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Sommario del 07/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: opere di misericordia, cuore della nostra fede

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Le opere di misericordia sono al cuore della nostra fede in Dio. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, la prima dopo la pausa natalizia. Soffermandosi sulla prima lettura, tratta dalla Prima Lettera di San Giovanni Apostolo, il Pontefice ha inoltre avvertito che bisogna guardarsi dalla mondanità e da quegli spiriti che ci allontanano da Dio che si è fatto carne per noi. Il servizio di Alessandro Gisotti

“Rimanere in Dio”. Papa Francesco ha sviluppato la sua omelia muovendo da questa affermazione di San Giovanni Apostolo nella Prima Lettura. “Rimanere in Dio – ha ripreso – è un po’ il respiro della vita cristiana, e lo stile”. Un cristiano, ha detto ancora, “è quello che rimane in Dio” che “ha lo Spirito Santo e si lascia guidare da Lui”. Al tempo stesso, ha rammentato Francesco, l’Apostolo mette in guardia dal prestare “fede a ogni spirito”. Bisogna dunque mettere “alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio. E questa è la regola quotidiana di vita che ci insegna Giovanni”.

Ma cosa vuol dire allora “mettere alla prova gli spiriti”? Non si tratta di “fantasmi”, ha tenuto a precisare il Papa: si tratta di “saggiare”, vedere “cosa succede nel mio cuore”, qual è la radice “di ciò che sto sentendo adesso, da dove viene? Questo è mettere alla prova per saggiare”: se quello che “sento viene da Dio” o viene dall’altro, “dall’anticristo”.

Discernere bene cosa accade nella nostra anima
La mondanità, ha così ripreso, è proprio “lo spirito che ci allontana dallo Spirito di Dio che ci fa rimanere nel Signore”. Qual è dunque il criterio per “fare un bel discernimento di quello che accade nella mia anima?”, si chiede il Papa. L’Apostolo Giovanni ne dà uno solo: “Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio, e ogni spirito che non riconosce Gesù non è da Dio”:

“Il criterio è l’Incarnazione. Io posso sentire tante cose dentro, anche cose buone, idee buone. Ma se queste idee buone, questi sentimenti, non mi portano a Dio che si è fatto carne, non mi portano al prossimo, al fratello, non sono di Dio. Per questo, Giovanni incomincia questo passo della sua lettera dicendo: ‘Questo è il comandamento di Dio: che crediamo nel nome del Figlio Suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri’”.

Le opere di misericordia sono al centro della nostra fede
Possiamo fare “tanti piani pastorali”, ha soggiunto, immaginare nuovi “metodi per avvicinarci alla gente”, ma “se non facciamo la strada di Dio venuto nella carne, del Figlio di Dio che si è fatto Uomo per camminare con noi, non siamo sulla strada del buon spirito: è l’anticristo, è la mondanità, è lo spirito del mondo”:

“Quanta gente troviamo, nella vita, che sembra spirituale: ‘Ma che persona spirituale, questa!’; ma non parlare di fare opere di misericordia. Perché? Perché le opere di misericordia sono proprio il concreto della nostra confessione che il Figlio di Dio si è fatto carne: visitare gli ammalati, dare da mangiare a chi non ha cibo, aver cura degli scartati … Opere di misericordia: perché? Perché ogni fratello nostro, che dobbiamo amare, è carne di Cristo. Dio si è fatto carne per identificarsi con noi. E quello che soffre è il Cristo che lo soffre”.

Se lo spirito viene da Dio mi porta al servizio degli altri
“Non prestate fede a ogni spirito, state attenti – ha ribadito il Papa – mettete alla prova gli spiriti per saggiare se provengono veramente da Dio”. E ha sottolineato che “il servizio al prossimo, al fratello, alla sorella che ha bisogno” che “ha bisogno, anche, di un consiglio, che ha bisogno del mio orecchio per essere ascoltato”, “questi sono i segni che andiamo sulla strada del buono spirito, cioè sulla strada del Verbo di Dio che si è fatto carne”:

“Chiediamo al Signore, oggi, la grazia di conoscere bene cosa succede nel nostro cuore, cosa ci piace fare, cioè quello che a me tocca di più: se lo spirito di Dio, che mi porta al servizio degli altri, o lo spirito del mondo che gira intorno a me stesso, alle mie chiusure, ai miei egoismi, a tante altre cose… Chiediamo la grazia di conoscere cosa succede nel nostro cuore”.

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Intenzione preghiera. Papa: dialogo tra religioni porti pace e giustizia

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“Il dialogo sincero tra uomini e donne di religioni differenti porti frutti di pace e giustizia”. E’ quanto auspica Papa Francesco in un videomessaggio con una meditazione sulla sua intenzione universale di preghiera per il mese di gennaio. Si tratta di un’iniziativa inedita promossa dall’Apostolato della Preghiera che ha chiesto al Papa di affidare le sue intenzioni mensili ad un breve videomessaggio, letto in spagnolo e tradotto in 10 lingue. Nel videomessaggio sono presenti esponenti di altre religioni - cattolica, ebraica, musulmana, buddista - ognuna delle quali professa fede nel proprio Dio e tutte insieme dichiarano di credere nell'amore. Sulle parole del Papa, il servizio di Alessandro Gisotti

“La maggior parte delle persone sulla terra si dichiarano credenti e questo dovrebbe portare a un dialogo tra le religioni”. Muove da una constatazione Papa Francesco nel suo primo videomessaggio per le intenzioni di preghiera mensili, dedicata in questo gennaio al dialogo interreligioso. Un tema particolarmente caro al Pontefice e di urgente attualità, in un mondo che vede purtroppo anche conflitti e violenze perpetrate in nome di Dio.

“Sólo con el diálogo, eliminaremos la intolerancia…”
“Solo attraverso il dialogo – è dunque il monito di Francesco – potremo eliminare l’intolleranza e la discriminazione”. Il dialogo interreligioso, prosegue il Papa, è “una condizione necessaria per la pace nel mondo”. E aggiunge che “non dovremmo smettere di pregare per questo e collaborare con chi la pensa diversamente”.

“Confío en vos para difundir mi petición…”
“Confido in voi – invita il Papa – per diffondere la mia petizione di questo mese: perché il dialogo sincero fra uomini e donne di religioni differenti porti frutti di pace e di giustizia”. Molti, sottolinea, “pensano in modo diverso, sentono in modo diverso. Cercano Dio o trovano Dio in diversi modi”. Alcuni, rileva, “si dicono agnostici, non sanno se Dio esiste o no. Altri si dichiarano atei”.

“En esta multitud, en este abanico de religiones…”
“In questa moltitudine – conclude Francesco – in questa ampia gamma di religioni e assenza di religioni, vi è una sola certezza: siamo tutti figli di Dio”.

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Usa. Papa crea Esarcato apostolico per siro-cattolici canadesi

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Negli Stati Uniti, Papa Francesco ha eretto l'Esarcato apostolico per i fedeli siro-cattolici residenti nel Canada, con territorio dismembrato dall'Eparchia Our Lady of Deliverance of Newark dei Siro-cattolici (Usa), con sede a Montréal (Québec). Come primo esarca apostolico, il Pontefice ha nominato il sacerdote Antoine Nassif, finora rettore del Seminario patriarcale di Charfet, in Libano. Mons. Nassif è nato a Beirut il 21 febbraio 1969. È stato ordinato nel 1992 per l'Eparchia patriarcale Siro-cattolica. Dopo l'ordinazione ha avuto diversi incarichi: Direttore della scuola di Charfet, Vice-Parroco in 2 parrocchie, Rettore del Seminario patriarcale di Charfet. Parla il francese, l'inglese e l'italiano.

