come sta agendo il governo egiziano sul versante economico?

R. – Naturalmente l’Egitto, come già tutti i Paesi della rivolta araba, soffriva di una crisi economica dalla quale non è interamente uscito. Anche in Egitto c’è una forte disoccupazione e il turismo, che – come in Tunisia – era una delle fonti più importanti della ricchezza del Paese, è in crisi dopo gli attentati terroristici degli ultimi mesi. C’è stato il raddoppio nel Canale di Suez che dovrebbe portare delle risorse supplementari, ma questo certo non basta in un Paese così vasto e così popoloso a ripianare le disuguaglianze e le esclusioni sociali, che sono la molla principale della ripresa, delle rivolte, delle proteste in alcuni Paesi arabi.

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Cortei arcobaleno. L'AiBi: ma ci sono milioni di coppie senza figli

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Unioni Civili. Oggi è la giornata dei cortei e dei flashmob organizzati in diverse città dalle cosiddette famiglie arcobaleno e dai sostenitori del ddl Cirinnà che da martedì 26 gennaio sarà in aula al Senato. Nel frattempo, crescono le adesioni al Family Day convocato il 30 gennaio a Roma. Tra queste c’è quella dell’Aibi, l'Associazione Amici dei Bambini che denuncia: “la politica sembra preoccuparsi del presunto diritto di poche persone ad avere un figlio a tutti costi, piuttosto che di quello di milioni di bambini abbandonati che potrebbero essere accolti in tante famiglie desiderose di adottarli. Al microfono di Paolo Ondarza il presidente Aibi Marco Griffini: 

R. – Noi siamo una Associazione di movimento di genitori adottivi affidatari, quindi aderiamo al Family Day perché in questa occasione riteniamo che bisogna porre l’accento non tanto sull’adozione di poche migliaia di persone, ma su un problema grosso che riguarda milioni di coppie, di coppie senza figli, e soprattutto milioni di bambini abbandonati. Se dobbiamo parlare di adozione, parliamo di adozione per quanto riguarda poi chi effettivamente ha diritto, che sono i bambini abbandonati. Bisogna capirlo! Perché quante sono poi queste situazioni da sistemare di queste coppie omosessuali con figli?

D. – Per queste persone, però, bisogna trovare una soluzione…

R. – Guardi, io ho qui i dati del censimento del 2011 che parla di 7.500 coppie omosessuali conviventi con 500 figli… Però mi pare che l’attuale legislazione dia la possibilità di sistemare delle situazioni pregresse: per esempio, il Tribunale di Roma ha realizzato 16 adozioni per quanto riguarda il figlio del partner convivente. Penso che l’esigenza del ddl Cirinnà non sia questa, ma sia quella di aprire il vaso di Pandora dell’adozione agli omosessuali. Se poi parliamo di omosessuali maschi, quindi evidentemente affrontiamo la pratica dell’utero in affitto sulla quale, penso tutti siano d’accordo, nel definirla come la “nuova tratta degli schiavi”. Vogliamo allora partecipare a questo Family Day per dire che se parliamo di adozione, parliamo di bambini abbandonati.

D. – Quindi mettersi sempre dal punto di vista dei bambini e dei loro diritti...

R. – Ogni volta che ci sono in ballo gli interessi degli adulti e i diritti dei bambini, chissà come mai prevalgono sempre gli interessi dei primi e non i diritti dei secondi!

D. – Quante volte, parlando di adozione vi sarete sentiti dire: “Con tanti bambini abbandonati in strutture anonime, non sarebbe meglio concedere l’adozione anche a coppie omosessuali?”.

