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Sommario del 15/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: fede è dono che cambia la vita, non si può comprare

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"Com’è la mia fede in Gesù Cristo?”. E’ l’interrogativo che Papa Francesco ha rivolto nell’omelia alla Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha preso spunto dal Vangelo per ribadire che, per comprendere davvero Gesù, non dobbiamo avere il “cuore chiuso”, ma seguirlo sulla strada del perdono e dell’umiliazione. “La fede – ha ammonito – nessuno la può comprare”, è “un dono” che ci cambia la vita. Il servizio di Alessandro Gisotti

La gente fa di tutto per avvicinarsi a Gesù e non pensa ai rischi in cui può incorrere pur di poterlo ascoltare o semplicemente sfiorare. E’ quanto sottolineato da Francesco che ha preso spunto dal Vangelo di Marco che narra della guarigione del paralitico a Cafarnao. Tanta era la gente davanti la casa dove si trovava Gesù che dovettero scoperchiare il tetto e calare di lì il lettuccio su cui si trovava l’infermo. “Avevano fede – commenta il Papa – la stessa fede di quella signora che anche, in mezzo alla folla, quando Gesù andava a casa di Giairo, si è arrangiata per toccare il lembo della veste di Gesù, del manto di Gesù, per essere guarita”. La stessa fede del centurione per la guarigione del suo servo. “La fede forte, coraggiosa, che va avanti – ha detto Francesco – il cuore aperto alla fede”.

Se abbiamo il cuore chiuso, non possiamo capire Gesù
Nella vicenda del paralitico, ha annotato, “Gesù fa un passo avanti”. A Nazareth, all’inizio del suo ministero, “era andato in Sinagoga e aveva detto che era stato inviato per liberare gli oppressi, i carcerati, dare la vista ai ciechi … inaugurare un anno di grazia”, cioè un anno “di perdono, di avvicinamento al Signore. Inaugurare una strada verso Dio”. Qui però fa un passo in più: non solo guarisce i malati ma perdona i loro peccati:

“C’erano lì quelli che avevano il cuore chiuso, ma accettavano – fino a un certo punto – che Gesù fosse un guaritore. Ma perdonare i peccati è forte! Quest’uomo va oltre! Non ha diritto a dire questo, perché soltanto Dio può perdonare i peccati e Gesù conosceva cosa pensavano loro e dice: ‘Io sono Dio’? No, non lo dice. ‘Perché pensate queste cose? Perché sapete che il Figlio dell’Uomo ha il potere – è il passo avanti! – di perdonare i peccati. Alzati, prendi e guarisci’. Incomincia a parlare quel linguaggio che a un certo punto scoraggerà la gente, alcuni discepoli che lo seguivano … Duro è questo linguaggio, quando parla di mangiare il suo Corpo come strada di salvezza”.

Chiediamoci se la fede in Gesù cambia davvero la nostra vita
Capiamo, ha affermato Papa Francesco, che Dio viene a “salvarci dalle malattie”, ma innanzitutto a “salvarci dai nostri peccati, salvarci e portarci dal Padre. E’ stato inviato per quello, per dare la vita per la nostra salvezza. E questo è il punto più difficile da capire”, non solo dagli scribi. Quando Gesù si fa vedere con un potere più grande di quello di un uomo “per dare quel perdono, per dare la vita, per ricreare l’umanità, anche i suoi discepoli dubitano. E se ne vanno”. E Gesù, ha rammentato, “deve chiedere al suo piccolo gruppetto: ‘Anche voi volete andarvene?’”:

“La fede in Gesù Cristo. Come è la mia fede in Gesù Cristo? Credo che Gesù Cristo è Dio, è il Figlio di Dio? E questa fede mi cambia la vita? Fa che nel mio cuore si inauguri quest’anno di grazia, quest’anno di perdono, quest’anno di avvicinamento al Signore? La fede è un dono. Nessuno ‘merita’ la fede. Nessuno la può comprare. E’ un dono. La ‘mia’ fede in Gesù Cristo, mi porta all’umiliazione? Non dico all’umiltà: all’umiliazione, al pentimento, alla preghiera che chiede: ‘Perdonami, Signore. Tu sei Dio. Tu ‘puoi’ perdonare i miei peccati”.

La prova della nostra fede è la capacità di lodare Dio
Il Signore, è l’invocazione del Papa, “ci faccia crescere nella fede”. La gente, ha constatato, “cercava Gesù per sentirlo” perché parlava “con autorità, non come parlano gli scribi”. Anche, ha soggiunto, lo seguiva perché guariva, “fa dei miracoli!”. Ma alla fine, “questa gente, dopo aver visto questo, se ne andò e tutti si meravigliarono e lodavano Dio”:

"La lode. La prova che io credo che Gesù Cristo è Dio nella mia vita, che è stato inviato a me per ‘perdonarmi’, è la lode: se io ho capacità di lodare Dio. Lodare il Signore. E’ gratuito, questo. La lode è gratuita. E’ un sentimento che dà lo Spirito Santo e ti porta a dire: ‘Tu sei l’unico Dio’. Che il Signore ci faccia crescere in questa fede in Gesù Cristo Dio, che ci perdona, ci offre l’anno di grazia e questa fede ci porta alla lode”.

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Tweet Papa: ogni comunità cristiana dev’essere un’oasi di carità

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"Ogni comunità cristiana dev’essere un’oasi di carità e calore nel deserto della solitudine e dell’indifferenza". E' il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex in 9 lingue.

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Udienze e nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto oggi in udienza il card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli; mons. Giuseppe Lazzarotto, Arcivescovo tit. di Numana, Nunzio Apostolico in Israele e in Cipro; Delegato Apostolico in Gerusalemme e Palestina; mons. Luigi Pezzuto, Arcivescovo tit. di Torre di Proconsolare, Nunzio Apostolico in Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro; il signor Eric Schmidt, Executive Chairman of Google; il reverendo Padre Pedro Aguado Cuesta, Preposito Generale dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie (Scolopi); il signor John Anthony Gerard McCarthy, Ambasciatore di Australia, in visita di congedo

In Italia, il Papa ha nominato vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi mons. Domenico Cornacchia, trasferendolo dalla sede vescovile di Lucera-Troia.

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Francesco nella Sinagoga di Roma dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI

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Cresce l’attesa per la visita di Papa Francesco, domenica prossima, al Tempio Maggiore di Roma. Si tratta della terza visita di un Successore di Pietro alla Sinagoga di Roma, dopo quelle di San Giovanni Paolo II nel 1986 e di Benedetto XVI nel 2010. Su questi storici incontri, ascoltiamo il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Sono passati quasi 30 anni dalla prima storica visita del Successore di Pietro in un tempio ebraico. E’ il 13 aprile 1986: Giovanni Paolo II, accolto dalle autorità religiose ebraiche, entra nella Sinagoga di Roma.

La visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma
Papa Wojtyła afferma di raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII che nel 1959, passando in macchina davanti al Tempio Maggiore di Roma, fece fermare l’auto per benedire la folla di ebrei. Giovanni Paolo II ricorda anche che il Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Elio Toaff, partecipò alla veglia di preghiera prima della morte di Papa Roncalli, un Pontefice – sottolinea Papa Wojtyła – aperto a tutti e in particolare ai fratelli ebrei:

“Il Rabbino capo, nella notte che ha preceduto la morte di Papa Giovanni, non ha esitato ad andare a Piazza san Pietro, accompagnato da un gruppo di fedeli ebrei, per pregare e vegliare, mescolato tra la folla dei cattolici e di altri cristiani, quasi a rendere testimonianza, in modo silenzioso ma così efficace, alla grandezza d’animo di quel Pontefice, aperto a tutti senza distinzione, e in particolare ai fratelli ebrei”.

L’abbraccio di Giovanni Paolo II con il Rabbino Elio Toaff, entrambi testimoni dell’orrore del nazismo, abbatte un plurisecolare muro di incomprensione. Toccanti le parole con cui il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma si rivolge al Pontefice:

“Santità, come Rabbino capo di questa comunità, la cui storia si conta in millenni, desidero esprimerle la viva soddisfazione per il gesto da lei voluto e da lei oggi compiuto di venire, per la prima volta nella storia della Chiesa, in visita ad una Sinagoga. Gesto destinato a passare alla storia”.

La visita di Benedetto XVI al Tempio Maggiore di Roma
Ed è storica, 24 anni dopo quella giornata, anche la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma. E’ il 17 gennaio del 2010. Il Pontefice rievoca la tragedia della Shoah, ribadisce l’irrevocabilità del cammino di amicizia tra ebrei e cattolici intrapreso con il Concilio Vaticano II. Possano per sempre essere sanate – sottolinea Papa Benedetto - le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. E poi indica, tra i campi di collaborazione, il riconoscimento dell’unico Dio “contro la tentazione di costruirsi altri idoli”:

“Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire assieme”.

Grande attesa per la visita di Papa Francesco
Papa Francesco, domenica prossima, sarà dunque il terzo Successore di Pietro nella storia a visitare la Sinagoga di Roma. Sarà accolto dal Rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, al quale il Santo Padre all’inizio del Pontificato ha inviato un messaggio esprimendo la speranza “di poter contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II”.