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Ucraina. Shevchuk: il nostro è Natale solidale con gli sfollati

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Accogliamo i profughi, preghiamo per i nostri nemici. Non sono buoni propositi di inizio anno, ma una scelta concreta della Chiesa ucraina per rispondere col Vangelo al dramma del conflitto che ancora imperversa nel Paese. Una scelta voluta per festeggiare degnamente il Natale, che proprio oggi viene celebrato da molte Chiese orientali che seguono il calendario giuliano. Ne parla l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halyic, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, intervistato da Alessandro De Carolis

R. – Le circostanze drammatiche della guerra in Ucraina, nelle quali stiamo festeggiando il Natale quest’anno, ci portano al nucleo centrale della fede cristiana, cioè il Natale è la festa della presenza di Dio tra noi: non è una scienza astratta, è una Persona che nasce, una Persona divina. Ci sentiamo, perciò, veramente confortati per la presenza di Dio. Siamo sicuri che Dio è sempre con quelli che soffrono, con quelli che sono abbandonati, quelli che sono rifugiati. Dio con noi, quindi, come Bambino nato a Betlemme, è una speranza per il popolo ucraino. Questo è il pensiero con il quale stiamo celebrando il Natale quest’anno.

D. – La crisi che state vivendo non è più, spesso, in primo piano sui media internazionali, ma non per questo la vostra gente soffre meno. In che modo la Chiesa è vicina alle vittime di questo conflitto?

R. – Quelli che appaiono come personaggi centrali sui giornali sono i potenti di questo mondo. Molto spesso gli umili, gli emarginati, non appaiono più sulle pagine della stampa. La sofferenza del popolo ucraino, quindi, non fa più notizia. Questo, però, non significa che la guerra sia finita. Viviamo la più grande catastrofe umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: adesso in Ucraina abbiamo quasi due milioni di rifugiati, sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case. Io ho fatto dunque un appello, affinché in questa notte di Natale ogni famiglia credente accolga una famiglia di sfollati. Ho spiegato alla nostra gente che, accogliendo i senzatetto, noi accogliamo lo stesso Gesù che oggi nasce e si fa presente nella persona di colui che è più bisognoso. 

D. – Il Giubileo della Misericordia invita al perdono. In che modo questo messaggio particolare dell’Anno Santo entra nella vostra festa del Natale?

R. – Senza perdono, un popolo non può contrastare un’aggressione. La cosa più pericolosa è che durante la guerra la gente cominci a odiare e diventi così facile preda di quelli che se ne vogliono impadronire. Noi cristiani, perciò, specialmente in Ucraina, vivendo quest’Anno della Misericordia impariamo a perdonare anche quelli che ci aggrediscono. Durante il nostro Sinodo, ai Vespri, è stato fatto un appello: che ogni settimana - il martedì e il giovedì – si faccia tutti una preghiera per i nostri nemici. Pregando per loro impariamo a perdonare e anche ad amare nel modo cristiano.

D. – Quali sono i suoi auguri, gli auguri di Natale, che desidera rivolgere al suo Paese?

R. – Anzitutto, vorrei ribadire che il Natale è il mistero nel quale Dio, con la mano del tenero Bambino neonato, tocca le nostre paure, i nostri dolori, e per opera della misericordia divina li trasforma nella speranza e nella forza di amare. Allora, vorrei fare questo augurio: che ognuno senta questo tocco dell’amore divino e della sua misericordia.

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Card. Turkson in Cile: missione degli imprenditori è “cura”

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Interpretare il rapporto col mondo e con le persone “in termini di cura”. Questa l’esortazione del card. Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, agli imprenditori di tutto il mondo. Il porporato, richiamandosi agli insegnamenti di Papa Francesco, è così intervenuto alla Conferenza sul futuro delle corporazioni presso l’Università delle Ande, in Cile. Il servizio di Giada Aquilino

Da progresso, riduzione povertà ma anche esclusione sociale
La vocazione di un imprenditore è un “nobile lavoro”, da inquadrare in un significato più ampio della vita, tenendo presente che i progressi compiuti nei vari campi dell’agire umano grazie al ruolo fondamentale dell’imprenditoria moderna hanno ridotto la povertà per un grande numero di persone, ma non di rado hanno portato anche ad una diffusa esclusione sociale. Da questo concetto espresso da Papa Francesco, nel Messaggio del 2014 al World Economic Forum di Davos, è partita la riflessione del cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, intervenuto alla Conferenza sul futuro delle corporazioni in corso fino ad oggi all’Accademia internazionale di Management dell’Università delle Ande, a Santiago del Cile.

Rispondere a pressanti necessità umane
Il porporato ha infatti richiamato l’“approfondito esercizio di responsabilità” a cui il Pontefice esorta nei suoi interventi: se il denaro diventa un idolo, ha più volte sottolineato Francesco, comanda le scelte dell’uomo; oggi invece c’è bisogno di una qualità nuova di economia, che sappia far crescere le persone in tutte le loro potenzialità. La dignità umana, il bene comune, un’occupazione “sicura e stabile”, un’equa distribuzione delle ricchezze, il rispetto dell’ambiente sono solo alcuni degli aspetti che il card. Turkson ha messo in luce nel suo discorso, perché il mondo degli affari è chiamato a utilizzare la propria creatività - ha aggiunto - per rispondere alle “pressanti” necessità umane senza trascurare, in uno spirito di solidarietà, le esigenze dei poveri e dei soggetti vulnerabili.

Attività imprenditoriali in termini di “cura”
Considerazioni espresse pure dal dicastero vaticano in un vademecum di quattro anni fa, dal titolo “La vocazione del leader d’impresa”, rivolto - ha ricordato il cardinale Turkson - a dirigenti, manager e quanti impegnati “nella miriade di attività che siamo soliti chiamare ‘Business’”. Prendendo spunto dall’enciclica Laudato si’, il presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace ha esortato imprenditori e leader popolari a pensare al loro rapporto col mondo e con le persone “in termini di cura”, senza aspettare che sia “il mercato a decidere”, ma correndo “il rischio” di fare ciò che è giusto semplicemente “perché è giusto”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, La Chiesa brilla grazie a Gesù. Alla Messa dell’Epifania il Pontefice parla del cuore inquieto dei Magi. E all’Angelus rivolge gli auguri per il Natale ai fedeli delle Chiese orientali.

Sotto, Nuova provocazione di Pyongyang che minaccia la stabilità della regione. L’Onu condanna il test atomico nordcoreano.

Di spalla, Strappo tedesco sull’immigrazione, avanti da soli se non saranno applicate le misure dell’Ue.

In cultura, una pagina è dedicata agli esorcismi sul grande schermo, mentre a pagina 5 Lucio Coco approfondisce il tema delle migrazioni nella lezione dei Padri della Chiesa, Cristiana Dobner parla della rivista "Tsafon" che promuove il dialogo tra ebrei e cristiani e Marcello Filotei ricorda Pierre Boulez nell'articolo "Musica a emotività controllata".

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Oggi in Primo Piano



Parigi. A un anno da Charlie Hebdo polizia uccide attentatore

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Ancora paura in Francia, nel giorno del primo anniversario della strage al settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Un uomo ha tentato di entrare in un commissariato brandendo un coltello e gridando “Allah è grande”. È stato freddato dalle Forze dell’ordine, che gli hanno trovato addosso un finto giubbotto esplosivo. Il servizio di Francesca Pierantozzi

Un anno dopo, la stessa ora e la stessa paura a Parigi. François Hollande non ha quasi avuto il tempo di finire il discorso alla prefettura di Parigi, di dire quanto la minaccia terrorista sia ancora forte un anno dopo Charlie, di quanto continui a pesare sulla Francia, che dal 18.mo Arrondissement, dal popolare quartiere della Goutte-d’Or, è arrivata la notizia di una sparatoria in un commissariato. Un uomo ha tentato di penetrare nel commissariato della Rue Marcadet, aveva un coltello e una cintura esplosiva che poi si rivelerà finta. Ha gridato “Allah Akbar”, è stato abbattuto dai poliziotti. Sul posto è arrivato il prefetto di Parigi e anche il ministro dell’Interno Cazeneuve.