R. – E’ uno dei tanti stereotipi, perché noi siamo in presenza – da quattro anni – di un crollo verticale di adozioni internazionali, nonostante vi siano ancora migliaia di famiglie che potrebbero adottarli. Dal 2015 sono state realizzate 2.100 adozione internazionali, con 1.800 famiglie; ma sono anche 3.000 le famiglie che nel 2015 hanno ottenuto l’idoneità: quindi ci sono ancora 1.200 famiglie che potrebbero adottare altrettanti bambini … Ma soprattutto il dato clamoroso è che sono 5 milioni e 300 mila le coppie sposate in Italia senza figli, che potrebbero essere – non dico certo tutte, ma gran parte di queste – una grandissima risorsa per i bambini abbandonati. Per cui non si vede proprio la necessità, in questo momento, di aprire l’adozione internazionale a coppie omosessuali. Si tratta, viceversa, di cominciare – dopo 4 anni – a investire nell’adozione internazionale, perché abbiamo una legge molto vecchia, che risale ormai al 2000; e soprattutto abbiamo – purtroppo! – un governo che ha abbandonato di fatto l’adozione internazionale. Anche per quanto riguarda l’adozione nazionale, perché ci sono 35 mila minori in Italia fuori famiglia e vengono realizzate solamente 1.000-1.200 adozioni nazionali e non perché mancano le famiglie… Qui addirittura abbiamo qualcosa come 9 mila famiglie che, ogni anno, chiedono di adottare un minore italiano. Qui le adozioni sono poche e sono poche perché in Italia manca – ed è l’unico Paese di buona parte del mondo! – una banca dati dei minori dichiarati adottabili. Allora il problema è un altro: il problema è che non si mette veramente l’interesse sul tema dei minori abbandonati, sul tema dei diritti dei minori abbandonati. Se, in questo momento, il governo Renzi dedicasse non dico un decimo, ma un centesimo dell’attenzione che sta dedicando al problema delle unioni di fatto e dell’adozione per gli omosessuali, noi veramente daremmo in Italia una famiglia a 35 mila minori abbandonati!

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella terza Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù legge, nella sinagoga di Nàzaret, il rotolo del profeta Isaìa:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti: 

L’evangelista Luca ci presenta la vita di Gesù tutta guidata dallo Spirito Santo: pieno di Spirito Santo si reca nel deserto, dove viene tentato dal diavolo, poi con la potenza dello Spirito Santo ritorna in Galilea e di qui si reca a Nazaret. E nella sinagoga del paese, dove è stato allevato, si alza, proclama una pagina del profeta Isaia, fa la sua prima predicazione pubblica, e dichiara solennemente la sua missione: su di lui dimora in pienezza lo Spirito Santo, che lo consacra al compimento dell’opera di Dio per la quale è stato inviato. Ora le promesse che Dio era venuto facendo al suo popolo, come primizia di tutto il genere umano, possono incominciare a compiersi. L’opera di Dio che Gesù inaugura – e che la Chiesa continua nella storia – è segnata da alcuni tratti particolari:

Ecco, questo anno di grazia, di misericordia e di salvezza sta davanti a noi ed inizia oggi se lo vogliamo accogliere; a noi poveri, oppressi e ciechi, il Signore Gesù dice: “Oggi si compie questa scrittura che avete ascoltato”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Dichiarazione finale della Conferenza Wcc-Onu sui rifugiati

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Un migliore coordinamento e una maggiore collaborazione per rispondere alla crisi migratoria in Europa: questa la richiesta formulata dai partecipanti alla Conferenza di alto livello sui rifugiati organizzata nei giorni scorsi a Ginevra dal Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) e dalle Nazioni Unite. La Conferenza ha focalizzato l’attenzione sulla risposta europea all’emergenza, ma con un occhio anche al contesto globale dei 60 milioni di migranti e rifugiati nel mondo.

Procedure più eque di asilo e più collaborazione contro la xenofobia
Nella dichiarazione finale, i partecipanti chiedono “un impegno collettivo maggiore della comunità internazionale” per cercare soluzioni politiche ai conflitti - a cominciare dalla guerra in Siria - alle disuguaglianze e all’esclusione che sono all’origine di una “crisi migratoria senza precedenti”. Ma il testo sottolinea anche l’urgenza di implementare, rafforzare e migliorare il sistema di accoglienza dell’Unione Europea. “È necessario - prosegue la dichiarazione - un coordinamento per far fronte alle esigenze dei migranti, proteggendoli dalla violenza sessuale e di genere, fornendo istruzione ai bambini e agli adolescenti, nonché assistenza sanitaria e cibo. L’accesso a una procedura equa di asilo non deve essere limitata dalla nazionalità, etnia, religione, stato di salute dei richiedenti o da altri criteri che non siano quello del bisogno. Inoltre, è urgente cooperare per contrastare episodi e comportamenti xenofobi, razzisti e islamofobi”.

