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Sommario del 05/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco a Greccio: riscoprire Gesù nei piccoli e negli umili

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Chiedere a Dio la grazia di vedere la Stella che ci porta a Gesù: questa la preghiera di Papa Francesco ieri pomeriggio, durante la sua visita a sorpresa al Santuario di Greccio, in provincia di Rieti, là dove si è diffusa in tutto il mondo grazie a San Francesco la tradizione del Presepe. Il servizio di Sergio Centofanti

Una sorpresa per tutti
E’ stata una vera sorpresa per tutti. Papa Francesco è arrivato in auto al Santuario per visitare la Grotta del Presepe e i luoghi in cui è stato San Francesco. Prima però ha incontrato un gruppo di giovani della Diocesi reatina che qui stavano concludendo un Meeting. “Il vescovo – ha esordito il Papa tra i giovani sbalorditi - mi ha fatto capire che in questi giorni natalizi era una cosa buona venire a pregare a Greccio. E sono venuto a pregare. Ma non mi spiego – ha aggiunto scherzando - con quale bugia vi ha attirato qui!”.

Il segno dell'umiltà di Dio
Quindi, ha svolto una breve riflessione sui segni del Natale. Il primo segno è quello che gli Angeli indicano ai pastori: un bambino appena nato posto su una mangiatoia. E’ “la piccolezza di Dio – ha detto il Papa - Dio si è abbassato, si è annientato per essere uno come noi, per camminare davanti a noi”. Questa piccolezza, questa mitezza di un bambino, è “l’umiltà di Dio che va contro l’orgoglio, la sufficienza, la superbia”. Il Papa ha invitato a porsi la domanda: “La mia vita è una vita mite, umile, che non ‘spuzza’ sotto al naso, che non è orgogliosa?”.

Lasciarsi guidare dalla Stella
Un altro segno – ha detto - è la Stella dei Re Magi: “Il cielo è pieno di stelle” ma loro ne hanno vista “una speciale, una Stella che li muoveva a lasciare tante cose e a incominciare un cammino” che non sapevano dove li portasse. “Quando nella nostra vita - ha commentato - non troviamo qualche stella speciale che ci chiama a fare qualcosa di più, qualcosa di buono, a intraprendere un cammino, anche a prendere una decisione … qualcosa non va. E dobbiamo chiedere la grazia di scoprire la Stella che Dio oggi vuol farmi vedere, perché quella Stella mi condurrà a Gesù”.

Scoprire Gesù nei piccoli e nei poveri
“Ma i Magi – ha proseguito - sono stati furbi, perché si sono lasciati guidare dalla Stella” e hanno capito che non li conduceva nel palazzo di Erode con tutto il suo splendore. “Mi auguro – ha concluso - che la vostra vita venga accompagnata sempre da questi due segnali, che sono un dono di Dio: che non vi manchi la Stella e non vi manchi l’umiltà di riscoprire Gesù nei piccoli, nei poveri, negli umili, nei poveri, in quelli che sono scartati dalla società e anche dalla propria vita”. 

Sulla visita del Papa ascoltiamo il guardiano del Santuario di Greccio, padre Alfredo Silvestri, al microfono di Alessandro Guarasci

R. – Noi eravamo nel Santuario ed abbiamo visto il Santo Padre scendere dalle scale e fermarsi subito alla Grotta del Presepe in silenzio. Tutto si è svolto in silenzio. Abbiamo visitato la Grotta del Presepe, poi siamo andati al dormitorio di San Francesco – dove dormiva Francesco - poi siamo saliti sopra al dormitorio di San Bonaventura, abbiamo visitato la prima cappella dedicata a San Francesco risalente al 1228. Infine si è recato in chiesa per una piccola preghiera. La visita si è conclusa in pochissimo tempo.

D.- Qual è stato il suo rapporto con la  gente? È stato avvicinato?

R. – Sì, fuori nel piazzale c’erano 15 -20 persone. Lui si è fermato, ha chiesto di pregare per lui.

D. – Lei cosa ha percepito nei gesti del Papa venendo al Santuario?

R. – La grande semplicità e il grande amore per i luoghi francescani, nella sua semplicità, senza dire parole. Il  2 gennaio di 32 o 33 anni fa, qui a Greccio c’è stata la visita di Giovanni Paolo II. Sicuramente nel nostro cuore qualcosa deve cambiare, prima di tutto in noi stessi.