Quartiere blindato
L’intero quartiere che si trova alle pendici di Mont Martre e del Sacro Cuore è blindato: molti poliziotti in civile sono per la strada con l’arma in pugno. Gli alunni di due scuole vicino al commissariato sono confinati con gli insegnanti. A Parigi sono i giorni delle commemorazioni delle vittime degli attentati di un anno fa. Davanti ai poliziotti Hollande questa mattina ha parlato di una doppia battaglia: “Sul fronte esterno contro l’Isis in Siria e su quello interno - ha detto - dove dobbiamo smantellare reti terroristiche e anche bloccare la propaganda di radicalizzazione”.

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Charlie Hebdo. Mons. Pontier: impegno per la fraternità, no alla paura

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La Francia ricorda le vittime di “Charlie Hebdo” a un anno dall’attacco terroristico al giornale satirico. Un anniversario che avviene in un clima di tensione, dopo i sanguinosi attentati a Parigi del 13 novembre scorso. Sull’impegno della comunità cristiana a non lasciarsi vincere dalla paura e a costruire ponti di fraternità, Blandine Hugonnet ha intervistato mons. Georges Pontier, arcivescovo di Marsiglia e presidente della Conferenza dei vescovi di Francia:

R. – C’est sûr que c’est délicate cette question de la commemoration…
E’ sicuro che sia una questione delicata quella della commemorazione degli avvenimenti del 7 gennaio perché rapidamente all’epoca ci si è chiesti quanto tempo sarebbe durato questo lutto nazionale, questa unità nazionale che si è manifestata in particolare l’11 gennaio, e ci si è resi conto che si sarebbe spaccata abbastanza velocemente. Già in occasione del minuto di silenzio nelle scuole c’era stato un insieme di avvenimenti negativi, e in seguito molto rapidamente si è svegliato il fronte delle rivalità politiche, “politicanti”… Invece, quello che è importante, è guardare a che punto è oggi il nostro Paese, un anno dopo, anche dopo gli attentati del 13 novembre scorso; vedere quali sono le misure, i progressi, o al contrario gli interrogativi, visto che ci sono state divisioni provocate da questioni ideologiche: subito, il fattore religioso era stato indicato come fattore pericoloso da alcune correnti nella nostra società. E in tutto questo anno c’è anche questa tendenza che si esprime, che vuole fare attribuire al fattore religioso le cause di questi attentati e dei drammi nel mondo.  E questo è qualcosa che contestiamo profondamente: il fattore della fede non è un fattore di cui dobbiamo avere paura e al contrario bisogna rendersi conto di come sia fonte di socialità e del vivere insieme.

D.  – Qual è la posizione dei credenti oggi?

R.  – On est un peut etonnés que sans arrêt des débats sort…
Siamo un po’ stupiti del fatto che continuamente nascano dibattiti sulla laicità, la laicità, la laicità… Nessuno mette in discussione, tra i credenti, la laicità dello Stato, così come si esprime da oltre un secolo e nella quale di fatto ci troviamo bene; per contro, però, si approfitta di questa situazione per sollecitare una laicizzazione della società e dunque una rimozione di tutte quelle forme di espressione pubblica della  fede ed è là che si gioca uno degli aspetti dell’involuzione della nostra società.

D. – Cosa è cambiato oggi in Francia dopo gli attentati nel 2015?

R. – Ce qui a essentiellement progressé – c’est bien et c’est dangereux -…
Quello che è essenzialmente progredito - ed è un bene ma è anche pericoloso - è il fattore della sicurezza. Oggi quello a cui si attribuisce un valore essenziale è che in nome della sicurezza o della difesa della sicurezza tutto potrebbe essere giustificato. E’ certo dovere dello Stato di garantire la sicurezza dei suoi cittadini ma da lì ad avere questo come concetto principale rischia di essere a lungo termine deludente e pericoloso e possono nascere scissioni gravi.

D. – Un anno fa, il suo appello, insieme ai vescovi francesi, a resistere alla paura: qual è il suo messaggio oggi?

R. – Un an après c’est le constat que notre societé demeure fragile…
Un anno dopo c’è la constatazione che la nostra società rimane fragile, che la nostra società può “incendiarsi” abbastanza facilmente se non siamo vigili e che dunque la paura è sempre un fattore negativo perché ci pone gli uni contro gli altri e ci fa prendere decisioni che a volte sono irrazionali e irragionevoli, e questo è pericoloso. Bisogna dunque lavorare sempre nella linea dell’incontro, nella linea della fraternità… Abbiamo bisogno di tutti per riuscire a far vivere bene questo Paese ed è privilegiando la fraternità piuttosto che la paura che noi arriveremo a superare i momenti difficili che ci troveremo a vivere in Francia.

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Libia: camion bomba a Zilten, decine i morti

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Strage in Libia per l’esplosione di un camion bomba contro un Centro di addestramento della polizia nella città costiera di Zilten. Almeno 60 le vittime e 200 i feriti. Il servizio è di Eugenio Bonanata: 

L’attentato è avvenuto stamattina intorno alle 8,00 ora locale. Al momento dell’esplosione numerose reclute erano davanti all’ingresso della struttura, dove in questi giorni è in corso l’addestramento di circa 400 giovani reclute della Guardia costiera. Fonti ospedaliere hanno riferito dell’arrivo di numerose salme lanciando un appello per la raccolta di sangue. Smentita invece la notizia di un altro attacco in un secondo punto della città, che si si trova nella zona ovest della Libia a circa 35 chilometri da Misurata.  L’episodio arriva nel mezzo della campagna condotta dal sedicente Stato Islamico in Cirenaica, dove gli uomini di al-Baghdadi stanno concentrando le operazioni per conquistare i porti di Sidra e Ras Lanuf. Gli scontri degli ultimi giorni hanno provocato la morte di almeno 9 membri delle forze di sicurezza. 5 i terminal petroliferi dati alle fiamme. 

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Onu: pronte sanzioni dopo il test nucleare nordcoreano

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Cresce la preoccupazione dopo l’annuncio del test nucleare da parte della Corea del Nord. Pronte nuove sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre il presidente statunitense, Barack Obama, ha chiamato i leader di Corea del Sud e Giappone chiedendo una risposta forte e unitaria dalla comunità internazionale. A esprimere timori anche l’episcopato coreano che, attraverso monsignor Lazzaro Heung-Sik You, presidente della Commissione giustizia e pace, ha lanciato un appello alla preghiera. Sulla situazione, Eugenio Bonanata ha intervistato Dario Fabbri, analista di Limes: 

R. – Innanzitutto, dobbiamo specificare che non si sa bene di cosa si sia trattato. In Occidente, specialmente gli americani, sono molto scettici riguardo la possibilità che sia stata una bomba all’idrogeno, come è stato annunciato dalle autorità nordcoreane. Resta il fatto che il programma nucleare del Paese continua a progredire: questo è già un dato significativo a livello geopolitico perché la cosa più importante, a quanto pare, è che ormai Pyongyang non ha più intenzione di barattare il proprio programma nucleare, o meglio i test nucleari, in cambio di visibilità, di influenza o anche di derrate alimentari come succedeva fino a qualche anno fa, ma sembra disposta a costruire veramente una bomba da usare come deterrenza nei confronti di qualsiasi futuro attacco contro il Paese.

D. – Quindi, qual è il valore strategico del test? Cosa vuole Pyongyang?

R. – Pyongyang vuole mettersi al riparo da possibili “rivoluzioni colorate” – chiamiamole così, come si usa nell’ex spazio sovietico – o addirittura da un possibile attacco militare della Corea del Sud o del Giappone insieme sostenuti dagli Stati Uniti, che oggi pare una possibilità altamente improbabile, ma che un regno così avulso dalla realtà circostante come la Corea del Nord deve necessariamente tenere in considerazione. La bomba è in assoluto, agli occhi di Kim Jong-un, il migliore deterrente contro sviluppi di questo tipo.