Necessarie misure per integrare i migranti e i rifugiati
I rappresentanti delle Chiese e delle agenzie umanitarie hanno ribadito anche la necessità di adottare misure volte a favorire l’integrazione dei rifugiati e degli immigrati. Per questo, auspicano che le “richieste si traducano in azioni e che la voce dei rifugiati e dei migranti venga ascoltata. Chiediamo meccanismi concreti - conclude il documento - per la pianificazione strategica e l’implementazione di un piano d’azione in modo da stabilire obiettivi specifici, realizzabili e con scadenze precise”. A questo proposito, i partecipanti invitano le organizzazioni umanitarie, comprese quelle religiose, a coordinare i loro interventi con i governi e le agenzie internazionali per rafforzare il loro sostegno ai migranti. Per valutare i progressi compiuti è stato quindi deciso di organizzare incontri trimestrali allo scopo di pianificare ulteriori interventi in Europa. (L.Z.)

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Vescovo di Copenaghen: accogliere rifugiati è un dovere

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La società ha il dovere di accogliere i bisognosi: questo, in sintesi, il pensiero di mons. Czeslaw Kozon, vescovo di Copenaghen, mentre è vivo il dibattito sul disegno di legge nazionale per l’inasprimento della politica immigratoria. Tale proposta normativa, sottolinea il presule, citato dall’agenzia Sir, “pregiudica le condizioni di vita dei richiedenti asilo in Danimarca. Dobbiamo rispondere al nostro dovere, come società, di accogliere chi ha bisogno del nostro aiuto”.

Sostenere sempre l’individuo e la famiglia
“Le condizioni alle quali accogliamo rifugiati e richiedenti asilo – continua mons. Kozon - dovrebbero essere sempre ragionevoli e sufficienti a garantire e sostenere l’individuo e la famiglia”. Al contrario, evidenzia il presule, “il disegno di legge deteriora le condizioni dei rifugiati più di quanto si possa ragionevolmente ritenere necessario per assicurare la stabilità della nostra società e il benessere dei cittadini danesi”. In particolare, il vescovo di Copenaghen si dice critico verso la proposta di concedere permessi di soggiorno temporaneo, e non permanente, e di prolungare i tempi per i ricongiungimenti familiari.

Tutelare i minori da ogni genere di abusi
Quest’ultima misura, soprattutto, penalizzerebbe i minori: “I bambini sono indifesi, mentre un adulto fa probabilmente meno fatica a sopportare le difficoltà – spiega il presule – Quindi, il tempo di attesa per il ricongiungimento familiare pone a rischio i bambini che sono esposti a ogni genere di abusi”. Attualmente, in Danimarca il flusso di migranti ha portato nel Paese 21mila persone nel 2015, mentre 160mila sono giunti nella vicina Svezia.

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Kenya: appello vescovi per la pace nel Paese e in Somalia

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“Siamo solidali con i nostri uomini e donne in uniforme che stanno facendo servizio nella vicina Somalia e con coloro che, per il loro disinteressato servizio per il nostro Paese, hanno pagato con il sacrificio estremo il compiere il loro dovere”. Così i vescovi del Kenya porgono le loro condoglianze alle vittime della strage di militari keniani del contingente dell’Unione Africana in Somalia, perpetrata dai miliziani Shabaab il 15 gennaio nella base di El-Adde, nel sud della Somalia. 

Sangue delle vittime unisca la nazione. Torni la pace in Somalia
Nella loro dichiarazione, ripresa dall’agenzia Fides, i presuli esortano i keniani ad essere solidali “con le famiglie e gli amici degli eroi caduti in questi difficili momenti. Che il sangue versato dai nostri soldati in Somalia ci unisca come nazione, nell’amore, nell’unione e nella solidarietà”. La Conferenza episcopale del Kenya invita, infine, a pregare “per i fratelli e sorelle della Somalia, che da decenni non conoscono la pace, affinché un giorno essa possa tornare nel loro Paese. Chiediamo alla comunità internazionale di operare insieme al Kenya per far sì che questo accada il prima possibile”.