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Padre Ermes Ronchi chiamato dal Papa per gli Esercizi spirituali

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Sarà padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria, a guidare gli Esercizi spirituali di Quaresima di quest’anno per il Papa e la Curia Romana. Gli Esercizi si svolgeranno dal 6 all’11 marzo presso la Casa del Divin Pastore ad Ariccia. E’ stato lo stesso Papa Francesco a telefonare al religioso friulano per chiedergli di guidare le meditazioni. Ascoltiamo padre Ermes Ronchi al microfono di Sergio Centofanti

R. – La sorpresa di ricevere una chiamata dal Santo Padre e di sentirlo con questa semplicità, con questa freschezza, con questa umanità… ero commosso e felice di incontrare una persona di questa qualità e sorpreso, felicemente sorpreso, non per l’incarico chiesto a me, ma proprio per la felicità di incontrare una persona così realizzata.

D. – Come è andata la chiacchierata?

R. – E’ stata una richiesta di un favore, così, con tutta questa semplicità, se potevo assumere questo incarico di predicazione agli Esercizi spirituali. Ovviamente, ho detto: “Non sono in grado…”. Però la cosa bella è che il Santo Padre con questa nota di delicatezza, mi ha detto: “Vuole controllare la sua agenda se è libero?”. E questo mi ha colpito enormemente perché c'è la persona prima di tutto… Io ho trovato questo di una squisitezza rara.

D. - Come accoglie questo compito di predicare gli Esercizi al Papa e alla Curia Romana?

R. – L'accolgo con trepidazione. Cercherò di trasmettere le cose che mi hanno fatto bene, le cose che mi hanno affascinato, appassionato, della Parola di Dio. Cercherò di trasmettere il fascino che io ho subito dall’immagine, dal volto di Gesù, dal volto del Padre che è in Gesù e cercherò di tradurre questo calore, questa bellezza: il cuore semplice del Vangelo e la bellezza potente del Vangelo.

D. – Il Papa tiene molto alle omelie dei sacerdoti, dice che devono essere chiare, semplici, brevi ... e che la gente le capisca…

R. – Questo coincide con il ricordo che io ho della mia prima Messa, quando io chiesi al mio papà: “Come devo predicare alla gente del mio paese?”. E lui mi rispose in lingua friulana: "Pocjis e che si tocjin", poche parole, ma semplici e concrete. E allora io ho capito da lì che la Parola deve essere incarnata, che si possa toccare, che abbia toccato, che abbia inciso, graffiato. Mi sono dato questo impegno: non dire mai una parola che prima non abbia fatto soffrire o gioire me, altrimenti non è incarnata e non raggiunge nessuno. E poi credo, come secondo criterio fondamentale, la semplicità: non elucubrare grandi pensieri teorici ma far capire che siamo immersi in un mare d’amore e non ce ne rendiamo conto. La terza cosa è la bellezza. La bellezza per me è un nome di Dio. E la quarta cosa è la positività: sempre positivi, sempre creativi di speranza, il Vangelo è positivo, basta solo leggere la sua etimologia.

D. – Lei come sta vivendo personalmente questo Pontificato? Cosa sta portando Papa Francesco alla Chiesa?

R. – Sta portando la primavera! Ed è la prima cosa che ho voluto dire nella telefonata al Santo Padre: dirgli grazie per quello che fa, che dice, che porta, per quello che ci trasmette, per questa ventata che scioglie via la polvere dagli scaffali, dai volti, dagli incontri. E questa primavera per me è veramente la fioritura dello Spirito Santo. Il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme e già qui cominciamo a intravedere delle fioriture di vita che per me sono l’esultanza.

D. – Lei è dell’Ordine dei Servi di Maria, porterà con lei nelle meditazioni anche la madre di Gesù…

R. – Senz’altro, sarà come immagine conduttrice perché è la prima dei discepoli, è la più vicina al Signore, quindi è Colei che l’ha incarnato. E io immagino anche una delle cose che potrò dire sarà questa: che l’immagine più bella del cristiano, risalendo a Origene, l’immagine più intensa del cristiano è Santa Maria incinta sui Monti di Giuda verso Elisabetta, verso la cugina: il cristiano è un portatore di Dio, è gravido di Dio, incinto di luce, passa nel mondo portando un’altra vita oltre alla sua vita. Ecco, l’immagine di Santa Maria incinta che va sui Monti di Giuda incontro alla cugina, anche lei incinta, questa immagine: essere gravidi di Dio nel mondo oggi, salvarlo così, aiutarlo a incarnarsi ancora.

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Un grazie al Papa da senzatetto e carcerati al Rony Roller Circus

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Il Rony Roller Circus, in collaborazione con la Elemosineria Apostolica, ha offerto ieri a Roma uno spettacolo gratuito per i senzatetto, i profughi e un gruppo di carcerati. Nell’occasione, medici e infermieri, mandati dai Servizi Sanitari Vaticani con il camper mobile e le ambulanze dell’Autoparco Vaticano, hanno effettuato visite mediche a quanti ne hanno fatto richiesta. Il servizio di Veronica Di Benedetto Montaccini

Sotto il tendone soffia aria di festa. Il circo Rony Roller e l’Elemosineria Apostolica offrono infatti uno spettacolo a chi non può permetterselo; una giornata speciale per sette generazioni di circensi, come racconta l’artista, Rony Vassallo:

“Nello spettacolo addestro i cavalli, lavoro con i leoni e faccio il trapezista. Ho parecchie passioni. È bello dare la possibilità a queste persone disagiate di assistere allo spettacolo del circo. Noi ci sentiamo anche più appagati, è proprio una cosa che ci fa stare bene! Non so cosa impareranno da noi, noi non vogliamo insegnare niente, solo riuscire a far tornare nelle persone quel bambino che c’è dentro ognuno di noi e farlo uscire. Se ci riusciamo, se loro impareranno a tornare bambini per quelle due ore in cui stanno insieme a noi, sarà bellissimo!”.

Non solo divertimento e numeri di magia, ma anche un utile servizio medico, nell’iniziativa dei Servizi Sanitari Vaticani. La dott.ssa Lucia Ercoli:

“Le persone che abbiamo incontrato non le abbiamo soltanto ascoltate sul problema di salute: sono state visitate, curate. Diciamo che a Roma si viene a configurare ormai una situazione di 'apartheid sanitario'. Il fatto che noi andiamo, cerchiamo e ci facciamo prossimi a loro, dà veramente a queste persone un’opportunità che altrimenti non avrebbero”.

Sugli spalti 2000 persone: senzatetto, rifugiati e detenuti, che per un giorno si lasciano trasportare dall’emozione, con uno zucchero filato in mano:

“Sono molto emozionato, perché è la prima volta che finalmente entro dentro un tendone meraviglioso, pieno di sogni e di emozioni”.

“Ringrazio Papa Francesco, perché mi ha dato questa oppotunità. E non solo a me, ma a tante persone”.

“Il circo me lo ricordo da bambino. Mi divertivo tantissimo e sono contento di essere qui!”.

“È tutto bello e pieno di emozioni! Ci sono tantissime persone che fanno delle cose mai viste, ed è fantastico tutto questo!”.

“Oggi è una giornata bella, perché queste persone vedono una cosa nuova”.

Uno degli spettatori ha detto che la vita è “tutta un circo”. Le acrobazie per queste persone saranno forse più facili dopo questa esperienza.

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Card. Koch auspica superamento contrasti tra anglicani

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Cinque giorni di lavoro intenso a porte chiuse. Alla fine i primati delle 38 Province anglicane riuniti a Canterbury dall’arcivescovo Justin Welby hanno deciso di “sospendere” per un periodo di tre anni la Chiesa episcopale statunitense (Tec), la branca della Chiesa anglicana a stelle e strisce, che nel 2003 ha ordinato il suo primo vescovo dichiaratamente gay, Gene Robison. Lo si apprende da un comunicato finale - ripreso dall'agenzia Sir - che è stato diffuso ieri sera, prima della conferenza stampa di oggi. Il documento era trapelato e così i primati hanno deciso di pubblicarlo integralmente in anticipo per evitare “speculazioni”.

I motivi della sospensione per la dottrina sul matrimonio
I recenti sviluppi nella Chiesa episcopale rispetto ad un cambiamento nel loro canone sul matrimonio – scrivono i primati anglicani – rappresenta un fondamentale allontanamento dalla fede e dall’insegnamento seguito dalla maggioranza delle nostre Province sulla dottrina del matrimonio”. I Primati ribadiscono che, alla luce dell’insegnamento della Scrittura, la Chiesa “sostiene il matrimonio come una unione fedele per tutta la vita tra un uomo e una donna”. E aggiungono: rompere autonomamente con questo insegnamento è considerato da “molti di noi” come “un allontanamento dalla responsabilità reciproca e dalla interdipendenza implicita” che esiste nella Comunione anglicana. Da qui la decisione di sospendere la Chiesa episcopale per un periodo di tre anni.

Chiesa anglicana Usa fuori dagli organismi ecumenici e interreligiosi
In concreto, la Chiesa statunitense non può più rappresentare la Comunione anglicana negli organismi ecumenici e interreligiosi; i loro membri non possono essere nominati o eletti ad un Comitato interno permanente e durante la partecipazione ad incontri della Comunione anglicana, non possono prendere parte al processo decisionale. Decisione, quest’ultima, significativa, visto che nel 2018 è prevista la Lambeth Conference. È stata infine decisa anche la costituzione di un gruppo di lavoro per ristabilire i rapporti e la fiducia reciproca tra le Chiese.