D. – La Cina sembra aver voltato le spalle alla Corea del Nord. È davvero così?

R. – No, questo è impossibile. Per la Cina la Corea del Nord è un cuscinetto fondamentale; non può e non potrà mai voltargli le spalle. Che cosa significa? Senza la Corea del Nord di fatto la Cina arriverebbe a confinare con uno dei principali alleati degli Stati Uniti, ovvero la Corea del Sud. Se la Corea del Nord fosse inglobata in una Corea unita dominata da Seul, nella mentalità dei cinesi gli americani sarebbero a un passo dalla loro nazione. Quindi, ciò che fa la Cina come sempre in questi casi – essendo Kim Jong-un decisamente più intrattabile a quanto sembra del papà – è continuare a premere sul leader affinché non arrivi a un vero e proprio punto di rottura con l’intera comunità internazionale, mantenendo comunque contatti con lo stesso.

D. – Quindi, come possiamo valutare la condanna espressa da Pechino?

R. – La condanna espressa da Pechino probabilmente è dovuta al fatto che i cinesi non sono stati avvertiti in questo caso. Solitamente, quando ci sono questi tipi di test – i primi nel 2006, fino all’ultimo del 2013 – la Cina è sempre stata avvertita dalle autorità di Pyongyang. Invece, a quanto risulta, in questa vicenda non c’è stato un avvertimento. E questo è uno sgarbo molto grave, così viene interpretato – anche correttamente – dai cinesi, visto che di fatto non si possono definire alleati della Corea del Nord in quanto questa non ha essenzialmente alleati, ma sono l’unico Paese che mantiene un vero e proprio canale di comunicazione con Pyongyang.

D. – Cosa dire del ruolo della comunità internazionale in questa fase?

R. – Il discorso è che c’è veramente molto poco da fare nei confronti della Corea del Nord. Anche applicare sanzioni di tipo economico o finanziario ai danni del Paese è molto difficile. Di fatto, la Corea del Nord è un Paese iper-sanzionato. Si arriverebbe a misure come impedire alle navi nordcoreane di attraccare nei porti internazionali, che sarebbe qualcosa di veramente inaudito e probabilmente anche di inutile in questa fase. Ciò che la comunità internazionale può continuare a fare, al di là delle sanzioni, è provare a trattare, a negoziare necessariamente con uno Stato così psicotico e così assolutamente misterioso come rimane la Corea del Nord. Purtroppo, grandi margini di manovra nei confronti di Pyongyang non ci sono.

D. – Cosa ci dobbiamo aspettare in prospettiva?

R. – È difficile da dire in questa fase. Ciò che bisognerebbe scongiurare – ed è complicato da realizzare – è che la Corea del Nord arrivi realmente a costruirsi una bomba. Nella mentalità degli americani In definitiva, cioè di chi guida la cosiddetta comunità internazionale, questo è un fardello che dovrebbe accollarsi Pechino, cioè dovrebbero essere i cinesi a premere oppure a spiegare ai nordcoreani che non è necessario o conveniente costruirsi una bomba. Quindi, la Cina e solo la Cina potrebbe garantire alla Corea del Nord una tale sicurezza militare contro futuri attacchi da parte di potenze straniere così da persuadere Kim Jong-un a non dotarsi della bomba. Ma è evidente che siamo nel campo delle possibilità e degli auspici. Probabilmente, Kim Jong-un non ascolta neanche più di tanto le "sirene" cinesi e cerca di realizzare qualcosa che metta al riparo il suo regime da qualsiasi interlocutore e da qualsiasi antagonista.

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Borse europee in calo. Marseguerra: a rischio esportazioni Ue

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Giornata a dir poco nera per le Borse mondiali, dopo il crollo dei mercati finanziari cinesi. Milano perde più di due punti e mezzo, Francoforte oltre il 3% e Londra fa segnare un – 2,60%. Alessandro Guarasci: 

La minor crescita dell’economia cinese ha un effetto catastrofico sulla borsa di Shangai che ha perso il 7%. E l’effetto domino si è sentito su tutti i mercati mondiali. In Europa pesanti perdite, e anche gli Usa ieri hanno chiuso male. La Banca centrale cinese si è detta capace di mantenere lo yuan "a un livello ragionevole di equilibrio" e di fare fronte "a quelle forze che speculano" e "provano a trarre profitto" sulla moneta, svalutata nuovamente dall’istituto. Abbiamo sentito l’economista Giovanni Marseguerra, segretario del Comitato scientifico della fondazione pontificia Centesimus Annus

R. – La stessa Banca Mondiale ha ieri rivisto le sue previsioni di crescita per il 2016, e le ha riviste tutte al ribasso; in particolare la crescita mondiale è ora prefigurata al 2,9% soltanto. E tutto ciò in conseguenza al rischio che sta in questo momento coinvolgendo le economie di tutti i Paesi emergenti: il Brasile, la Russia; la stessa Cina è vista con una crescita che per i livelli e i ritmo cinesi  è molto ridotta.

D. – Quanto c’entra, però, un prezzo del petrolio così basso in questo calo dei listini che sta coinvolgendo non solo l’Europa?

R. – Certamente, il prezzo del petrolio così basso è una delle con-cause dello stato di incertezza globale. Il petrolio, ormai, il prezzo del barile sta scendendo al livello minimo di 30 dollari al barile – ormai siamo lì: siamo a 32, 31, in alcuni mercati già siamo sotto i 30. Certamente, dal punto di vista dell’equilibrio geo-politico è un fattore di grande incertezza. D’altro canto, non possiamo dimenticarci che il contesto geo-politico è fortemente caratterizzato da incertezza, perché tra Arabia Saudita e Iran ci sono i contrasti che tutti sappiamo, tra la Russia e la Turchia ci sono i contrasti che tutti sappiamo, l’esperimento nucleare della Corea del Nord certo non semplifica … Quindi, è un contesto geo-politico straordinariamente complicato e foriero di ulteriori aggravamenti. Non dimentichiamo che l’Arabia Saudita e l’Iran sono i pezzi forti dell’Opec, del cartello dei produttori di petrolio.

D. – Lei vede l’Europa in questo momento particolarmente esposta a un rallentamento dell’economia, se la situazione in Cina dovesse ulteriormente precipitare?

R. – I Paesi, le aree economiche sono fortemente interconnesse. In questo momento, le previsioni per l’Europa non sono particolarmente negative, in particolare l’eurozona dovrebbe crescere anche nel 2016 intorno all’1,7%, che per i livelli nostri è un buon livello. Ma non bisogna dimenticare che il mercato asiatico e anche il mercato americano pesano fortemente sulle esportazioni dell’Ue e anche dell’Italia in particolare. Quindi, finora il rialzo del dollaro ha favorito le nostre esportazioni verso gli Stati Uniti. Cosa succederà nel caso di un calo della domanda americana, nel caso di un ulteriore calo della Cina? Sono tutte cose che fanno preoccupare, anche perché da noi i margini di manovra di politica monetaria sono ormai ridotti a zero: con il “quantitative easing” della Bce in piena attività, non ci sono più spazi di manovra dal punto di vista della politica monetaria …

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Lampedusa, rientra la protesta. Il parroco: persone, non merce