Sull'incontro con i giovani, ascoltiamo la testimonianza di uno di loro, David, sempre al microfono di Alessandro Guarasci

R. – Eravamo alla conclusione del Meeting, era il momento dell’incontro, subito dopo pranzo, per i saluti e ci è stata annunciata una sorpresa. Ci siamo riuniti, quindi, di nuovo tutti nel salone, dove si sono svolti tutti gli incontri, e tutto ci aspettavamo tranne che dalla porta arrivasse quest’uomo vestito di bianco ... Può immaginare allora il boato dei ragazzi, la contentezza, l’emozione ed anche le lacrime di gioia. E’ stato veramente un momento di forte commozione.

D. – Che cosa vi ha detto il Papa?

R. – Il Papa ci ha indicato, attraverso i segni del Natale, un percorso per il quotidiano, per la vita dei giovani: delle cose da inseguire; il cercare di non dimenticare mai che Dio si è fatto piccolo a Natale, per presentarsi all’uomo, e che quindi a partire dalle cose piccole si possono fare poi grandi cose. Del resto lo slogan del Meeting riprendeva quello che diceva San Francesco: “Partite dal necessario e vi troverete a fare alla fine anche l’impossibile”.

D. – E da voi quali sollecitazioni sono arrivate al Papa?

R. – L’attimo è stato breve e intenso, quindi non c’è stato un momento  in cui i ragazzi hanno potuto interpellare il Papa. E’ stato molto bello il fatto che il Santo Padre, nell’abbraccio finale con i ragazzi, li abbia invitati a pregare per lui. Questo ha sicuramente commosso tutti. C’è stato un saluto che noi speriamo sia un arrivederci.

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Vescovo Rieti: grande commozione a Greccio per la visita del Papa

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Papa Francesco prima di recarsi al Santuario di Greccio è andato a Rieti, dal vescovo della città, mons. Domenico Pompili.  Luca Collodi lo ha intervistato: 

R. – Come ha detto lui scherzosamente: “Sono una persona ben educata e prima di andare a Greccio sono passato a salutare il vescovo”. E così siamo andati, sulla sua Focus, verso Greccio nel primissimo pomeriggio. Abbiamo approfittato del fatto che in questi giorni lì, presso il Santuario, si teneva un Meeting dei giovani della diocesi - che si concludeva proprio ieri intorno alle 15 - per andare a fare una sorpresa anche ai ragazzi, che si sono visti arrivare dal fondo della sala il Papa. E’ stato veramente un momento intenso: chi piangeva, chi rideva, chi non credeva ai suoi occhi e se li stropicciava, pensando che stesse vedendo qualcosa di irreale. Comunque, anche lì, il Papa ha avuto la bontà di fermarsi qualche istante. Ha svolto anche due brevi, ma suggestive riflessioni, sulla stella che va cercata e sul bambino che è il segno non solo dell’incarnazione, ma anche di ciò che è marginale, secondario, e va riscoperto. E poi finalmente siamo andati al Santuario, che era l’oggetto della sua visita, stando per qualche minuto in silenzio davanti a quel bellissimo affresco medievale, che raffigura da un lato Francesco che, rivestito di una semplice dalmatica, si inginocchia davanti al Presepe e dove, in primo piano, c’è la Vergine Maria che allatta il bambinello. E’ stato un momento toccante, soprattutto quando il Papa si è chinato sull’altare per baciarlo.

D. – E’ stata una piccola catechesi sul tempo di Natale…

R. – Sì, direi quasi anticipando i temi dell’Epifania. La Stella vista come simbolo del desiderio, vista come la vocazione di ciascuno, per la quale – ha aggiunto – occorre saper fare anche delle scelte importanti. E parlando a dei giovani evidentemente questo era un invito ad assumersi la responsabilità della chiamata e a saper andare anche, se necessario, controcorrente. Poi quel riferimento al bambino, visto non semplicemente come l’immagine della "kenosis" di Dio, del suo abbassamento, ma anche come la scelta di ciò che è meno appariscente, di quello che non è così in primo piano e che invece va coltivato. E per questo ha raccomandato ai giovani di saper stare accanto alle persone bisognose, a quelli che sono in difficoltà. Tra l’altro, tra i 150 giovani, c’erano una decina di extracomunitari di fede islamica, che sono stati molto contenti di poter avere questo contatto ravvicinato. Fanno parte di un progetto di accoglienza di un paesino della nostra diocesi a Colle Giove.

D. – Mons. Pompili, la presenza del Papa può dare forza all’intera comunità reatina che sul piano economico e del lavoro vive un periodo di crisi? 