Per un commento a questa vicenda, ascoltiamo il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, al microfono di Philippa Hitchen:

R. – Zunächst einmal ist das eine interne Angelegenheit der Anglikaner. Ich meinerseits kann nur sagen …
Tanto per incominciare, questa è una faccenda interna degli anglicani. Dal canto mio posso dire che sono contento che non si sia arrivati a una scissione ma solo a una sospensione temporanea. Spero che questo tempo possa essere utilizzato per ritrovare una più profonda unità nella Comunione anglicana: infatti, in questa epoca ecumenica in cui siamo tutti alla ricerca di unità, ogni nuova separazione rappresenta un grosso pericolo e una grande sfida. Credo che noi proseguiremo nel nostro dialogo, visto che gli argomenti principali di questo dialogo riguardano appunto le stesse questioni, cioè da un lato i rapporti tra Chiesa locale e Chiesa universale e dall’altro come trovare una maggiore unità nel trattare le differenze etiche: questi sono gli argomenti principali del nostro dialogo che ora sono diventati visibili nella Comunione anglicana. Sarebbe bello se il dialogo tra noi riuscisse a essere d’aiuto alla comunità anglicana, perché ritrovi la sua unità.

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Turkson all'Onu: ecologia sia integrale, con al centro l'uomo

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Si è svolto oggi a Ginevra un evento speciale organizzato dalla Missione permanente della Santa Sede presso l’Onu, dedicato all’Enciclica di Papa Francesco "Laudato si’" dedicata alla cura della casa comune. Tra i relatori, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che ha tenuto un discorso sul tema: “La cura della nostra casa comune: contenuto e metodologia dell’Enciclica Laudato si’”. Il cardinale Turkson - riprendendo la domanda posta da Papa Francesco: che pianeta vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi? - sottolinea come la speranza per il futuro di un pianeta in buona salute risieda in quegli uomini e quelle donne che hanno ancora la capacità di intervenire in maniera positiva. Un nuovo inizio - ha auspicato il porporato dagli scranni dell’Onu - potrebbe essere rappresentato dal COP21 e dall’accordo che, dopo la riunione di Parigi, potrebbe trovare attuazione. E’ proprio nell’ottica di un nuovo inizio e di un futuro migliore - ha spiegato il cardinale Turkson - che Papa Francesco presenta il concetto di ecologia integrale, un’ecologia che abbia al centro l'uomo e le dimensioni sociali della crisi. E’ in quest’ambito, ha concluso, che trova applicazione il paradigma sul quale si fonda la relazione di ciascun essere umano con Dio, con le altre persone e con il creato. (S.L.)

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Kasper a S. Spirito in Sassia apre ciclo catechesi sulla misericordia

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In occasione del Giubileo inizia oggi alle 18.30, presso la Chiesa di Santo Spirito in Sassia a Roma, un ciclo di incontri dedicati alla Divina Misericordia. Il primo appuntamento è con il cardinale Walter Kasper, presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, che parlerà della "misericordia come risposta ai segni dei tempi". Natalia La Terza ha parlato dell’iniziativa con il rettore della Chiesa, mons. Jozef Bart

R. – Per quest’Anno Santo della Misericordia, allo scopo di aiutare i fedeli a prendere una maggiore e motivata conoscenza del mistero della misericordia di Dio, sotto il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e con la collaborazione dell’Associazione “Res Magnae”, vogliamo offrire un ciclo di catechesi che ha per oggetto la Divina Misericordia. E questo cammino di catechesi sarà suddiviso in tre tappe: la prima riguarderà la rivelazione della misericordia; la seconda la misericordia nei Sacramenti e nella preghiera; infine la terza è “vivere la misericordia”: la misericordia condivisa nel quotidiano con il prossimo.

D. – A Santo Spirito in Sassia come viene vissuto quest'Anno della Misericordia?

R. – La Porta della Misericordia in questo tempio è stata aperta da San Giovanni Paolo II quando, con la sua visita nel 1995, istituì questa Chiesa, destinandola alla missione della Divina Misericordia. Ogni giorno noi viviamo la festa della misericordia e tanto più in quest’anno quando, non solo frequentano questa Chiesa i fedeli che quotidianamente vengono a implorare la misericordia in qualsiasi ora della giornata, ma soprattutto alle tre del pomeriggio per la Coroncina della misericordia. E si aggiungono i fedeli che, dopo aver passato la Porta Santa di San Pietro, giungono nella nostra Chiesa proprio per pregare questa misericordia davanti all’immagine di Gesù Misericordioso, qui venerata, e davanti alle reliquie di Santa Faustina6 Kowalska, che sono quelle della canonizzazione.

D. – Santa Faustina Kowalska è stata l’Apostola della Divina Misericordia. Cosa ci direbbe oggi?

R. – Il suo messaggio, possiamo dirlo con la parole di San Giovanni Paolo II, non introduce niente di nuovo, però porta alla Chiesa e al mondo una nuova luce. Questa nuova luce, per quanto riguarda la Divina Misericordia, consiste nelle nuove forme che Santa Faustina Kowalska offre al mondo e alla Chiesa. E sono la Festa della Misericordia; la Coroncina della Divina Misericordia; l’Ora della Misericordia; l’immagine di Gesù Misericordioso; infine la diffusione, il compito di portare questo messaggio nel mondo.

D. – Quali saranno i relatori che prenderanno parte agli incontri organizzati per questo Giubileo?

R. – Io sono particolarmente felice – ma non solo io, tutti quanti – del fatto che le catechesi giubilari saranno svolte da stretti collaboratori del Santo Padre. Per il primo appuntamento, alle 18.30 giungerà il cardinale Kasper. Venerdì 19 febbraio sarà qui il cardinale vicario Agostino Vallini. Poi, in marzo, mons. Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. In aprile, dopo la Festa della Misericordia, mons. Arthur Roche, segretario della Congregazione per il Culto Divino. In maggio verrà poi il cardinale Mauro Piacenza, penitenziere maggiore. Poi in giugno ci sarà il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il Clero. L’8 luglio ci sarà il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Poi ci sarà il cardinale Domenique Mamberti, che è il titolare di questa nostra Chiesa. In ottobre, infine, ci sarà il cardinale Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. E concluderà questa catechesi mons. Konrad Krajewski, elemosiniere di Sua Santità. Queste persone, che collaborano quotidianamente con il Santo Padre, quando verranno qui, prima di fare la relazione delle loro catechesi, ci porteranno la loro esperienza quotidiana con il Santo Padre, Pontefice nel quale la misericordia scorre nelle vene, nella sua missione quotidiana come vescovo di Roma.

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Diocesi Roma: al via sesta edizione delle Letture teologiche

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“La Misericordia di Dio nell’arte”. E’ questo il filo conduttore della sesta edizione delle Letture teologiche promosse dalla diocesi di Roma, e iniziate ieri sera nell’Aula della Conciliazione del palazzo Lateranense. Al centro del primo dei tre incontri, è stato il Mosè di Michelangelo, conservato nella basilica di San Pietro in Vincoli, nella capitale. Il servizio di Marina Tomarro: 

Una figura carica di tensione pronta ad uno scatto di impeto, ma che con la sua fede riesce a trasformare la sua ira in misericordia verso il popolo che ha peccato, ma che egli comunque ama e guida verso la terra promessa. E’ questo il sentimento che trapela dalla maestosa scultura del Mosè realizzata intorno al 1515 da Michelangelo Buonarroti. Il commento di padre Jean Paul Hernandez cappellano all'Università La Sapienza di Roma

R. - Io credo che il Mosè di Michelangelo parli molto anche al cuore dell’uomo di oggi perché c’è una tensione dentro questa pietra, sprigiona una tensione che forse è la tensione che ha attraversato la vita di Michelangelo o che Michelangelo ha rivisto nella vita di Mosè. Questa tensione è quella di un uomo lacerato, un uomo che da una parte ascolta Dio, la Parola di Dio e dall’altra sta con un popolo che non ascolta. Nella statua del Mosè di Michelangelo vediamo questo volto che sta per esplodere in ira ma che si trattiene: in ira perché il popolo ha costruito il Vitello d’oro, aspettando sotto il Sinai. Allora cosa fare con questo popolo? Castigarlo, distruggerlo, abbandonarlo? Questo verrebbe da fare. Invece si trattiene e piano piano questa energia negativa dell’ira diventa un’energia positiva di chiedere a Dio il perdono. Un po’ già come immagine di quello che Gesù Cristo farà, di prendersi carico del nostro peccato. In realtà l’ira se è ira per amore è già un prendersi carico del disordine che è il peccato.

D.  – La figura di Mosè è una delle più alte dell’Antico Testamento ma qual è il messaggio che trasmette all’uomo di oggi?

R. – Credo che Mosè è soprattutto l’uomo che ha imparato ad ascoltare e non più a vedere o guardare. E’ emblematico per questo racconto della sua vocazione nel capitolo 3 dell’Esodo, quando Mosè vede il Roveto ardente vuole andare a controllare, cioè a possedere con lo sguardo. Invece Dio, a un certo momento, cambia il codice di comunicazione e fa passare dal guardare all’ascoltare. Mosè si rende conto che Dio lo puoi ascoltare soltanto perché poi ascoltando riconosci intanto che è vivo e inoltre se tu ascolti, accetti di essere secondo nell’evento di comunicazione e dunque chi ascolta è secondo a Dio.