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Sono rientrati nell’hotspot di Lampedusa i circa 200 migranti, perlopiù eritrei, che sino a ieri hanno trascorso notti e i giorni all’addiaccio per non farsi prendere le impronte digitali, come imposto dalle norme comunitarie. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Hanno lasciato i loro ripari di fortuna e sono tornati nell’hotspot, dopo aver trascorso ore davanti alla chiesa di Lampedusa, senza però entrare, nonostante i portoni aperti tutta la notte e nonostante il maltempo. A garantire loro un pasto caldo e coperte ci hanno pensato gli abitanti dell’isola, mentre a mediare per far rientrare la protesta, sono stati il sindaco Giusy Nicolini, il parroco don Mimmo Zambito, e don Mussie Zerai, collegato con loro telefonicamente dalla Svizzera. Hanno marciato in corteo, sfidando la pioggia pur di non intingere le loro dita nell’inchiostro, unico modo per andar via da Lampedusa, ma anche salto verso l’ignoto, perché tutti loro sanno che sarà difficile, se non impossibile, andare laddove vorrebbero, nei Paesi dell’Europa del nord, consapevoli che il rischio è di ritrovarsi bloccati chissà dove per mesi per le falle nelle procedure di ricollocamento. Rispettate i nostri diritti, chiedono, rispettate i loro diritti, invoca il parroco, don Mimmo Zambito:

“I nostri amici profughi ci hanno detto: 'Noi non ci rifiutiamo di dare le impronte e di essere identificati, è che non abbiamo alcuna certezza'. Si trovano ad affrontare un procedimento che attualmente ha numerose falle e incertezze. Quando dico questo sto citando il ministro degli Interni che dice che serve un quadro normativo sugli hotspot. Non si può pensare che questi profughi e migranti possano buttarsi a capofitto nelle mani di coloro che non dicono, perché non lo sanno neanche loro, qual è la prassi successiva. Cioè, non c’è un iter definito relativamente alla identificazione, alla ricollocazione, alla dichiarazione dello status di rifugiato politico o di soggetto di protezione internazionale. Quindi, c’è un vuoto legislativo, c’è un vuoto amministrativo e poi, ovviamente, c’è una difficoltà da parte degli operatori a dare delle risposte soddisfacenti.

La mia sensazione è che ci sia un grado di risolutezza da parte loro (dei migranti - ndr) nel non dare le impronte. Ovviamente, parte di loro, come è successo nel passato, a un certo punto cederà perché restano bloccati all’interno dell’hotspot fino a quando non danno le impronte, poi vengono portati nell’hub in provincia di Agrigento, in un centro di un paese che si chiama Siculiana, e da lì iniziano questo procedimento che però, allo stato attuale, non è definito con certezza dalle disposizioni europee e italiane. Stiamo parlando di nonne, di bimbi, che si trovano bloccati ad un passaggio per il quale mancano le disposizioni. Queste persone che da un mese sono lì, trattenute all’hotspot, cosa sono? Cittadini, sudditi, merce?”

Questo quadro normativo sull’hotspot, denuncia don Zambito, non essendo definito calpesta i diritti non solo delle persone migranti, ma anche dei cittadini europei.

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Lavoro. Disoccupazione all'11,3%, ai minimi da tre anni

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Lieve calo della disoccupazione media nell’Eurozona, che al 10,5% a novembre è tornata ai minimi da oltre 4 anni. I dati diffusi da Eurostat contano 16 milioni di disoccupati, 130 mila in meno rispetto ad ottobre scorso. Germania, Repubblica Ceca e Malta sono i Paesi con il tasso più basso. In calo anche la disoccupazione giovanile, al 20% nell’Ue. L'Italia, pur riducendo il tasso al 38,1%, si conferma come uno dei Paesi in cui i disoccupati sotto i 25 anni sono di più. Nonostante la disoccupazione sia ai minimi dal 2012, solo un laureato su due trova lavoro. Tornano invece a crescere gli occupati, 36 mila persone in più hanno trovato un impiego soprattutto grazie all’aumento dello 0,3% delle assunzioni a tempo indeterminato. Quanta rilevanza hanno avuto in questa crescita il "Job's Act" e gli sgravi contributivi per dipendenti permanenti varati dal governo? Veronica Di Benedetto Montaccini lo ha chiesto all'economista, Claudio Lucifora 

R. – L’Europa dice che l’Italia è il fanalino di coda tra i Paesi europei in questa fase di ripresa, però i dati confermano in modo abbastanza solido questa leggera ripresa. Il "Job’s Act" non crea di per sé posti di lavoro, questo è stato ribadito da tutti, però non c’è dubbio che possa generare e infondere un po’ di ottimismo e incutere meno timore nelle imprese nell’avviare delle assunzioni.

D. – Si nota l'aumento degli occupati a tempo indeterminato in questi dati Istat. Ma questi sgravi fiscali per le assunzioni permanenti varate dal governo non rischiano di gonfiare l’economia?

R. – Non c’è dubbio che gli incentivi fiscali messi in campo dal governo determinino una componente rilevante di queste trasformazioni. Sono stati introdotti dal governo perché riteneva che ci fosse bisogno di uno shock. Sono stati molto generosi, molto estesi nella loro applicabilità. Ora, il governo li ha già ridotti per il prossimo anno, invece di eliminarli completamente. Vedremo quanto la crescita sia stata "drogata" dall’esistenza di questi incentivi, oppure quanto invece sia effettivamente una crescita dell’occupazione.

D. – La disoccupazione giovanile è scesa dell’1,2%, ma questo è in contraddizione con i dati che riguardano invece i laureati che riescono a trovare lavoro, solo il 53% dei giovani trova lavoro entro i tre anni dalla laurea...

R. – La disoccupazione giovanile – cioè, il tasso di disoccupazione di chi è al di sotto dei 25 – è un indicatore molto, molto importante, ma anche molto sensibile perché una quota rilevante di questa fascia di popolazione è ancora impegnata nello studio. E quindi il fatto che diminuisca è sicuramente un buon segnale. Questa quota di disoccupazione giovanile dovrebbe essere molto sensibile al ciclo, quindi è quella che aumenta molto di più quando le cose vanno male ma è quella che dovrebbe diminuire di più quando le cose vanno bene. L’Italia è un caso anomalo, perché il tasso di disoccupazione dei lavoratori più qualificati – tra questi ci sono sicuramente i laureati – in tutti gli altri Paesi è bassissimo, in Italia invece i laureati continuano a far fatica ad inserirsi nel mercato del lavoro. Questo dipende da quello che gli economisti chiamano il “mismatch”, cioè la difficoltà d’incontro tra la domanda e l’offerta, perchè i giovani sono sovraqualificati rispetto alle mansioni disponibili.

D. – Secondo lei, per quale motivo siamo gli ultimi in Europa, per quanto riguarda il diminuire della disoccupazione?

R. – In Italia, la disoccupazione è cresciuta più lentamente ma progressivamente durante la crisi. l’Italia, all’inizio, non aveva un tasso di disoccupazione così elevato come la Spagna, la Francia o il Portogallo, altri Paesi hanno avuto una disoccupazione molto elevata, ma è calata improvvisamente. In Italia ci sono molte inerzie, c’è molta contrattazione, e quindi la disoccupazione sale più lentamente ma ha continuato a salire anche quando negli altri Paesi la disoccupazione era già scesa. Il fatto che adesso incominci a scendere è sicuramente un buon segno, ma denota innanzitutto l'inzerzia dell'Italia e in secondo luogo una disoccupazione che ci portiamo dietro da decenni, che ormai sembra essere strutturale nel nostro Paese.

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Nella Chiesa e nel mondo



Coree. Vescovo You: con le armi nucleari non arriva la pace

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Un appello di preghiera perché la situazione in Corea del Nord è difficile e tutti devono essere consapevoli che “con le armi nucleari non arriverà la pace”, perché “il Signore, re della storia, aiuti ad aprire i cuori dei politici”. A lanciarlo dalla diocesi coreana di Daejeon è mons. Lazzaro Heung-Sik You, presidente della Commissione giustizia e pace dei vescovi coreani, reagendo così al nuovo test nucleare compiuto ieri dal governo di Pyongyang, questa volta – a detta della Corea del Nord – con la bomba a idrogeno, il più potente degli ordigni atomici. 