R. – Certamente. Questa è una provincia che, come tutte le realtà del nostro Paese, ha una situazione di difficoltà economica. E certamente l’invito, e ancor prima la presenza del Papa, è un incoraggiamento ad iniziare bene l’anno, riscoprendo quelle che sono le radici del nostro territorio che ha nella cifra francescana, secondo me, il suo dna. Un dna peraltro da condividere, perché il "Francesco da Rieti", come uso dire scherzosamente, rispetto al Francesco d’Assisi in qualche modo, è il Francesco ancor più delle origini, delle scelte sine glossa. Il Presepe in questo senso è una di queste, perché la sua interpretazione così essenziale, ridotta all’asino, al bue e al bambinello, è un invito a contemplare la scena della natività, facendo leva sulla nostra immaginazione, senza voler dispiegare tutto il nostro sguardo, ma volendo cogliere solo qualche elemento che susciti e coinvolga anche la dimensione emotiva della persona.

D. – Un episodio simpatico. In auto con il Papa, da Rieti a Greccio, a lei mons. Pompili è squillato il cellulare. Il Papa le ha detto: “Risponda pure”…

R. – Sì, in realtà non avevo messo la suoneria, come purtroppo accade. Lui, però, non si è scomposto e ha detto: “Rispondi”. Ho detto: “Ma è un sacerdote…”. E poi ha subito aggiunto: “Comunque bisogna richiamarlo. In giornata, però!”. Come per dire che bisognava non farlo aspettare.

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Tweet del Papa: "La misericordia è divenuta viva e visibile in Gesù di Nazareth"

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"La misericordia è divenuta viva e visibile in Gesù di Nazareth (MV 1)". E' il tweet pubblicato da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex in 9 lingue.

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Epifania. Il card. Vallini apre la Porta Santa al Divino Amore

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Una Porta Santa “miracolosa”. È quella che, nell’anno del Giubileo della Misericordia, caratterizzerà i pellegrinaggi al Santuario della Madonna del Divino Amore di Roma. Sarà la Torre del Primo Miracolo ad essere aperta nella solennità dell’Epifania dal cardinale vicario, Agostino Vallini. Il porporato guiderà poi la processione verso il Nuovo Santuario per presiedere la celebrazione eucaristica. Al microfono di Federico Piana, il cardinale Vallini racconta il perché di questa scelta: 

R. – Quando il Santo Padre ha previsto nella Bolla di indizione del Giubileo la possibilità di diverse Porte Sante nelle chiese particolari, a me è venuto in mente che non si poteva non considerare anche questo luogo mariano, il Santuario del Divino Amore, come uno dei luoghi della misericordia. Perché, insieme alla cattedrale di Roma, alle altre Basiliche papali e alla Porta Santa della Carità dell’Ostello della Caritas che il Santo Padre ha varcato il 18 dicembre scorso, pensavamo fosse necessario avere anche una Porta Santa dedicata particolarmente all’intercessione di Maria. Il nostro Santuario diocesano è molto frequentato, è nel cuore di tanti romani, è il Santuario del Divino Amore. Dunque, abbiamo pensato che l’itinerario della misericordia potesse trovare proprio al Divino Amore un’esperienza molto feconda. Ecco il motivo.

D. – Come Porta della misericordia, come Porta giubilare, è stato scelto l’Arco della Torre del primo miracolo, perché questa scelta?

R. – Esattamente perché è il luogo più significativo del Santuario del Divino Amore: si ricollega all’esperienza della guerra, al miracolo della città salvata attraverso i pellegrinaggi dei romani al Divino Amore per chiedere alla Madonna la grazia di liberare Roma… E tutto questo è rimasto nel cuore. Ora, la Porta del Miracolo è la Porta della fede mariana di Roma e ci pareva che quello fosse l’itinerario da ripercorrere entrando in Basilica così da poter rivivere, con l’intercessione di Maria, l’esperienza della misericordia.

D. – Secondo lei, come mai nel cuore dei romani c’è questo Santuario del Divino Amore? Cosa lega questo Santuario ai romani?

R. – Li lega il fatto che la Madonna è la Mamma di tutti e che questo luogo di devozione mariana è stato sempre molto caro… Anzi, io dico che da sempre e quotidianamente – perché noi sappiamo che ci sono alcune circostanze, soprattutto i pellegrinaggi notturni che cominciano a maggio fino a ottobre, ma basterebbe andare in qualunque ora del giorno lì al Santuario sulla Via Ardeatina – noi troviamo sempre pellegrini che vanno a piedi in spirito di penitenza per rinnovare la loro fede ai piedi della Madonna. La Madonna del Divino Amore è la Madonna della misericordia, il Divino Amore è Gesù, Gesù è la rivelazione della misericordia. Per cui, sentire Maria nell’Anno della misericordia vicino alla città di Roma, tanto bisognosa di rinnovamento spirituale, ci pareva che fosse una delle grazie da chiedere proprio in questo anno per la nostra città e per tutti i romani.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Magi o pastori?: in prima pagina, un editoriale di Guy Consolmagno, direttore della Specola vaticana, sugli astronomi e l’Epifania.