Ancora ignoto il bilancio ufficiale delle vittime
Intatto, ad oltre una settimana dall’attacco, condotto con tre autobomba, non è stato ancora reso noto il bilancio ufficiale delle vittime tra i militari keniani. Un bilancio provvisorio afferma che i morti sono almeno 30, ma la stampa di Nairobi avanza la cifra di un centinaio di caduti, mentre diversi soldati sarebbero stati catturati dagli Shabaab. Le forze speciali keniane hanno lanciato un’operazione di ricerca e soccorso per cercare di liberarli. (I.P.)

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Nicaragua. I vescovi: serve un Paese solido e solidale

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Certezza del diritto e cambio di mentalità: questo è ciò che occorre per rilanciare lo sviluppo del Nicaragua. Ad affermarlo, in questi giorni, è stato mons. Silvio José Báez Ortega, vescovo ausiliare di Managua, il quale ha espresso preoccupazione per le condizioni delle istituzioni nazionali, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali che si terranno nel corso del 2016.  In particolare, il presule ha evidenziato come il Nicaragua manchi di manca una struttura istituzionale sufficientemente solida e di una rinnovata certezza del diritto.

Rendere trasparente il processo elettorale e cambiare mentalità
Di qui, il richiamo a non limitarsi “a rendere trasparente il processo elettorale”, ma a promuovere anche “una profonda guarigione interiore nelle relazioni personali, una guarigione della mentalità”. “Un Paese — ha detto il presule — si sostiene proprio grazie allo Stato di diritto, alla certezza del diritto, al rispetto delle libertà personali e pubbliche. Se ciò non accade, il mito della crescita economica non ha più senso”. Per questo, mons.  Báez Ortega ha ribadito che la nazione “necessita di una struttura istituzionale solida, in grado di garantire progresso, sviluppo e stabilità economica a lungo termine”.

Giustizia ed equa distribuzione dei beni non sono solo “numeri”
“Solo la politica – ha aggiunto il presule - può garantire la giustizia e l’equa distribuzione della ricchezza”. Per questo non si può parlare solo in termini di numeri e di statistiche, ha concluso: c’è il rischio che “il maquillage numerico non faccia vedere le ferite profonde che ci sono nel Paese”. Sulla stessa linea anche il vescovo di Matagalpa, mons. Rolando José Álvarez Lagos che, sempre in questi giorni, ha esortato i fedeli del Nicaragua a vivere, in questo anno elettorale, secondo una condotta etica, seguendo i valori e i principi della fede. “Non ci deve essere nessun Caino in Nicaragua in questo anno elettorale – ha detto - nessun partito politico pronto ad affondare il pugnale nella schiena del prossimo». Il vescovo ha infine esortato i fedeli a “buttare giù le barriere e i confini” imposti spesso dagli schieramenti politici. (I.P.)

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50.mo di fondazione: la Cisde accoglie un nuovo membro

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Era il 1965 quando iniziarono i lavori preparatori per istituire la Cisde (Alleanza internazionale delle Agenzie cattoliche per lo sviluppo), lavori che proseguirono per tutto il 1966 e per gran parte dell’anno successivo, fino a quando, nel settembre 1967, l’organismo venne costituito formalmente. Quest’anno dunque, la Cisde celebra i 50 anni del lungo percorso che ha portato alla sua formazione e lo fa accogliendo un nuovo membro, il 18.mo, tra le sue fila: l’agenzia cattolica britannica “Progressio”, organizzazione laica basata sulla Dottrina sociale della Chiesa.

In aiuto di poveri ed emarginati, in nome della giustizia globale
“Crediamo – spiega il presidente dell’Alleanza internazionale, Heinz Hoedl – che l’approccio allo sviluppo promosso da ‘Progresso’, in quanto ispirato ai valori della dignità, della difesa della solidarietà e dell’azione coraggiosa, possa rafforzare la ricerca di giustizia globale, portata avanti dalla Cisde”. Dal suo canto, Mark Lister, direttore generale di “Progressio”, garantisce che la propria agenzia porterà avanti il suo operato “in aiuto ai poveri ed agli emarginati, per offrire loro la possibilità di vivere con dignità, nel pieno del loro diritti e lontani dall’indigenza”. L’ingresso di “Progressio” nella Cisde rafforza le presenze del Regno Unito, poiché si aggiunge al Cafod ed allo Sciaf, organismi caritativi, rispettivamente, dell’Inghilterra e della Scozia.