Mons. You: no al nucleare e si al dialogo politico
Il vescovo cattolico - riferisce l'agenzia Sir - conferma che ieri nella penisola coreana si è sentita la scossa di terremoto ma che “il popolo coreano ha fatto esperienza molte volte di queste situazioni” e quindi sta reagendo con “calma” alla nuova situazione di crisi. E aggiunge: “Il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon desiderava fare una visita in Corea del Nord, ma questa cosa rompe il filo del dialogo e rende la pace più lontana. Invece di favorire il processo di credibilità reciproca, crea più tensione”. Il vescovo lancia un appello perché “non si giochi con il nucleare e si intraprenda sempre il dialogo politico”.

Solo il Signore può muovere i cuori dei politici
“Oggi ho pregato – racconta mons. You – perché tutti sapessero che con le armi nucleari non arriverà la pace. Solo con il dialogo reciproco si può trovare la linea giusta per convivere insieme. In questo senso sento molto forte l’Anno della Misericordia, avere misericordia nella verità”. Che significa per la Corea? “Significa – risponde il vescovo – trovare quello che ci accomuna: siamo figli della stessa famiglia, parliamo la stessa lingua, siamo fratelli che vivono sperati nel Nord e nel Sud. Solo mettendosi nella posizione dell’altro, si può intraprendere il cammino del dialogo verso la pace. La situazione in Corea del Nord non è facile. Non so dove sia la via della pace. Solo il Signore, che è il re della storia, lo sa. Quindi solo Lui può muovere i cuori dei politici. Noi preghiamo il Signore perché aiuti ad aprire i cuori dei politici”. (R.P.)

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Allarme vescovi Etiopia: 10 milioni di persone vittime di carestia

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Sono oltre 10 milioni gli abitanti dell’Etiopia minacciati dalla carestia, provocata da una grave siccità: a ricordarlo è la Conferenza episcopale locale, in una nota diffusa al termine della 38.ma Assemblea ordinaria, svoltasi nei giorni scorsi ad Addis Abeba. Nel documento, i presuli esortano le agenzie cattoliche, le ong e le persone di buona volontà ad affrontare l’emergenza, per salvare la vita delle persone più a rischio. “La siccità – scrivono i vescovi etiopi – sta avendo gravi conseguenze sulla vita della popolazione”, costretta ad affrontare “la carenza di cibo”.

Siccità, diretta conseguenza di cambiamenti climatici e degrado ambientale
Non solo: i presuli sottolineano che la siccità “è una diretta conseguenza dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale”, ed ha creato “una situazione di emergenza mai sperimentata prima nel Paese”. Citando, quindi, quanto scritto da Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si’ sulla cura della casa comune”, ovvero che “molti poveri vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali” (n.25), la Chiesa di Addis Abeba sottolinea che “per rispondere alla crisi alimentare nel Paese occorrono 1,4 miliardi di dollari”.

La Chiesa sempre impegnata ad aiutare i più vulnerabili
Per questo, la Chiesa cattolica esprime apprezzamento per gli sforzi portati avanti dal governo locale e dalle organizzazioni umanitarie “impegnati a salvare la vita di coloro che vivono nelle aree colpite dalla siccità”. Dal canto loro, i vescovi si impegnano “a fare la loro parte nel cercare di raggiungere tutte le comunità più vulnerabili con progetti di risposta all’emergenza”, anche attraverso “il recente appello lanciato dalla Caritas Internationalis per una raccolta fondi” destinata all’Etiopia.

Oltre 800mila persone costrette a migrare altrove: unità familiare a rischio
I presuli, poi, esprimono preoccupazione per le famiglie, in particolare quelle povere, costrette a migrare a causa della carestia, ed a vivere “con grande incertezza il futuro loro e dei loro figli”. Oltre 821mila persone, attualmente, sono “sfollate a causa della siccità, della carestia e dei conflitti” – sottolinea la Chiesa etiope – lanciando l’allarme anche per i tanti giovani che “corrono il rischio di migrare altrove, attraverso mezzi illegali, in cerca di un lavoro e di una vita migliore”. Una situazione che lascia soli ed abbandonati i genitori, le mogli, le giovani donne, tutti lontani dai figli, dai mariti e dagli uomini che spesso sono gli unici “a portare il pane quotidiano in casa” ed a difendere le ragazze “da violenze ed abusi”.

Fornire alla popolazione cibo, cure mediche, bestiame
Di qui, l’appello a tutti gli attori in causa – Chiesa, governo e privati - affinché “si colmino le carenze umanitarie di questa emergenza, fornendo alla popolazione non solo cibo, ma anche cure sanitarie, controllo delle malattie e la possibilità di ripopolare il bestiame”. Infine, i presuli chiedono alla rete Caritas di supportare “generosamente” le comunità colpite dalla carestia, ribadendo che “non viene sottolineata mai abbastanza la necessità di azioni umanitarie immediate e continuative per salvare vite ed assicurare un sistema sostenibile alle famiglie”.

460mila euro donati da "Aiuto alla Chiesa che soffre"
E tra i primi organismi a rispondere all’appello dei vescovi etiopi c’è la fondazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” (Acs), che ha stanziato un nuovo contributo di 460mila euro in favore delle 13 diocesi dell’Etiopia. Tale contributo  sosterrà 1.415 famiglie per l’intero 2016. “La situazione continua a peggiorare drammaticamente – racconta ad Acs padre Haile Gabriel Meleku, vicesegretario generale della Conferenza episcopale etiope – Le persone a rischio sono oggi due milioni in più rispetto ad appena un mese fa. Ed il numero potrebbe essere perfino superiore di quanto crediamo”.

Allarme per abbandoni scolastici e rischio conflitti civili
​Tra le conseguenze più gravi, padre Meleku indica l’abbandono scolastico da parte di molti bambini e l’insorgere di conflitti all’interno della popolazione, dovuto al fenomeno migratorio. “La catastrofe si avverte in ogni luogo”, sottolinea ancora il sacerdote; anche la Chiesa ne subisce i drammatici effetti perché molti fedeli non hanno più le forze per partecipare alle celebrazioni. Da ricordare che l’Etiopia è uno dei maggiori destinatari degli aiuti di Acs, che nel 2014 ha donato alla Chiesa locale oltre un milione e 200mila euro. (A cura di Isabella Piro)

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Usa: i vescovi con Obama per limitare la vendita delle armi

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I vescovi degli Stati Uniti salutano il nuovo pacchetto di misure esecutive decise dal Presidente Barack Obama per cercare di ridurre la violenza causata dalle armi da fuoco nel Paese. L’obiettivo del provvedimento,  senza toccare il secondo Emendamento della Costituzione Usa che riconosce il diritto agli americani di possedere armi, è di rendere più difficile il loro acquisto da parte di persone che, ad esempio, hanno disturbi mentali.  

Un’iniziativa ragionevole per salvare vite umane
“Se è vero che nessuna misura può eliminare tutti gli atti di violenza commessi con le armi da fuoco, salutiamo questo sforzo ragionevole di salvare vite umane e rendere più sicure le nostre comunità”, ha dichiarato mons. Thomas Wenski,  presidente del Comitato per la giustizia nazionale e lo sviluppo umano  della Conferenza episcopale (Usccb). “La nostra speranza – ha aggiunto - è che il Congresso intervenga  in maniera più decisa su questo problema, considerando tutti i suoi vari aspetti”. Per l’arcivescovo di Miami, oltre a una regolamentazione ragionevole, è anche necessario “un dibattito sul potenziamento dei servizi sanitari per persone con disturbi mentali, tenendo presente che la probabilità che un malato psichico commetta un crimine è comunque limitata”.

L’accusa del vescovo di Dallas al Congresso “venduto alla lobby delle armi”
Dello stesso avviso mons. Kevin Farrell, vescovo di Dallas che nel suo blog ha chiamato in causa le responsabilità del Congresso, accusandolo di “essersi venduto alla lobby delle armi”. Il presule ha inoltre annunciato che, nonostante la nuova legge che in Texas permette di andare in giro con la propria pistola senza neanche nasconderla, le armi non saranno ammesse in tutte proprietà delle diocesi: “Questa politica – scrive – si basa sulla convinzione che le nostre chiese, scuole e altri luoghi di culto sono aree sacre dove la gente viene a pregare e a partecipare al ministero della Chiesa”.