Cresce la tensione fra Arabia Saudita e Iran.

La fede manipolata sul caso “Charlie Hebdo”.

Quattro secoli dalla morte di William Shakespeare: gli articoli del vicedirettore e di Nigerl Baker, ambasciatore britannico presso la Santa Sede, il discorso di Paolo VI del 12 novembre 1964 e un commento del premier David Cameron.  

Oscar per Puccini: Marcello Filotei sulla colonna sonora di “Star Wars”.

La forza di arrendersi: Silvia Guidi su Pablo d’Ors e il suo ultimo libro su Africa Sendino.

Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo “Quando si trovò davanti a ‘Enigma’”: è morto l’ufficiale birtannico David Blame che recuperò la macchina usata dai nazisti per cifrare i messaggi.

Tre sfide: il cardinale Jean-Louis Tauran traccia bilancio e prospettive del dialogo tra le religioni.

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Oggi in Primo Piano



Siria: liberato padre Azziz. Pizzaballa: speranze per altri rapiti

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Dalla Siria, in cui continuano senza sosta le violenze, una buona notizia. Il padre francescano, Dhiya Azziz, parroco di Yacoubieh, scomparso lo scorso 23 dicembre è stato liberato e sta bene. Soddisfazione e speranza, per la liberazione di altri rapiti sono state espresse da più parti, in particolare da padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa. Il servizio di Giancarlo La Vella

Padre Dhya Azziz, nato 42 anni fa a Mosul, l’antica città irachena di Ninive, ha sempre svolto il suo ministero nell’area arabo-mediorientale: Iraq, Egitto, Siria – in quest’ultimo Paese, in un contesto di già grave pericolo per la presenza delle milizie islamiche di Jabhat al-Nusra, emanazione di Al Qaeda. Già nel luglio scorso, era stato oggetto di un sequestro lampo, che si era concluso in modo positivo nel giro di pochi giorni. Poi, il secondo rapimento e la liberazione, della quale ieri è stata data notizia. Sentiamo padre Pier Battista Pizzaballa, custode francescano di Terra Santa:

R. – La situazione in Siria è sempre grave, drammatica, ma noi siamo molto contenti e soddisfatti che padre Dhiya sia stato finalmente liberato.

D. – E’ una speranza che apre anche ad altre liberazioni di religiosi?

R. – Ci auguriamo che sia così. I canali di comunicazione sono ancora aperti. Questo è un dato importante.

Ricordiamo che dall'inizio del conflitto siriano, le milizie jihadiste e i gruppi combattenti hanno sequestrato diverse personalità di primo piano della comunità cristiana locale. Fra queste i due vescovi ortodossi, Boulos Yazigi e Mar Gregorios Youhanna Ibrahim, prelevati il 22 aprile 2013, il padre gesuita, Paolo Dall'Oglio, e il sacerdote, padre Jacques Mourad, della Chiesa siro-cattolica, per cinque mesi nelle mani del sedicente Stato islamico poi a sua volta liberato.

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Anche il Kuwait nel fronte sunnita contro l'Iran

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La comunità internazionale segue con grande timore l’ampliarsi del fronte anti-sciita e anti-iraniano che, partito dall’Arabia Saudita, si sta espandendo a tutte le  monarchie sunnite del Golfo. I timori sono per un conflitto globale, per questo Stati Uniti e Russia si offrono come mediatori e la Lega Araba si riunirà domenica d’urgenza. Il servizio di Gabriella Ceraso

Anche il Kuwait rivede le relazioni diplomatiche con Teheran richiamando il suo ambasciatore e portando così a quattro i Paesi del Golfo che si affiancano all'Arabia Saudita. L’azione anche in questo caso è una protesta per l’attacco alle sedi diplomatiche saudite a Teheran ritenuto una violazione evidente agli accordi internazionali. Già il Bahreïn aveva seguito Ryad come gli Emirati Arabi Uniti, anche se più cauti, e il più lontano Sudan, in una spaccatura tra sunniti e sciiti generata dall’uccisione, sabato, a Ryad dell'imam sciita Nimr al Nimr, considerato un terrorista e un oppositore alla dinastia saudita. L’Iran oggi reagisce sospendendo i pellegrinaggi a la Mecca e bollando come "strane azioni", le rappresaglie diplomatiche con cui l’Arabia sta coprendo un “crimine” cui la "gente comune ha reagito". Quindi, la rassicurazione che nulla nell’economia iraniana cambierà o subirà ripercussioni. A disinnescare la crisi e salvaguardare la stabilità e la sicurezza della regione pensano Russia e Stati Uniti, che si sono proposti come mediatori. Al loro fianco anche la Turchia, mentre domenica prossima è in programma la riunione d’emergenza della Lega Araba.