La voce dei popoli sia sempre ascoltata dai governi del mondo
Sempre per celebrare il suo 5.mo di fondazione, la Cidse presenta il suo piano di lavoro per i prossimi sei anni: “Continueremo a lavorare al servizio dei poveri, promuovendo la giustizia attraverso la solidarietà globale – si legge in una nota – per porre fine alle disparità sistematiche ed alla distruzione del Creato” e far sì che “la voce dei popoli sia ascoltata e che i governi dimostrino il loro impegno nell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. Il tutto “lasciandosi guidare dall’Enciclica di Papa Francesco ‘Laudato si’ sulla cura della casa comune’ e dal suo urgente appello ad affrontare le disuguaglianze ambientali e sociali”.

Origini della Cisde risalgono al Concilio Vaticano II
Infine, qualche dato storico sulla Cidse: l’intenzione di creare un ente di coordinamento per le agenzie cattoliche di soccorso venne espressa per la prima volta nel 1960 dal Congresso eucaristico di Monaco e fu poi ripresa nel 1964 dal Concilio Vaticano II, nel quale si instaurò un clima favorevole alla cooperazione internazionale ed alla riscoperta del significato della Quaresima come autentica condivisione nei confronti dei più poveri. I cardinali Frings, Alfrink e Suenens furono le tre figure chiave nella promozione di un “Gruppo di lavoro internazionale per lo sviluppo socio economico”, in seguito denominato Cidse ovvero “Cooperazione internazionale per lo sviluppo socio-economico”. I lavori preparatori iniziarono nel 1965 e la Cidse fu formalmente costituita nel settembre del 1967

L’impegno per la salvaguardia del Creato
L’obiettivo del nuovo organismo doveva essere quello di coordinare il lavoro delle organizzazioni nazionali cattoliche per lo sviluppo e fornire aiuti più validi ed efficaci ai paesi del Sud del mondo. I sette membri fondatori furono organizzazioni provenienti da Germania, Austria, Belgio, Stati Uniti, Francia, Olanda e Svizzera. Da ricordare che recentemente, la Cisde ha collaborato alla realizzazione di un appello congiunto di cardinali, patriarchi e vescovi di tutto il mondo per l’approvazione di un accordo sul clima equo e giuridicamente vincolante da parte della la Cop21, la Conferenza internazionale su clima che si è svolta a Parigi lo scorso dicembre. (I.P.)

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In Siria e Libano esordisce il “Terra Santa Organ Festival”

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“Testimoniare la presenza delle comunità cristiane in Medio Oriente anche nel campo della musica e della cultura”.Con questo obiettivo, domenica 24 gennaio si apre a Damasco, nella chiesa di Sant’Antonio, la prima stagione invernale del “Terra Santa organ festival”. Sostenuto, tra gli altri, dall’Istituto italiano cultura di Beirut, l’evento – informa una nota della Custodia di Terra Santa – si aprirà con il recital dell’organista siriano Aghiad Mansour, accompagnato da un soprano e da un violinista. Un secondo concerto di organo e coro avrà luogo il 27 gennaio, con la partecipazione del Coro da camera del Conservatorio di Damasco diretto dal maestro Missak Baghboudarian.

Concerti ad ingresso libero
Quindi il Festival si sposterà in Libano e, con il titolo di “Sol: settimana organista libanese”, vedrà in programma altri cinque concerti, dal 31 gennaio al 7 febbraio. Gli appuntamenti avranno luogo in diverse Chiese: quella maronita di di Notre Dame de Louaize a Zouk Mosbeh; quella del monastero carmelitano di Sant’Elia a Maayssra; nella Basilica della Medaglia Miracolosa a Beirut-Achrafiyeh; nella cappella del collegio del Sacro Cuore a Beirut-Gemmayze e nella National Evangelical Church a Beirut-Riad Essoulh. Tutti i concerti sono a ingresso libero.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 23

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.