E milioni sono le persone che ogni anno arrivano da ogni parte del mondo, per ammirare quest’opera d’arte e di fede, custodita nella basilica di San Pietro in Vincoli. Ascoltiamo Marco Bussagli docente all’ Accademia delle Belle Arti a Roma

R. – Attrae perché sembra vivo. Come dice la leggenda, la martellata di Michelangelo, che l’abbia data o no, non credo, ma comunque è la sintesi di questo: “Perché non parli?”.  “Perché non parli” è proprio questa capacità di avere il marmo, dice Vasari, il marmo che sembra pennello, che sembra fatto col pennello. E’ morbido, non c’è assolutamente nessun ostacolo per la realizzazione di vari materiali che vanno dalle vesti fruscianti ai peli della barba, ai capelli, agli occhi che ti fulminano con quello sguardo straordinario.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, Bombe turche contro l’Is;  Ankara lancia raid in Siria e in Iraq come rappresaglia per l’attentato  di Istanbul. Ma i jihadisti guadagnano terreno nell’area di Kirkuk

Di spalla, Proseguono le indagini sulla strage di Jakarta, arrestati e rilasciati tre sospetti

In cultura, Chi non distingue confonde. Sulle presunte origini ebraiche di Francesco d’Assisi di Pietro Messa

Teoria di una tentazione, La natura del peccato nell’adorazione del vitello d’oro di Giuliano Zanchi

Gli invisibili di Algeria, di Silvia Guidi

Santa Teresa in alta definizione nell’ultimo romanzo di Juan Manuel de Prada di Enrique Álvarez e Specchio di dimensioni interiori.

Inaugurato a Firenze il Museo Amalia Ciardi Dupré di Antonella Lumini

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Oggi in Primo Piano



Somalia: Al Shabaab attacca base Unione Africana, 60 morti

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L’attualità internazionale, con l’attacco terroristico di queste ore ad una base dell’Unione Africana nel Sudovest della Somalia al confine col Kenya. Ci sarebbero almeno 60 militari morti, cifra però ancora non confermata dal Ministero della difesa del Kenya. Il servizio Giancarlo La Vella

E’ stato un attacco in grande stile, programmato in tutti i suoi particolari: decine di terroristi somali aderenti al famigerato gruppo islamico al Shabaab hanno preso d’assalto la base che si trova al confine con il Kenya, in una zona strategica per i miliziani. L’installazione – a 500 km dalla capitale Mogadiscio – ospita peacekeeper ed è gestita dall’esercito keniano. I terroristi vi hanno fatto irruzione con un’autobomba per poi iniziare a sparare all’impazzata proprio per causare il più alto numero di vittime possibile. Il gruppo, alla sua nascita legato ad al Qaeda, dal 2011 ha aderito al califfato di al Baghdadi e dopo essere stato cacciato da Mogadiscio opera con una serie di sanguinosi raid programmati e periodici. Allucinante la situazione nella base, che ora è nelle mani dei jihadisti: secondo osservatori, corpi senza vita ovunque, edifici e automezzi in fiamme. Immediata la rappresaglia keniana: l’aviazione di Nairobi ha lanciato un vasto attacco aereo su roccaforti degli al Shabaab nella regione sudoccidentale somala.

Sulla situazione Stefano Pesce ha intervistato padre Efrem Tresoldi, missionario e direttore di “Nigrizia”, la rivista dei Padri Comboniani: 

R. – Questo attacco avrebbe causato la morte di oltre 60 soldati. I militanti di al-Shabaab hanno realmente espugnato questa base militare: hanno saccheggiato, portato via armi e munizioni, veicoli militari… E’ una grave sconfitta! Questa strategia di lotta al terrorismo è perdente e continuerà ad esserlo, perché non c’è modo di sconfiggere il terrorismo di al-Shabaab con le armi: hanno questa grande capacità di mimetizzarsi e quindi riescono sempre ad organizzare questi attacchi terroristici, sia in Somalia che in Kenya.

D. – Al-Shabaab noi la ricordiamo per gli attentati dello scorso 2 aprile a Garissa, con 150 studenti uccisi… Che cosa possiamo dire di questo gruppo terroristico?

R. – Quelle che erano state qualche anno fa le previsioni, di un movimento ormai moribondo e incapace di aggredire o di continuare nella sua campagna terroristica, sono state smentite dai fatti: nonostante l’impegno delle forze militari, sotto l’egida dell’Ua e la sponsorizzazione degli Stati Uniti, questo movimento sembra ancora più forte di prima.

D. – Ci sono, secondo lei, relazioni con gli altri gruppi terroristici operanti in Africa?

R. – E’ difficile pensare che ci sia una strategia che accomuni questi movimenti, da al-Qaeda a al-Shabaab, a Boko Haram. Quello che invece è più possibile è che, al di là delle indipendenze di azione di questi movimenti, - ormai si sospetta - che abbiano delle fonti comuni di approvvigionamento dal punto di vista della finanza e della vendita di armi e che gli Stati islamici del Golfo, che hanno grandi disponibilità di denaro, finanziano questi movimenti estremisti. Fino a quando avranno la possibilità di armarsi – attraverso, appunto, il sostegno logistico e finanziario di altri Paesi islamici – sarà impossibile poterli sconfiggere, poter sconfiggere il terrorismo di al-Shabaab e di altre forme di terrorismo.

D. – La Somalia - dalla metà degli anni Novanta - sembra non uscire più da questo stato di perenne instabilità: cosa ne pensa al riguardo?

R. – C’è stata qualche speranza 2-3 anni fa, quando sembra ci fosse un maggiore interesse da parte della Comunità internazionale: si è visto come diverse Potenze occidentali, anche la Cina, abbiano negli ultimi anni riaperto le loro ambasciate a Mogadiscio. Il segnale era senz’altro positivo. Direi che queste chance, queste possibilità sono un po’ svanite ultimamente e poi la sicurezza che non esiste e quindi difficilmente investitori internazionali saranno indotti ad investire nel Paese. E’ difficile pensare ad un futuro diverso per questo martoriato Paese del Corno d’Africa. 

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Attacchi a Giakarta: cristiani e musulmani in piazza per la pace

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La polizia indonesiana ha identificato quattro dei cinque autori degli attentati terroristici di ieri a Giakarta. Due di loro erano già noti per attività legate all'estremismo islamico. Tutti e cinque gli autori degli attacchi sono morti, vittime anche un cittadino canadese ed uno indonesiano. Per domenica prossima è in programma una grande manifestazione di cristiani e musulmani per la pace. ​Massimiliano Menichetti: 

Sono stati rilasciati, per mancanza di prove, i tre uomini arrestati questa mattina a Depok nei dintorni di Giakarta ritenuti militanti collegati agli attacchi terroristici che ieri mattina hanno sconvolto la capitale indonesiana. Sette i morti confermati: cinque attentatori, un indonesiano e un canadese, venti i feriti. La polizia ha identificato quattro componenti degli assalti rivendicati dal sedicente Stato islamico. Due di loro risultano pregiudicati, in particolare uno, Afif Sunakim, ha scontato una condanna in carcere di sette anni per avere partecipato ad un campo di addestramento per estremisti. Gli inquirenti confermano di essere “sulle tracce di altre cellule”, ma intanto in tutto il Paese è massima allerta: "rafforzata la sicurezza negli uffici governativi, le stazioni di polizia, le ambasciate e i centri commerciali". Ieri nell’area di Sarinah il terrore è iniziato con un’esplosione alle 10.30 poi altre sei concentrate proprio vicino ad un centro commerciale, zona anche di ambasciate, un ufficio dell'Onu, la Banca centrale e la sede della presidenza. Un video mostra anche la deflagrazione di un kamikaze. La guerriglia tra le forze dell’ordine e i terroristi è durata 4 ore e 50 minuti. Il presidente indonesiano Wodobo ha ribadito l’invito alla calma e alla collaborazione. Intervistato dall'agenzia Fides, il vicario Generale dell’arcidiocesi di Giakarta, padre Alexius Andang Binawan ha espresso il "cordoglio" e assicurato "preghiere" per le vittime. Nella capitale molti sono scesi in strada contro il terrorismo e per domenica è in programma una grande manifestazione di cristiani e musulmani per la pace.

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Kenya: dopo la strage di aprile riapre Università di Garissa

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Primi giorni di lezione quelli di gennaio, per i giovani keniani nell’Università di Garissa. Una sessantina di studenti, pochi docenti, ma  tanti agenti di polizia in tutta l’area del College. Sono trascorsi infatti nove mesi dal massacro del 2 aprile scorso quando i terroristi somali di Al Shaabab uccisero 148 studenti. Gli 850 sopravvissuti si sono trasferiti altrove, ma il Paese sta cambiando e ci sono tante speranze di un futuro migliore. Ne parla al microfono di Gabriella Ceraso Tommy Simmons, Fondatore di Amref Italia, da anni a Garissa: 

R. – Garissa è punto di transito tra – diciamo - la Somalia e Nairobi ed è veramente un po’ un mondo a parte, perché a Garissa etnicamente la popolazione è più vicina ai somali che non ai kenioti degli altipiani e c’è sempre stato un po’ un senso di distacco di questa parte del Paese e la popolazione locale si è sempre sentita un po’ trascurata. La creazione dell’università – l’unica università nel nord-est del Paese – era una speranza di integrazione e anche di educazione e formazione per la popolazione locale. Quando poi c’è stato l’attacco, questa speranza è stata bruciata e molti sono andati via: i centri sanitari sono rimasti sforniti di personale e anche le scuole… L’attentato ha rappresentato un fortissimo impoverimento ed isolamento di tutta questa regione. Quasi tutti gli studenti non locali sono scappati e molti degli studenti locali sono rimasti senza possibilità di educazione. Per cui la riapertura per il nord-est del Kenya è molto importante, perché i giovani hanno così un'università alla quale possono accedere a basso costo.