Ma come interpretare questo fronte sunnita che si allarga velocemente? Potrebbe degenerare in un conflitto globale? Gabriella Ceraso ne ha parlato con l'ambasciatore Giuseppe Panocchia esperto di Medio Oriente: 

R. – Non mi sorprende che anche il Kuwait abbia aderito, perché il Paese deve molto all’Arabia Saudita sin dall’epoca della guerra con l’Iraq ed è membro del Consiglio di cooperazione del Golfo insieme con gli altri emirati. Quello che mi preoccupa di questo aspetto è se – siccome in questi Paesi esistono delle minoranze sciite più sensibili quindi al richiamo iraniano – questa scelta sia stata saggia. Non credo però che questo possa essere un segno di una volontà di andare a uno scontro in campo aperto. Ci potranno essere incidenti, ma non so se si arriverà ad una guerra guerreggiata, perché non sarebbe nell’interesse di nessuno dei due. Il punto di maggior tensione, secondo me, riguarda il controllo dello Stretto di Tiran, ovvero del punto di uscita del Golfo Persico verso l’Oceano Indiano, che tutti i Paesi produttori di petrolio devono obbligatoriamente passare per esportare il loro petrolio. D'altra parte, il lato opposto della Penisola, con l'accesso al mar Rosso, è controllato oggi dai sunniti ed è quindi sul quel fronte che potremmo vederne delle belle.

D. – È anche vero che storicamente i rapporti tra Arabia Saudita ed Iran non sono mai stati buoni…

R. – Facendo un rapidissimo excursus storico, bisogna ricordarsi che l’Iran moderno – che si fa risalire al 16.mo secolo – nasce proprio per riconoscere una propria radice nazionale abbandonando la Sunna per diventare sciita. Oppure, che quando c’è stato da scegliere chi mettere contro l’Iran si è ricorso ai sunniti. Oggi, l’interesse concreto che secondo me ha portato all’accentuazione di questa crisi, è il petrolio. Perchè nel momento in cui l’Iran riacquista una sua legittimità internazionale, con la prospettata riduzione ed eliminazione delle sanzioni, è un Paese che può esportare molto più petrolio di quanto non ne esporti oggi. Il problema vero è che Iran ed Arabia Saudita mirano a essere potenze egemoni nella regione e tra di loro sono storicamente incompatibili. L’equilibrio si è retto fino a quando gli americani controllavano in qualche forma sia l’Arabia Saudita che l’Iran: adesso che stanno cercando di intraprendere, di nuovo questo gioco non ci sono più le condizioni di 40 anni fa. Questa è la triste realtà.

D. – Secondo le milizie hezbollah sciite, prime alleate dell’Iran, il piano dell’Arabia Saudita è molto più ampio: vuole far cadere Damasco, vuole fare implodere il Libano, dividere l’Iraq ed isolare l’Iran. È plausibile una spiegazione del genere?

R. – È uno scenario che diversi hanno provato a disegnare ma è estremamente complesso. D'altra parte, la sola scomparsa della Siria che significherebbe la parcellizzazione dell’attuale territorio tra il Libano, in cui gli sciiti bene o male sono la maggioranza, e il Kurdistan – che, secondo me, mai e poi mai la Turchia, ma lo stesso Iran o l'Iraq accetterebbero di veder sorgere – mi parrebbe estremamente complicato da realizzare perché gli interessi sono troppi e troppo divergenti.

D. – Fatto sta che comunque l’area mediorientale si stava ricompattando in nome del terrorismo e anche la questione del nucleare si stava ricucendo tra Occidente e Iran. Invece, da un giorno all’altro sono tutti di nuovo contro tutti…

R. – Allora, c’è da domandarsi perché pur mettendo a morte una serie di personaggi implicati nel terrorismo – in numero due di al Qaeda – poi abbiano voluto mettere nel calderone anche questo imam. Forse pensavano che sarebbe passato inosservato, ma non credo che a Riad ci sia una simile ingenuità. Quindi, secondo me è una mossa per richiamare l’America e dire: “Scegliete con chi volete stare”. Questa è una risposta che in questo momento l’America difficilmente darà. Cercherà di rimanere con tutti e due.