La maggioranza dei cattolici favorevole a misure più restrittive sulle armi
Secondo un’indagine condotta dall’agenzia americana Religion News Service (Rns), nel 2013 il 62% dei cattolici negli Stati Uniti erano a favore di un controllo più rigido delle armi. Eppure, nonostante ogni anno nel Paese più di 30mila persone vengano uccise da armi da fuoco, i sondaggi dicono che nell’opinione pubblica americana cresce la volontà di armarsi dopo ogni strage. Una volontà assecondata dalla politica sensibile alle pressioni delle lobby delle armi. Basti pensare che pochi mesi dopo la strage di Newtown, in Connecticut, nel dicembre 2012, in cui rimasero uccise 27 persone, tra le quali 20 bambini, il Senato a maggioranza repubblicana bocciò la proposta di legge che avrebbe reso obbligatori i controlli sull’identità dei possibili acquirenti di armi. (A cura di Lisa Zengarini)

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Natale a Baghdad: gesti di pace fra cristiani e musulmani

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Un Natale di “pace e misericordia”, una festa vissuta “nella preghiera e nella celebrazione interiore serena” con le chiese di Baghdad gremite di fedeli, che hanno partecipato alle funzioni “con tanta fede e tanta speranza”. Così il Patriarca caldeo Mar Louis Raphael Sako racconta all'agenzia AsiaNews le giornate di festa che la comunità cristiana della capitale irakena ha vissuto - e in molti casi condiviso - con la maggioranza musulmana. La nascita di Gesù e le celebrazioni per l’inizio dell’Anno giubilare sono diventate occasione di incontro, confronto e solidarietà perché “questi nostri gesti concreti di misericordia creano contatti” fra comunità, sono “ponti fra noi nonostante le mille difficoltà e i muri”.

Le chiese gremite di fedeli
A Baghdad la Chiesa caldea è formata da 30 parrocchie e vi sono 35 altre chiese affiliate alla comunità guidata da Mar Sako, il quale ha celebrato la Messa del Natale “in sette chiese diverse”. Il Patriarca racconta di luoghi di culto gremiti “da gente con così tanta fede e tanta speranza”, e che si augura che “questo 2016 possa essere un anno di pace, anche se restano le tensioni”.

Gli auguri dei cittadini musulmani
“La gente - sottolinea il presule - ha la pace nel cuore e prega con fervore che si diffonda presto in tutto il Paese”. Un sentimento condiviso non solo dai cristiani, ma anche dalle “tante famiglie musulmane che hanno partecipato alla Messa della mezzanotte, tanta gente semplice - aggiunge Mar Sako - che è venuta a portarci dei fiori e a scambiare gli auguri”. Persone semplici, cittadini, non autorità o capi religiosi, tiene a precisare il Patriarca caldeo, che non ha accettato auguri e doni di “leader religiosi e politici” per i molti problemi irrisolti che continuano ad affliggere i cristiani e l’Iraq.

Il Patriarca Sako: la denuncia dei mali che affliggono la società irachena
Del resto nella sua lettera pastorale ai fedeli, diffusa alla vigilia delle feste, Mar Sako non aveva mancato di ricordare e denunciare una volta di più i molti mali che ancora oggi affliggono la società, alcuni dei quali colpiscono in particolare i cristiani: i profughi fuggiti da Mosul e dalla Piana di Ninive con l’arrivo del sedicente Stato Islamico nell’estate del 2014, le famiglie oggetto di attacchi mirati ed espropri da parte di delinquenti e gruppi estremisti, l’islamizzazione dei figli e l’atteggiamento di chiusura in alcune componenti dell’islam. “Noi aspettiamo un vero e concreto cambiamento dell’Iraq, una cultura nuova - afferma - non solo nei discorsi e nelle dichiarazioni di facciata”.

Aiutate 2mila famiglie cristiane, musulmane e yazide
In queste giornate di festa la Chiesa caldea e la comunità cristiana hanno promosso molte iniziative a sostegno dei poveri, degli emarginati e delle persone in difficoltà, senza fare distinzioni di fede o di etnia. “Come gesto per incarnare il messaggio del Natale - racconta Mar Sako - abbiamo aiutato 2mila famiglie cristiane, musulmane e yazide a Baghdad, distribuendo somme di denaro per soddisfare le necessità quotidiane. Un modo per testimoniare con i fatti il nostro essere fratelli”.

L'aiuto a 385 studenti di famiglie sfollate
La Chiesa caldea di Kirkuk aiuta da qualche tempo 385 studenti provenienti da famiglie di sfollati, “in maggioranza cristiani, ma non mancano anche musulmani e yazidi”. Il patriarcato contribuisce “al pagamento dell’alloggio, affitta le case, contribuisce al vitto e alle piccole necessità, dando loro il modo di proseguire gli studi”. Nel solco di questi gesti concreti di misericordia si inserisce, prosegue il Patriarca Sako, “la celebrazione del 24 dicembre in un campo profughi di Baghdad, che accoglie 130 famiglie di Mosul e 40 studenti universitari. Ho offerto una cena e un po’ di soldi e aperto la Porta Santa in una tenda del campo, distribuendo ai bambini i dolci che mi aveva inviato il card. Fernando Filoni, prefetto di Propaganda Fide, come segno di solidarietà della Santa Sede”. 

Gesti di misericordia che creano speranza nel popolo iracheno
“Questi nostri gesti concreti di misericordia - afferma il capo della Chiesa irachena - creano contatto e servono davvero a formare legami, condivisioni, desiderio di incontro”. Questa esperienza, in alcuni casi, diventa “un segno tangibile di speranza. Una risposta alla logica di guerra e vendetta, alla mancanza di misericordia, di perdono e di riconciliazione che sono i mali che, da troppo tempo, affliggono l’Iraq e lo affossano in una spirale di violenza e terrore. Tuttavia questo elemento della riconciliazione, seppur auspicabile, è ancora molto lontano”.

Appello per una maggiore apertura di un islam fondamentalista
Infine, il patriarca caldeo racconta un ultimo episodio legato a queste feste di Natale che lo ha riempito di gioia e soddisfazione: “La sera del 31 dicembre abbiamo camminato per alcune vie di Baghdad, senza scorta né misure di sicurezza. Il nostro voleva essere un messaggio, un gesto per dire che noi cristiani ci siamo e siamo per tutti, con tutti. Per l’occasione quattro milioni di abitanti, in maggioranza musulmani, sono usciti per strada a celebrare il capodanno. Ho incontrato donne, bambini, soldati, gente venuta da Bassora e Najaf per festeggiare il nuovo anno della ‘nascita  di Gesù’. E ancora - conclude Mar Sako - in un'intervista ad un programma tv molto seguito ho parlato in modo forte contro un islam chiuso e fondamentalista, auspicando un aggiornamento e una maggiore apertura. Tanti mi hanno ringraziato, soprattutto fra i musulmani”. (D.S.)

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Egitto: al-Sisi alla Veglia di Natale nella cattedrale copta

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Il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha preso parte alla veglia per la solennità del Natale celebrata dal Patriarca copto ortodosso Tawadros II nella cattedrale cairota di San Marco a partire dalla tarda serata di mercoledì 6 gennaio. Il Capo di Stato, alla fine della celebrazione - riporta l'agenzia Fides - si è anche rivolto al microfono al Patriarca, al clero e ai fedeli che erano presenti in massa alla celebrazione. 