D. – Leggendo oggi le testimonianze di alcuni studenti si vede sicuramente l’importanza data a questa riapertura, un'importanza simbolica come lei diceva. Ma anche la paura: “Tutto qui – scrivono - ricorda i nostri amici uccisi”. E’ così? Che lavorano è stato fatto? I ragazzi hanno paura?

R. – Io ho incontrato diversi sopravvissuti e ovviamente questi sono ragazzi che saranno traumatizzati per il resto della vita: il terrore che hanno vissuto credo sia difficile da recuperare. Credo che non torneranno, cercheranno un’altra vita da un’altra parte. I ragazzi locali che hanno visto i loro compagni essere uccisi, molto spesso non hanno un'alternativa e per cui torneranno a studiare lì. Se la situazione permane stabile e se l’opinione pubblica e i giovani riescono ad avere fiducia nel governo e nelle forze di sicurezza, gradualmente nuovi studenti arriveranno a Garissa e piano piano si tornerà alla normalità. Ma credo che ci vorrà molto tempo…

D. – I danni materiali alle strutture sono stati sistemati?

R. – I danni strutturali non sono stati grandissimi: il dormitorio, in cui c’è stato il grosso dell’eccidio, è stato completamente rimesso a nuovo, hanno cambiato anche il nome del dormitorio per evitare che ci fosse un ricordo troppo forte… Ma quello che bisogna veramente sistemare è la “struttura” mentale della popolazione e anche del Paese.

D. – Questi ragazzi sono pochi: ce la possono fare a creare una rinascita?

R. – La speranza c’è! Ci sono dei cambiamenti politici, ci sono degli interessi anche economici. Il Paese è veramente molto in movimento: ci sono dei fortissimi investimenti nel nord-est del Paese per cercare di aprirlo e creare un nuovo porto per collegarsi con l’Etiopia; vogliono realizzare strade e ferrovie. Per cui la necessità di mettere in sicurezza il territorio è molto forte, ma i giovani hanno bisogno di avere fiducia nel proprio futuro e hanno bisogno di non sentirsi emarginati. Con questi attentati terroristici la popolazione islamica si è sentita, sia a Nairobi che in altre parti del Paese, abbastanza sotto minaccia, perché – come sempre accade in queste situazioni – tanta gente fa di ogni erba un fascio e non distingue tra chi ha una volontà violenta, terroristica ed estremista e chi ha una vita spirituale normale e vive il proprio credo. Per cui bisogna ricostruire la fiducia, sia da una parte che dall’altra, nella possibilità di vivere insieme e di sconfiggere l’estremismo.

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Elezioni a Taiwan: grande attenzione da Usa e Cina

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Domani importanti elezioni a Taiwan. L’isola ha aperto ultimamente un dialogo con Pechino. Alle consultazioni, che dovranno eleggere presidente e parlamento, guardano con attenzione anche gli Stati Uniti, che considerano Taipei un importante punto strategico nel Mar Cinese. Sul voto e i suoi risvolti, Giancarlo La Vella ha intervistato Stefano Vecchia, esperto di Estremo Oriente: 

R. – Una tornata elettorale di assoluta importanza e non soltanto per la libertà dei taiwanesi, ma anche proprio per i rapporti tra i Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese. Ricordo che si tratta di una doppia consultazione ed è - diciamo - il culmine di un percorso politico che ha visto, soprattutto negli ultimi anni, una forte opposizione della società civile e dei partiti dell’opposizione contro la politica filo-Pechino del presidente Ma Ying-jeou. Di conseguenza molti osservatori vedono, in realtà, in questa tornata elettorale una sorta di referendum per continuare il processo di avvicinamento alla Cina, che è economico e che Pechino vuole sempre più che diventi anche politico, e invece una opposizione che vuole quantomeno un blocco dello sviluppo di questi rapporti e decidere autonomamente quale sarà il futuro delle relazioni, appunto, con Pechino.

D. – Secondo alcuni osservatori, Taiwan sarebbe una sorta di "merce di scambio" in un baratto tra Pechino e Washington: quali estremi avrebbe, secondo lei?

R. – Sul piano strategico Taiwan è intoccabile per gli americani. Certamente nel prossimo futuro – soprattutto in relazione ai rapporti che vanno in qualche modo sviluppandosi tra Pechino e Washington, ma che vanno in un certo senso anche deteriorandosi davanti alle affermazioni sempre più pressanti e più forti di Pechino di sovranità sulle acque che circondano la Cina – il ruolo di Taiwan sarà, in qualche modo duplice: da un lato potrebbe diventare una sorta di ulteriore base della strategia statunitense, ma – allo stesso tempo – la pressione di Pechino affinché Taiwan venga integrata nella “madre patria”, nella “grande madre patria cinese” potrebbe in qualche modo allentare i rapporti tra Washington e Taipei.

D. – Quindi l’aspetto strategico, che rimarrebbe nell’area americana, e l’aspetto economico che verrebbe trasferito alla competenza della Repubblica Popolare?

R. – Sì, in qualche modo sì. Molto dipenderà da cosa succederà domani: il partito di maggioranza, quello che ha il potere dal 1949, addirittura rischia sostanzialmente di scomparire. E questo sarebbe un cambiamento drammatico, un cambiamento epocale dei rapporti tra i due Paesi, ma anche per l’isola: di fatto, a questo punto, i partiti di opposizione – contrari ad una integrazione con la Cina – potrebbero non rompere, perché questo vorrebbe dire una invasione militare cinese verso l’isola, ma sicuramente creare uno strappo in cui gli americani dovranno poi cercare un loro ruolo.

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Family day il 30 gennaio. Bazoli e Fioroni su ddl Cirinnà

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Sarà il 30 gennaio la manifestazione a Roma contro il ddl Cirinnà sulle unioni civili. A confermare la data, emersa già nei giorni scorsi, è il Comitato “Difendiamo i nostri figli”. Ancora sconosciuto invece il percorso del corteo. Intanto i parlamentari d’ispirazione cattolica cercano una soluzione agli aspetti più spinosi del ddl, come la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner. Ieri 37 deputati del Pd hanno firmato un documento per chiedere lo stralcio della stepchild adoption. Una mediazione non facile, vista la contrarietà di Renzi. Alfredo Bazoli, deputato del Pd, tra i 37 di ieri, cerca una via di uscita al no del premier: 

R. – Continuiamo a ritenere preferibile lo stralcio oppure quantomeno la mediazione che stanno cercando di ritrovare al Senato sull’affido rinforzato. Qualora non fosse possibile né l’uno né l’altro, perché il partito decide di proseguire in questa direzione, l’extrema ratio, sulla quale cerchiamo di portare il partito, è almeno di circondare la Stepchild di una serie di condizioni e cautele che rendano chiaro e palese che quello strumento non si applica, non incentiva o legittima la maternità surrogata, che poi è un po’ il rischio che vediamo dietro invece l’attuale formulazione della norma.

D. – Concretamente come si potrebbe intervenire su questo aspetto per evitare, appunto, il pericolo dell’utero in affitto?

R. – Adesso so che i tecnici sono al lavoro e so che stanno cercando di lavorare in questa direzione. Alcuni giuristi – in particolare il prof. Nicolussi della Cattolica o il prof. Bianca – so che hanno ipotizzato e suggerito che si faccia una norma ad hoc: che non ci sia cioè l’estensione della norma che attualmente è prevista per i coniugi, quindi per le coppie eterosessuali sposate. Quindi la Stepchild che oggi è prevista per i coniugi non si applicherebbe alle unioni civili, ma ci sarebbe una norma ad hoc, che sarebbe formulata in modo tale che il giudice debba valutare, oltre a tutte le altre condizioni previste per la Stepchild anche per i coniugi, anche che vi sia stato un certo periodo di convivenza tale tra il minore e il partner adottante da poter ritenere che si sia raggiunta la maturazione di una responsabilità genitoriale. Quindi uno step in più, un vincolo temporale in più che dovrebbe in qualche modo circondare di maggiore cautela questa istituto. 

Per Giuseppe Fioroni, sempre del Pd, bisogna evitare ogni equiparazione ai matrimoni: 

R. – Noi abbiamo sottoscritto – grazie al lavoro di tanti colleghi – un documento che lavora per costruire una posizione unitaria: lo riassumerei nel titolo “La famiglia è una. I diritti per tutti”. Le unioni civili sono delle formazioni sociali specifiche che sono diverse dalla famiglia naturale, fondata sul matrimonio (ex-art. 29 della Costituzione). Fare questa chiarezza significa garantire diritti per tutti, ma non confondendo cose che sono sostanzialmente diverse.