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Altalena delle Borse asiatiche, la Cina immette liquidità

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I mercati occidentali aprono in buon rialzo e poi si ridimensionano, dopo che le Borse asiatiche hanno vissuto un’altra giornata in altalena, che si è conclusa questa volta senza scossoni. Le autorità di Pechino, per cercare di tamponare il flusso record di vendite – che ieri ha fatto precipitare del 7% i listini cinesi e ha forzato uno stop anticipato alle contrattazioni – hanno autorizzato diverse pesanti misure, tra cui la proroga del divieto di vendite oltre la naturale scadenza di fine settimana e l’immissione da parte della Banca centrale di quasi 20 miliardi di dollari sul mercato, attraverso operazioni a breve in pronti contro termine. Per valutare quanto sta accadendo alle Borse mondiali, Fausta Speranza ha intervistato Leonardo Becchetti, docente di Economia all’Università Tor Vergata: 

R. – Le turbolenze giornaliere ci sono in Borsa anche perché la volatilità “intraday” è molto aumentata dal fatto che si usano algoritmi automatici, c’è moltissimo trading alta frequenza, molta speculazione. Ma quello che noi dobbiamo guardare è l’andamento di medio termine. La Borsa italiana ha chiuso l’anno con una crescita piuttosto forte, del 15%. In un anno, storicamente, la Borsa non dovrebbe aumentare più dell’8-9 % in media, questo è il rendimento medio delle azioni ogni anno se prendiamo i dati medi dell’ultimo secolo. Quindi, non dobbiamo preoccuparci che la Borsa un giorno possa andare a +3 o a −3, quello che conta è la dinamica media.

D. – Ci ricordiamo la crisi in estate 2015 della Borsa cinese e ora è intervenuto un altro episodio, però questa volta pesa anche la congiuntura tra prezzo del petrolio, la tensione Arabia Saudita e Iran… E’ così?

R. – Sicuramente, ci sono pretesti dati dalle vicende che stanno accadendo in questi giorni, quella cinese e il conflitto tra Iran e Arabia Saudita. Però, si tratta anche di ritracciamenti salutari della Borsa (il "rintracciamento" indica un andamento dei prezzi nella direzione opposta alla tendenza registrata in precedenza - ndr), proprio perché è bene che si evitino bolle speculative, è bene che i corsi borsistici non crescano molto. Quando la Borsa ritraccia, in un certo senso, può essere anche una buona notizia, se questo avviene dopo tanti giorni o un periodo lungo di crescita. Paradossalmente, la Borsa dovrebbe crescere non più dell’8-9% all’anno e questo vuol dire che ogni giorno non ci dovrebbe essere un aumento superiore al 5x10 mila. Se dovessimo considerare tutte giornate positive, una vicino all’altra, fino alla fine dell’anno, si arriverebbe così all’8-9%, alla fine dell’anno. Quindi, tutto ciò che c’è in più, in un certo senso, va ad alimentare bolle speculative e quindi non è detto che il giorno in cui la Borsa ritraccia o ci sono rendimenti negativi siano giorni negativi. Magari sono notizie positive perché le bolle fisiologicamente si sgonfiano.

D. – Abbiamo visto Pechino intervenire in modo incisivo, sia in estate 2015, sia ora con l’emissione di 20 miliardi, l’acquisto di fondi pubblici. Che dire di queste misure?

R. – La Cina ha due problemi. Uno è il surriscaldamento dei corsi azionari, la Borsa è salita troppo negli ultimi tempi. Il secondo è che il Paese sta passando strutturalmente a un periodo di crescita più moderata rispetto a quella del passato. Da questo punto di vista, però, le autorità cinesi stanno intervenendo per cercare di evitare che questi due fenomeni, quello finanziario e quello strutturale dell’economia, possano produrre crolli nel mercato finanziario troppo forti. E da questo punto di vista, è positivo che le autorità cerchino di intervenire.

D. – Ci aiuta a capire un po’ in questa fase il rapporto tra prezzo del petrolio e l’andamento dell’economia mondiale?

R. – Tutto il 2015 è stato caratterizzato da tre eventi macropositivi, che sono la svalutazione dell’euro, la riduzione del prezzo del petrolio, il "quantitative easing", per noi. Quindi, la riduzione del prezzo del petrolio è ormai è un fatto strutturale: vuol dire costi minori per le nostre imprese e ricordiamo che il petrolio è un input importato. Ma soprattutto c’è dietro un fenomeno di cui ormai non possiamo tenere conto: dobbiamo passare alle fonti rinnovabili, tutto questo è urgente e sarà sempre più urgente. Questo vuol dire che la domanda di petrolio progressivamente dovrebbe tendere a ridursi, quindi il calo del prezzo del petrolio dovrebbe essere un fenomeno strutturale. Si parla addirittura di un 70-80% di riserve di gas e di petrolio, che non verranno più utilizzate se per far fronte al riscaldamento globale passeremo alle fonti rinnovabili. Questo vuol dire che ci dovremmo aspettare prezzi permanentemente bassi e anche un ritracciamento in Borsa delle grandi compagnie petrolifere, se non sapranno riconvertirsi alle rinnovabili.