Le scuse per i ritardi nella riparazione delle chiese distrutte dalla violenza fondamentalista
Nel suo discorso di saluto e di felicitazioni – riferiscono fonti locali - al-Sisi ha fatto riferimento anche agli attacchi subiti dalle chiese e dalle comunità cristiane egiziane da parte dei gruppi estremisti di marca islamista, e si è scusato per i ritardi registrati nella riparazione delle chiese distrutte soprattutto durante i disordini dell'agosto 2013, quando una cinquantina di istituzioni e luoghi di culto cristiani vennero assaltati e devastati da bande di facinorosi legati ai Fratelli Musulmani e ai gruppi salafiti.

Forti misure di sicurezza in cattedrale per il rischio attentati
La moltitudine dei fedeli ha riservato al Presidente al-Sisi una accoglienza tanto entusiasta da rendere complicata la sua uscita dalla cattedrale. Il personale della scorta presidenziale è dovuto ricorrere a un'uscita secondaria per consentire al Presidente di allontanarsi dal luogo di culto cristiano. La Messa nella cattedrale è stata celebrata tra strette misure di sicurezza, per prevenire il rischio di attentati terroristici.

Anche lo scorso anno al-Sisi aveva partecipato alla Veglia di Natale
​Già nel gennaio 2015 al-Sisi aveva preso parte nella medesima cattedrale alla Messa di Natale, che la Chiesa copta celebra seguendo il calendario giuliano. Quella dello scorso anno era stata la prima partecipazione di un Presidente egiziano alla solennità liturgica che celebra la nascita di Gesù. (G.V.)

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La Croix su copertina Charlie Hebdo: non è Dio a uccidere ma gli uomini

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“Non è Dio ad uccidere, sono gli uomini”. Lo scrive Guillaume Goubert, direttore del quotidiano cattolico francese “La Croix”, nell’editoriale dedicato alla vignetta di Charlie Hebdo dal titolo: “Charlie Hebdo, un dio assassino?”. “Il fumettista Riss – scrive il direttore ripreso dall’agenzia Sir – ha scelto di disegnare Dio come un assassino che corre sempre, rappresentandolo in maniera tipicamente cristiana. Tanto meglio, perché dà a un quotidiano cattolico più libertà per commentarlo che se fossero state tirate in causa altre religioni. Lo commenteremo senza indignazione, in rispetto di coloro che sono morti, per il dolore dei sopravvissuti e perché il rifiuto della violenza è nel cuore della nostra fede”.

Grandi eroi della non violenza erano uomini e donne di fede
“Non è Dio ad uccidere – si legge ancora nell’editoriale – sono gli uomini. E gli uomini non hanno bisogno di Dio per farlo. Le ideologie più violente del ventesimo secolo, il nazismo e lo stalinismo, non avevano nulla di religioso, erano addirittura anti–religiose. Certo, nel corso della storia, la religione è stata, purtroppo, un fattore di violenza e lo è ancora in molti luoghi. Ma la religione non spiega tutto. Si parla molto oggi del confronto tra l’islam sunnita e sciita. Sarebbe forse più giusto evocare la rivalità tra il mondo arabo e persiano”. Ed aggiunge: “Non è Dio ad uccidere, sono gli uomini. Ma Dio ha bisogno degli uomini per fare il bene. Molti lo fanno. Grandi eroi della non violenza erano uomini e donne di fede: Gandhi, Martin Luther King, Dorothy Day, Lech Walesa. Molti sono coloro che giorno dopo giorno trovano nella loro fede non un carburante all’odio ma l’energia e il coraggio del perdono. Dio sa quanto il mondo ha bisogno di loro”. (L.Z.)

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Filippine: 12 milioni di fedeli per processione Nazareno Nero

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Più di 12 milioni di fedeli da tutte le Filippine sono attesi a Manila per la tradizionale processione del Nazareno Nero, celebrata il 9 gennaio. Come ogni anno, i pellegrini accompagneranno a piedi nudi il simulacro - una copia dell’originale - dal centro della capitale alla Basilica di Quiapo, dove viene conservata la statua lignea a cui si attribuiscono poteri miracolosi.  Per l’evento, ha spiegato a una conferenza stampa il Rettore del Santuario, mons. Hermando Coronel citato dall’agenzia Ucan, sono previste imponenti misure di sicurezza, con 1.400 poliziotti dispiegati lungo tutto il percorso.

L’evento religioso più importante del Paese
La processione è l'evento religioso più importante del Paese. La devozione alla statua,  che rappresenta Gesù piegato sotto il peso della Croce a grandezza naturale, risale al XVII secolo, quando le Filippine erano sotto il dominio della Spagna.  Essa fu infatti portata a Manila da un sacerdote agostiniano spagnolo nel 1607 a bordo di una nave proveniente dal Messico. Secondo la tradizione l'imbarcazione prese fuoco durante il viaggio, ma l'immagine del Cristo scampò miracolosamente all'incendio assumendo il colore nero. Nonostante il danno, la popolazione di Manila decise di conservare e onorare l'effigie. La devozione suscitata dall’icona ha incontrato il favore della Santa Sede, che nel 1650 , sotto il pontificato di Innocenzo X, istituì canonicamente la Confradia de Jesus Nazareno. Anche Pio VII, nel XIX secolo, volle onorare il Nazareno Nero concedendo l’indulgenza plenaria “a chi lo prega in maniera pia”.

Il Nazareno Nero è uno dei simboli del popolo filippino
​Nei secoli l'aura miracolosa che circonda l'immagine del Cristo ne ha fatto uno dei simboli del popolo filippino. Alla processione dell’anno scorso a Manila hanno partecipato 12 milioni di persone, due in più dell’anno precedente.  (L.Z.)

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Jrs: affrontare “l'emergenza scolastica” dei bambini siriani

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Sono circa 2,8 milioni i bambini siriani che non vanno a scuola a causa della guerra. 550mila di loro sono rifugiati in Libano. Il Centro del Jesuit Refugee Service (Jrs) operante a Jbeil - riferisce l'agenzia Fides - garantisce assistenza scolastica a 500 bambini siriani, offrendo loro anche il sostegno psicosociale. Un'esperienza che permette di toccare con mano la vera e propria “emergenza scolastica ed educativa” che occorre affrontare con urgenza, se non si vuole compromettere il futuro di intere generazioni di giovani siriani.

Bambini sconvolti dalla guerra e dalla violenza domestica
Dal resoconto delle attività del Centro Jbeil, diffuso dal Jrs, emerge che tutti i bambini assistiti sono stati colpiti in maniera più o meno traumatica dalle conseguenze della guerra. Alcuni di loro hanno sperimentato la violenza domestica, e la maggior parte attualmente vive in case inadatte o sovraffollate. Nella gran parte dei ragazzi, il vissuto traumatico ha conseguenze negative sul piano del comportamento, a cominciare dall'incapacità stessa di stare in classe. Una condizione che va affrontata con molta pazienza, tenendo sempre presente – sottolinea Majed Mardini, insegnante presso il centro scolastico di Jbeil che i bambini siriani "hanno bisogno di più di una formazione tradizionale". 

Tutti gli insegnanti sono chiamati a svolgere anche un'opera di assistenza sociale e psicologica 
"Molti dei ragazzi” riferisce Mardini “non sanno come si sta a scuola. Insegniamo ai bambini come comportarsi, come interagire con gli altri, ma soprattutto, come volersi bene l'un l'altro”. Solo un lavoro quotidiano e protratto nel tempo permette di ottenere risultati gratificanti, e di registrare un miglioramento effettivo nel comportamento e nelle capacità di apprendimento dei bambini. 

La scuola l'unica certezza nel futuro di questi bambini
​Molti di loro – raccontano gli operatori – col tempo riconoscono la scuola come l'unico luogo dove riescono a essere felici, e non vogliono interrompere la frequenza nei periodi di vacanza, che per molti rappresenta un tempo di tristezza e di abbandono. Qualsiasi sarà il loro futuro, in Siria o altrove, "l'educazione” - fa notare Mardini - “è l'unico modo per costruire un futuro per questi bambini". (G.V.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 7

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.