D. – Tra l’altro chiede lo stralcio della Stepchild adoption; Renzi, però, dice che non se ne parla! A questo punto che cosa succederà?

R. – Non c’è la libertà di coscienza perché siamo furbi, ma c’è la libertà di coscienza perché non può essere né una tessera di partito né un programma di governo a dettare l’etica alle coscienze. Posso quindi parlare per me: se ci sono le adozioni, io non voterò!

D. – Ma sulle adozioni, sull’affido, secondo lei, sarà trovato un compromesso in Senato?

R. – Una legge che non faccia soluzioni frettolose fa sì che si compiano poi crimini contro l’umanità, come potrebbe essere l’utero in affitto.

D. – Lei era al primo Family day, pensa di fare un passaggio a San Giovanni il 30 di questo mese?

R. – A titolo personale parteciperò al Family day che – ribadisco – è una iniziativa, se ci sarà, che non è contro qualcosa, ma a sostegno della famiglia unica e quindi che la famiglia è una e i diritti sono per tutti. Io personalmente ci sarò.

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Padre Nicolás: quello dei migranti è volto di Misericordia

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“Grazie per averci mostrato la faccia della Misericordia e per aiutarci a scoprire il mondo”. Così il Preposito generale dei Gesuiti, il padre Adolfo Nicolás, ai rifugiati ospiti del Centro Astalli, intervenendo ieri a Roma, alla Chiesa del Gesù, all’incontro dedicato alla Giornata mondiale del migrante e del rifugiato di domenica prossima. C’era per noi Elvira Ragosta

La storia di Samer, scappato due mesi fa da Damasco, con la moglie i due figli, miracolosamente scampati ad un attentato allo scuolabus che prendevano ogni giorno. Poi la testimonianza di Mary, fuggita dal Kenya, con sua madre e suo fratello dopo essere stati aggrediti in casa da terroristi. Sono i racconti di alcuni dei rifugiati accolti dal Centro Astalli, che ha celebrato la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato con un incontro dedicato alla solidarietà. Accanto a queste storie la preghiera del Preposito generale dei Gesuiti, padre Adolfo Nicolás, e 10 messaggi di pace recitati da 10 rifugiati provenienti da diversi Paesi, in diverse lingue. Tra loro anche Awas, scappato dalla Somalia nel 2008 perché ricercato dai miliziani al-Shaabab. Ci racconta il suo viaggio su un barcone di fortuna, l’arrivo a Lampedusa, poi a Roma e la sua ricerca di pace e di una vita nuova in Olanda…

R. - Lavoravo in nero, ma mi trovavo bene… Però dopo due anni mi hanno riportato qui in Italia come un criminale, per questo accordo chiamato il Trattato di Dublino.

D. – In Italia, dove è andato?

R. – Dove vanno tutti i migranti: alla Stazione Termini. Dormono lì, con un cartone, per la strada…

D. – Quando ha conosciuto il Centro Astalli?

R. – L'ho conosciuto dopo tanto tempo, dopo tanti problemi… Prima del Centro Astalli ho conosciuto delle suore, le suore salesiane della Casa di Don Bosco. Poi, proprio attraverso queste suore, ho conosciuto il Centro Astalli: sono loro che me lo hanno detto.

D. – Lei ha il diritto di asilo in Italia adesso?

R. – Si!

D. – E cosa fa?

R. – Adesso lavoro: ho un lavoro fisso. Non ho problemi, ho i documenti: sono tranquillo!

D. – Adesso lei che tipo di aiuto dà agli ospiti del Centro Astalli?

R. – Ho incontri con i ragazzi giovani, quelli delle medie, delle terze medie… Vado e racconto la mia storia.

Dalla Repubblica Democratica del Congo arriva invece Beatriz, rifugiata politica per il suo attivismo democratico. Grazie al Centro Astalli ha trovato accoglienza e la possibilità di studiare in Italia:

R. – Il Centro Astalli mi ha aiutato a fare tutte le procedure per essere riconosciuta come rifugiata politica. Quando sono arrivata ho fatto piccoli lavoretti, ma adesso sto studiando: sono all’università, faccio scienze infermieristiche.

Nel suo intervento sulle migrazioni, padre Adolfo Nicolás, superiore Generale della Compagnia di Gesù, ha ringraziato i rifugiati, “perché voi non siete ospiti - ha detto - ma contribuenti. Grazie per aiutarci a scoprire il mondo: la migrazione è stata sempre una fonte di bene per tutti i Paesi. Con la vostra esperienza – ha detto - ci avete mostrato il volto della misericordia” e ha aggiunto:

“Grazie anche perché ci avete mostrato la parte più debole e la parte più forte dell’umanità: la più debole, perché avete vissuto la paura, la violenza, la solitudine e i pregiudizi; ma anche la parte più forte dell’umanità, perché ci avete dimostrato come superare la paura, con il valore di prendersi dei rischi. Vi siete presi dei rischi che non tutti noi possiamo prendere.

Sul messaggio di questo incontro del Centro Astalli alla Giornata del migrante e del rifugiato nell’Anno del Giubileo della Misericordia, abbiamo intervistato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli:

R. – I rifugiati e i migranti sono maestri di misericordia, perché le loro vite sono state segnate dalla violenza, dalle difficoltà, ma loro hanno saputo superare queste difficoltà e questa violenza e, arrivando nei nostri Paesi, ci danno una testimonianza che occorre andare oltre, che occorre riconciliarsi, che occorre la pace.

D. – Numerose le tragedie del mare; alcuni Paesi europei chiudono le frontiere; in Italia si discute del reato di immigrazione clandestina - se abolirlo o no - con tante polemiche. Lei cosa ne pensa?

R. – Purtroppo si sta ancora perdendo tempo! Questa, invece, sarebbe stata un'occasione per dire in modo chiaro che migrare è un diritto. Certamente bisogna anche in qualche modo regolamentare i flussi migratori, ma certo non trasformare la migrazione in un reato. 

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"Con il vento nel petto": un film per riscoprire Contardo Ferrini

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Viene presentato domani pomeriggio a Verbania il film documentario "Con il vento nel petto - Vita di Contardo Ferrini", prodotto e diretto da Alberto Di Giglio e nato da un'idea dell'Associazione Piccola Porziuncola di Verbania, in collaborazione con il locale Ordine Francescano Secolare. La figura del Beato emerge con particolare attualità in questo anno dedicato alla Misericordia.Il servizio di Luca Pellegrini: 

La solida certezza del diritto, la maestosa bellezza della natura. Nella vita del Beato Contardo Ferrini non venne mai meno la prima, fu il fulcro per contemplare il mistero di Dio la seconda. E’ un personaggio affascinante, Contardo, nato a Milano nell'aprile del 1859. Molti dei suoi anni li trascorse nelle università italiane e straniere per insegnare il diritto romano. L'alone di santità ne contraddistinse l'esistenza, Pio XII lo proclamò Beato nel 1947, quarantacinque anni dopo la morte avvenuta per tifo, definendolo "il modello dell'uomo cattolico dei nostri giorni". Di lui, però, se n'è quasi perso il ricordo, mentre il corpo riposa nella cripta dell'Università Cattolica di Milano e il cuore nella chiesa di Santa Lucia di Suna Verbania, sulle sponde dell'amatissimo Lago Maggiore. Alberto Di Giglio ha voluto porre rimedio a questa dimenticanza girando "Con il vento nel petto", che ripercorre la mite, normale esistenza del Beato. Il titolo riprende un verso scritto dallo stesso Ferrini - interpretato da Bruno Furini - in cui è descritto il suo anelito spirituale legato alle forze e alla bellezza della natura, che vediamo in molte belle immagini, raccontate attraverso alcune ricostruzioni della vita, un mosaico di voci - tra cui quella di Marco Invernizzi, autore di un libro su Ferrini - e interessanti testimonianze, anche dei confratelli francescani, avendone il Beato vestito l'abito da Terziario nel 1886. E’ lo stesso regista a dipingere con queste parole le qualità umane e spirituali di Contardo:

“Con dolcezza ma con una forza straordinaria che ha questa figura, quest’uomo rivendica un diritto di cittadinanza tra i giuristi nel mondo accademico, proprio perché in questo anno, dedicato alla Misericordia, una figura di umanista cristiano come lo è Contardo Ferrini è un interlocutore sotto certi aspetti veramente provvidenziale e fa un po’ dispiacere vedere come sia quasi dimenticato, come se facesse parte del passato. Noi abbiamo visto attraverso le immagini che è una figura attualissima, perché è un faro proprio per quello che ha da dire, per la limpidezza, per la sua testimonianza luminosa, trasparente, che si distingue sia nel mondo accademico, scientifico, con quel rigore in cui si è contraddistinto, sia soprattutto come proposta spirituale, che ti fa contemplare qualsiasi tramonto, qualsiasi momento del giorno, la nebbia, il sole: tutto diventa luce, tutto diventa veramente armonia. E credo sotto questi due aspetti vada riscoperto e sia da accogliere come amico, come compagno di viaggio”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Nunzio a Damasco: una vergogna usare fame e sete come arma di guerra

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“Usare la fame, e io aggiungo la sete, come arma di guerra è un crimine, una vergogna, e mi meraviglio che i media internazionali ne parlino solo ora. Vi sono realtà in cui la gente da oltre un anno muore di fame, mentre alle porte di villaggi e città vi sono camion carichi di cibo, latte, medicine”. Non usa mezzi termini il nunzio apostolico a Damasco, mons. Mario Zenari, per denunciare le gravissime violazioni che si sono perpetrate per troppo tempo in molte realtà di guerra in Siria. Località sotto assedio come Madaya (dove ieri è giunta la seconda carovana di aiuti), Foah e Kefraya; e ancora il campo profughi di Yarmouk, alle porte di Damasco, tutte realtà che costituiscono una vergogna per i media e la comunità internazionale. “Una situazione - avverte - che va risolta eliminando alla radice il conflitto”. 