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Schengen a rischio: Unione Europea convoca Svezia e Danimarca

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E’ di 21 morti, tra loro tre bambini, il bilancio delle vittime del naufragio di un barcone carico di migranti diretti sull’isola greca di Lesbo, rovesciato dal maltempo. In questi primi giorni del 2016 si contano già i morti, mentre in Europa si parla sempre più di pericolo per l’accordo di Schengen, dettato proprio dalla pressione migratoria. Il servizio di Francesca Sabatinelli

“Schengen è sotto pressione”. E’ il portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas, a sintetizzare il precario stato di salute dell’area di libera circolazione. A Bruxelles ci si affanna per “riportare la situazione alla normalità”, ma sul come è ancora mistero. Di fatto si cercherà nelle prossime ore di salvaguardare l’attuale status, attuando però “un efficace controllo delle frontiere esterne”. L’Unione europea ha convocato Svezia, Danimarca e Germania dopo la stretta dei controlli alle frontiere adottata da Stoccolma e Copenaghen, per arginare il flusso dei richiedenti asilo. Il commissario Ue all’Immigrazione Avramopoulos aspetta le parti domani a Bruxelles per “un maggiore coordinamento”. Secondo “una prima analisi”, i controlli alle frontiere reintrodotti dalla Danimarca sarebbero in linea con Schengen, mentre la nuova legge svedese sui controlli delle identità dei viaggiatori è ancora al vaglio dei servizi della Commissione Ue. La reintroduzione dei controlli alle frontiere fa temere fortemente che ormai Schengen sia fallito, e che la libertà di circolazione in Europa sia in pericolo, un rischio ventilato soprattutto dalla Germania, che chiede di trovare altre soluzioni. Roma intanto sembra valutare il ripristino dei controlli alla frontiera con la Slovenia. Il commento di Federiga Bindi, docente di Politica europea al centro "Jean Monnet" dell'Università di Tor Vergata:

R. – Il problema non è soltanto Schengen, il problema è che sta andando a pezzi la costruzione europea, che ad oggi rimane la miglior cosa che l’Europa abbia mai fatto in tutto il suo lungo corso storico, dai Romani a oggi. Io ancora voglio credere nell’Europa unita, non mi arrendo. Certo è che la politica di ricollocamento dei migranti è uno "scherzo", non è mai stato fatto nulla di quello che era stato deciso, e i migranti si stanno ricollocando da soli, con i loro piedi. La decisione in Italia di chiudere con Schengen mi sembra semplicemente simbolica, anche perché l’Italia non può chiudere le proprie frontiere, non è che noi possiamo fare un muro intorno al nostro mare. Consiglierei, comunque, di non farlo e di continuare a mostrare che noi ci crediamo e che non si può fare a meno di questa Europa. Certo è che sono tempi bui.

D. – In tutto questo, la cosiddetta “emergenza migranti” sembra quasi una scusa …

R. – E’ sicuramente una scusa! E’ un po’ l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso che era già pieno. Il problema è che c’è una nuova generazione di politici che, incredibilmente, è quella che ha beneficiato in prima persona dell’Europa unita e non vede la necessità di continuare a lottare per farla continuare.

D. – Lei, in sostanza, ritiene quindi che sia miope la politica dei leader europei?

R. – A me pare che oggi come oggi in Europa l’unico politico con la “P” maiuscola sia il Papa e in seconda battuta la Merkel. Bisogna veramente tornare a ripensare, a rendersi conto del perché è nata l’Europa, del perché l’abbiamo costruita e bisogna anche ricordare, proprio pensando ai vicini della Slovenia, dell’ex-Jugoslavia, come è fragile ancora oggi l’equilibrio in Europa. Anche in un Paese dove il “melting pot” aveva funzionato bene, come la ex-Jugoslavia, è bastato un nulla perché si ri-ammazzassero tra di loro. Viviamo dei tempi brutti, tutto sommato, e l’Europa deve continuare prima di tutto a lottare per la propria unità e per la propria pace, e poi per mostrare fuori dai propri confini che coabitare, mettendo da parte le proprie differenze, si può. Altrimenti, che senso ha fare politica estera? Come possiamo noi andare dai siriani a dire: “Deponete le armi, accettate le vostre differenze”, se siamo i primi a non accettare le differenze tra di noi?