Prestare attenzione alla questione umanitaria
Interpellato dall'agenzia AsiaNews il nunzio a Damasco esorta la stampa mondiale a “prestare maggiore attenzione alla questione umanitaria, un problema impellente che va risolto oggi”. Il presule ammette che vi possano essere “difficoltà”, ma “non vi sono scuse perché cibo e medicinali non mancano, i camion ci sono ma la gente muore lo stesso di fame”. 

E' un crimine usare la fame come arma di guerra
“Una soluzione politica al conflitto siriano - avverte mons. Zenari - si può trovare anche domani, fra un mese, ma i diritti umani riconosciuti a livello internazionale vanno garantiti e rispettati. Il problema umanitario, l’uso della fame come arma di guerra come ha sottolineato il Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, e io aggiungo anche l’uso della sete, sono un crimine, una vergogna”. 

La drammatica situazione nel campo profughi di Yarmouk
Riferendosi a Madaya, che in questi giorni ha guadagnato le prime pagine internazionali, il prelato si dice “meravigliato” che l’attenzione dei media “sia arrivata solo ora. Da mesi le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme nella zona - aggiunge - così come a soli 7 km dalla capitale continua a consumarsi la vergogna di Yarmouk”, una sorta di prigione a cielo aperto, un campo profughi in condizioni da tempo disperate. “Due settimane fa - spiega mons. Zenari - si è tentato di evacuare l’area, ma il tentativo non è andato a buon fine”. 

Organizazzioni internazionali e Chiesa punti di riferimento a livello umanitario
​In questo contesto difficile, mons. Zenari “approva e incoraggia” gli sforzi di quanti “operano per sbloccare situazioni a rischio”. L’ingresso di aiuti a Madaya, Foah, Kefraya “sono segnali positivi sul piano umanitario, anche se non riguardano tutto il Paese. Va però riconosciuto il lavoro di varie entità fra cui l’Onu, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa che, con costanza e senza fare rumore, hanno lavorato per giungere a questi accordi e garantire l’ingresso di aiuti”. All’opera di queste agenzie, aggiunge, va unito “lo sforzo profuso dalla Chiesa e dai singoli sacerdoti, suore, religiosi che grazie alla loro presenza sul posto restano un punto di riferimento importante a livello umanitario”. (R.P.)

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Siria: altri 16 ostaggi cristiani rilasciati dall'Is

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I jihadisti affiliati al sedicente Stato Islamico (Daesh) hanno rilasciato nella giornata di ieri, altri 16 cristiani assiri che facevano parte del consistente gruppo di ostaggi da loro catturati e deportati lo scorso 23 febbraio, quando le milizie jihadiste avevano compiuto un'offensiva contro i villaggi a maggioranza cristiana assira sparsi lungo la valle del fiume Khabur, nella provincia siriana nord-orientale di Hassakè. Otto componenti del gruppo di ostaggi liberati sono bambini. Tutti sono apparsi in decenti condizioni di salute. “Questa volta” riferisce all'agenzia Fides l'arcivescovo siro cattolico di Hassakè-Nisibi, Jacques Behnan Hindo “gli ostaggi liberati sono stati lasciati nei pressi della città di Tel Tamar, e da lì hanno potuto raggiungere il loro villaggio di Tel Jazira”.

Ancora meno di 70 ostaggi nelle mani dei jihadisti
I cristiani assiri della valle del Khabur presi in ostaggio dai jihadisti a febbraio erano più di 250. Da allora si sono succeduti diversi rilasci di gruppi di prigionieri. L'ultima volta, lo scorso 25 dicembre, erano stati 25 i cristiani assiri del Khabur rilasciati dal Daesh. “Al momento, secondo i nostri calcoli” aggiunge alla Fides l'arcivescovo Hindo “gli ostaggi di quel gruppo che rimangono ancora nelle mani dei jihadisti dello Stato Islamico potrebbero essere meno di settanta”.

I timori dopo l'esecuzione di tre ostaggi a ottobre
​All'inizio di ottobre, sui siti jihadisti era stato diffuso il video dell'esecuzione di tre cristiani assiri della valle del Khabur. Il filmato, girato secondo i macabri rituali scenici seguiti anche in altri casi analoghi dalla propaganda jihadista, avvertiva che le esecuzioni degli altri ostaggi sarebbero continuate fino a quando non fosse stata versata la somma richiesta come riscatto per la loro liberazione. (G.V.)

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Vicario di Aleppo: nel dramma siriano gesti di misericordia

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La situazione "resta difficile, ma si intravede qualcosa di nuovo: tentativi di dialogo, il desiderio di stare insieme, piccoli accordi in alcune zone del Paese, questi sono segni di incoraggiamento e di speranza”. È quanto riferisce all'agenzia AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei latini, mons. Georges Abou Khazen, commentando lo sforzo diplomatico che ha permesso la consegna di aiuti in aree da tempo assediate, in cui la popolazione moriva di fame. “Quello che sta succedendo a Madaya e in altri due villaggi sciiti del nord della Siria - aggiunge il prelato - dove entrano gli aiuti ed è in atto una specie di tregua, non significa la pace nel Paese. Ma è uno dei primi, piccoli passi da compiere per fermare il conflitto. Governo e ribelli dialogano fra loro, alcuni si ritirano, altri consegnano le armi”. 

I primi aiuti giunti a Madaya
In Siria fino a 4,5 milioni di persone vivono in aree contese e difficili da raggiungere per le agenzie umanitarie, tra le quali almeno 400mila in 15 località sotto assedio. Fra queste vi è Madaya, 25 km a nord-ovest di Damasco e a soli 11 km dal confine con il Libano; dal luglio scorso la zona è assediata da forze governative, sostenute dagli sciiti libanesi di Hezbollah. Situazioni analoghe si registrano a Foah e Kefraya - sotto assedio da parte delle milizie ribelli - al cui interno vi sono almeno 20mila persone intrappolate dal marzo scorso e prive di aiuti. L’11 gennaio scorso un convoglio della Croce rossa internazionale e della Mezzaluna rossa sotto l’egida dell’Onu è entrato a Madaya, con cibo e scorte. Ieri una seconda carovana di aiuti, composta da 50 camion, è partita da Damasco carica di farina, medicine e prodotti per l’igiene personale. 

Gruppi locali hanno capito che è necessaria la fine delle violenze
“In Siria la maggior parte delle persone sta arrivando alla convinzione - afferma il vicario apostolico dei latini - che la guerra non è più l’unica opzione. Solo Daesh (acronimo arabo per il sedicente Stato islamico) e al Nusra (al Qaeda in Siria) vogliono il conflitto, le violenze, ma i gruppi locali hanno capito che è necessaria la fine delle violenze. E per arrivare alla pace è fondamentale il dialogo fra loro”. Inoltre, questi accordi locali in passato erano frutto solo “di costrizione, di imposizioni esterne” mentre ora “è la gente stessa che chiede la fine delle violenze, di fermare l’uso delle armi. Questo, per me, è un piccolo segnale che induce all’ottimismo!”.   

Il rischio che qualcuno si impossessi di beni e aiuti
In questi giorni alcune personalità di primo piano, fra cui il Patriarca melchita Gregorio III Laham, hanno lanciato l’allarme per il pericolo che le derrate finiscano nelle mani di bande criminali e gruppi terroristi. “Siamo comunque in una situazione di guerra - spiega mons. Khazen - e vi è sempre il rischio che qualcuno si impossessi di beni e aiuti. Anche in tempo di pace vi sono commercianti che lucrano sugli alimenti, figuriamoci ora. Il fatto che i beni siano distribuiti dalle Nazioni Unite dovrebbe essere una garanzia”. “Anche noi ad Aleppo siamo stati sotto assedio - prosegue - e forse a Madaya si è fatto un uso strumentale della situazione. È giusto lanciare l’allarme, ma non bisogna sfruttarlo per finalità politiche”. 

Si alimenta l’odio confessionale per interessi economici e politici
Per il presule si tratta di sforzi “veri e sinceri”, perché “anche altre nazioni della regione come la Turchia” vittima anch’essa di attacchi di recente “si sono accorte del fatto che questo focolaio di violenza va spento. Dall’esterno vi sono forze che spingono per disgregare il Paese, che soffiano sul conflitto, che sfruttano la religione e alimentano l’odio confessionale per interessi economici e politici”. 

Segni di misericordia e di carità nell'inferno di Aleppo
“Attacchi e violenze restano problemi all’ordine del giorno - continua il vicario apostolico - da 100 giorni Aleppo è senza elettricità, l’acqua scarseggia, la gente sopravvive, quando può, usando i generatori… Siamo al freddo e al gelo, e la situazione si complica per i bambini, gli anziani, i malati”. In questo contesto emergono però segnali che inducono a un cauto ottimismo, perché “non dobbiamo mai perdere la speranza. Ne è un esempio l’aiuto quotidiano che alcune famiglie, cristiane e musulmane, danno ad altre famiglie più povere, che non hanno nemmeno cibo né acqua. Una carità disinteressata - conclude - e che non guarda alla fede, all’etnia del bisognoso. In questo contesto si sente il valore della misericordia, nell’Anno giubilare, in un Paese che da cinque anni non conosce misericordia ma violenze e terrore. Ma attraverso la misericordia si può cambiare tutto, la mentalità, i sentimenti, i comportamenti”. (R.P.)

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Vescovi Venezuela: immorale non accettare il voto del popolo

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I vescovi venezuelani hanno definito il conflitto di potere attualmente in corso tra il Tribunale Supremo di Giustizia e la Assemblea Nazionale come un  “triste spettacolo”  che non porta “sulla strada per superare i problemi” del Paese , oggi più che mai necessita di  “decisione, saggezza ed efficacia da parte di tutti gli attori sociali. Alla fine della 105.ma Assemblea ordinaria, la Conferenza episcopale ha pubblicato l’Esortazione pastorale intitolata “Assumere la realtà della Patria” che chiama il governo a rispettare i risultati dei comizi parlamentari dello scorso 6 dicembre. “E’ moralmente inaccettabile e grida al Cielo dimenticare o lasciare da parte la volontà del popolo espressa nelle elezioni”.

Il conflitto tra i  poteri è ingiustificabile
La dimostrazione di “responsabilità civica e volontà pacifica” che il popolo venezuelano ha manifestato sia nelle elezioni del 6 dicembre, sia nella formazione del nuovo parlamento, sono state secondo i vescovi una “luce di incoraggiamento e di speranza” tra le tante “ombre  e incertezze” che offuscano la realtà della nazione. “Il conflitto tra il Tribunale Supremo di Giustizia e l’Assemblea Nazionale - afferma l’episcopato - non ha giustificazione, perché il popolo ha espresso la volontà di vivere in democrazia e non in un sistema totalitario ed escludente”. Il documento ricorda che ogni potere dello Stato ha la propria competenza ed è compito dell’esecutivo disegnare e proporre la rapida soluzione ai problema economici e sociali , mentre quella dei deputati è  di fare le leggi, esaminare e servire da foro di incontro e dialogo per valutare progetti e proposte. 

Il Paese è alle porte di una crisi umanitaria
Nel messaggio i vescovi avvertono che “l’errata politica economica e la discesa dei prezzi del petrolio causanti della smisurata inflazione” hanno portato una grande sofferenza alla popolazione che affronta  quotidianamente la carestia dei beni di prima necessità facendo per ore, interminabili file per acquistare un prodotto e spesso nella impossibilità poter comprarlo, perché a prezzi inaccessibili e che aumentano giorno dopo giorno. “La crisi alimentare e l’insufficienza dei medicinali - si legge nel documento - possono provocare una crisi umanitaria di grandi proporzioni e gravissime conseguenze che devono essere risolte in tempo e in modo decisivo”. L’episcopato sottolinea che tocca all’esecutivo risolvere la grave situazione con un progetto economico “mirato al bene comune e non uno strumento politico che favorisca interessi parziali e ideologici”. 

Legge di amnistia per i prigionieri politici
Dopo una energica condanna al sistema penitenziario che viola il rispetto dei diritti e della dignità della persona, i vescovi considerano prioritaria una risposta “immediata, giusta e riconciliante” alla iniqua situazione dei prigionieri politici sottoposti a condizioni inumane e a processi per “discutibili ragioni politiche”. Il documento auspica che in questo Anno giubilare della Misericordia, non ci sia in Venezuela nessun prigioniero per motivi politici, e in proposito chiedono la promulgazione di una legge di amnistia”. L’episcopato chiama anche al rispetto e alla difesa della libertà di espressione come risorsa fondamentale per conoscere la “verità dei fatti”. 

Politiche sbagliate contro la delinquenza
Il documento dell’episcopato espone la realtà di violenza e di delinquenza irrefrenabile che opprime le “famiglie sommerse nel dramma quotidiano dell’insicurezza e della paura, del lutto e del dolore”. I vescovi denunciano “l’improvvisazione e l’inefficienza delle politiche di sicurezza” e condannano “il non poco frequente uso eccesivo e, a volte disumano della forza” da parte delle autorità.  Il testo sottolinea che sono i settori popolari a risentire di più l’assenza di protezione e sono spesso vittime dell’abuso di potere da parte di chi dovrebbe garantire la loro sicurezza. Anche la situazione e le difficolta che affrontano i cittadini alla frontiere con la Colombia è stata una delle preoccupazioni dei vescovi che esortano le autorità a creare le condizioni per la convivenza pacifica e feconda nella zona.

Dialogo che garantisca governabilità e pace sociale 
​La Chiesa venezuelana chiama i politici a rispettare le autonomie di ogni potere pubblico, le proprie competenze costituzionali e stabilire un dialogo istituzionale che garantisca la governabilità e la pace sociale. “Come cittadini - si legge nel messaggio - non possiamo essere indifferenti ai problemi e dobbiamo essere promotori di riconciliazione, propiziando il perdono e la guarigione delle ferite”. Infine, i vescovi ricordano che l’Anno della Misericordia, convocato da Papa Francesco, invita istituzioni o persone pubbliche o private a introdurre “con creatività e generosità,  gesti e azioni che portino ad assaporare e a vivere con gioia e sacrificio, i frutti della solidarietà e della fratellanza”. (A cura di Alina Tufani)

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Kenya: appello dei vescovi all’unità dei cristiani

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Un appello ad operare per l’unità dei cristiani è stato lanciato dalla Conferenza episcopale del Kenya, in vista della Settimana di preghiera dedicata a questo tema, in programma dal 18 al 25 gennaio ed intitolata “Chiamati per annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio” (cfr. 1 Pietro 2, 9). In una lettera aperta a sacerdoti, religiosi e laici, mons. Alfred Rotich, presidente della Commissione episcopale keniota per l’ecumenismo, sottolinea che “la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani sarà tanto più fruttuosa quanto più la celebreremo come fratelli e sorelle in Cristo”.

Camminare insieme in preghiera ed amore
Di qui, l’invito a “proseguire nella collaborazione per arrivare ad una comunione più profonda gli uni con gli altri, per testimoniare la nostra fede comune in Cristo, declinata in tutte le sue diversità”. “Camminiamo insieme in preghiera ed amore – ribadisce mons. Rotich – per essere veri testimoni dell’opera di Dio”. Per incoraggiare, inoltre, un’ampia partecipazione di fedeli alla Settimana, la medesima Commissione raccomanda l’elaborazione, nelle lingue locali, di materiale utile alla riflessione.

Numerose le iniziative ecumeniche in campo educativo
Quindi, l’organismo episcopale ricorda i tanti campi in cui i cristiani collaborano già in Kenya, come quello dell’educazione in cui operano, fianco a fianco, soprattutto cattolici e protestanti. Numerosi, ad esempio, i manuali religiosi per le scuole primarie e secondarie elaborati in ambito ecumenico, così come le Cappellanie universitarie di entrambe le confessioni attive insieme negli Atenei del Paese. Non solo: “L’Università cattolica dell’Africa orientale – informa la Commissione – ha diversi protestanti nel suo staff ed offre corsi di formazione sull’ecumenismo”, mentre iniziative di cooperazione cristiana ad ampio raggio si possono trovare negli ospedali e nelle carceri.

Cristiani uniti per aiutare i malati di Aids
Passi avanti in campo ecumenico si sono ottenuti anche grazie al Consiglio interreligioso del Kenya che, in rappresentanza di molte denominazioni cristiane, si adopera soprattutto nel combattere i pregiudizi di cui sono vittime i malati di Aids. Da segnalare, inoltre, le iniziative di singoli cristiani, come – ad esempio – la “Via Crucis ecumenica” che si tiene in alcune città del Paese, nel Venerdì Santo.

Tante le sfide ancora aperte
Nonostante i numerosi fattori positivi, tuttavia, la Chiesa di Nairobi non dimentica i tanti problemi ancora aperti sul cammino dell’unità dei cristiani: in particolare, viene messa in risalto la scarsa conoscenza dell’ecumenismo o, addirittura, il rifiuto di esso da parte di alcune “Chiese fondamentaliste” che intendono il cammino ecumenico, addirittura come “un anatema”. Ancora: la mancanza di un dialogo teologico ufficiale tra le Chiese del Paese rende difficile affrontare temi quali il celibato dei sacerdoti, i divorziati risposati e la Pastorale nei confronti delle persone omosessuali.

Il ricordo della visita del Papa, a novembre 2015
Anche i mass-media vengono chiamati in causa, in particolare quando offrono una testimonianza cristiana “settaria”, lontana dalla vera comunione ecumenica. Infine, ricordando la visita di Papa Francesco in Kenya, avvenuta a novembre 2015, i vescovi ne sottolineano l’importanza anche in ambito ecumenico, in special modo riguardo ai valori cristiani comuni da promuovere e tutelare. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 15

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.