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Usa, Obama sfida mercanti armi. Simoncelli: fine di anarchia

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Un piano in 10 punti per il controllo delle armi negli Stati Uniti: sarà annunciato oggi dal presidente Usa, Barak Obama. Obiettivo dichiarato “salvare vite umane”, in un Paese dove “le stragi di massa sono più comuni che in altri posti”, ha sottolineato il capo della Casa Bianca, deciso nel pieno dei suoi poteri legali a scavalcare il Congresso, accusato di inerzia. Roberta Gisotti ha intervistato Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio Disarmo: 

Contro Obama i poteri forti di chi produce e vende armi e chi tra i politici ne difende gli interessi, in testa il candidato repubblicano in corsa per le presidenziali, Donald Trump, e poi un nemico trasversale: la cultura diffusa nel popolo americano dell’essere armati, una famiglia su tre possiede armi: ce sono 300 milioni in circolazione negli Stati Uniti.

D. – Dr. Simoncelli, quali sono i punti qualificanti del piano Obama?

R. – Sono quelli di puntare a mettere sotto maggior controllo le vendite di armi tra privati. Questo perché molte vendite avvengono in occasione di fiere o in occasioni informali e pertanto non c’è un controllo sulla personalità degli acquirenti. Sembra che Obama voglia chiedere un incremento del 50% del personale dell’Fbi dedicato a condurre tali verifiche. Chiede anche un finanziamento di 500 milioni di dollari per affrontare il problema sul piano della salute mentale, perché centinaia di massacri che avvengono negli Stati Uniti vedono protagonisti persone armate che non sono in buone condizioni mentali, nella stragrande maggioranza.

D. – Produzione e commercio di armi sono una voce molto rilevante nell’economia degli Stati Uniti. Come potrà il presidente Obama compensare queste entrate? Non sarà che ne produrranno e venderanno di più all’estero?

R. – Gli Stati Uniti sono il primo produttore mondiale di queste armi – pistole, revolver, fucili e quant’altro – che vengono esportate nel mercato mondiale internazionale. Teniamo pure presente che il mercato interno degli Stati Uniti è particolarmente fiorente e importa anche molte armi. Risultano circa 2.300 industrie negli Stati Uniti che producono queste armi, circa 4 milioni e 200 mila l’anno solamente le armi destinate al mercato interno. Questo in base al secondo emendamento della Costituzione che riconosce il diritto dei cittadini americani a difendersi con le armi. Vi sono poi tre aziende – la Remnington, la Smith &  Wesson, la Sturm, Ruger & co. – che controllano il 40% del mercato interno. Questo è uno degli elementi che fa sì che questa lobby possa influenzare fortemente anche la politica interna degli Stati Uniti, al punto che abbiamo avuto non solo l’opposizione repubblicana ma anche quella democratica ai numerosi tentativi che dal 2008 Obama ha posto in atto per mettere sotto controllo la vendita di queste armi.

D. – Bisognerà però da parte delle organizzazioni preposte come anche la vostra vigilare che non ci sia poi una ricaduta negativa a livello mondiale…

R. – Sì, è stato approvato un paio di anni fa ed è entrato in vigore un anno fa nel Natale del 2014 il Trattato internazionale sul commercio degli armamenti (ATT), anche questo voluto dal presidente degli Stati Uniti. E’ un Trattato internazionale che è stato approvato a livello delle Nazioni Unite, che cerca di mettere per la prima volta nella storia sotto controllo il mercato con un’intesa che non sia solamente basata su una legislazione nazionale o comunque di area, com’è per esempio nel caso dell’Unione europea che ha sue norme se pur non particolarmente stringenti. Questa volta con l’ATT abbiamo un quadro giuridico internazionale: altrimenti queste armi, vendute inizialmente in modo legale a governi, spesso e volentieri sono state ritrovate in mano a forze della delinquenza organizzata internazionale o addirittura alle forze terroristiche.

D.  – Quindi, si profila un provvedimento storico?

R. – Certamente, è un provvedimento storico. E’ un tentativo che Obama sta portando avanti da anni con i poteri limitati che ha, perché c’è una forte opposizione congressuale a questo. I candidati repubblicani hanno già annunciato che qualora venissero eletti annullerebbero immediatamente questi provvedimenti che, come abbiamo visto, non sono provvedimenti rivoluzionari, ma cercano di mettere sotto controllo un mercato che è praticamente anarchico: chiunque può vendere armi e chiunque le può acquistare, indipendentemente dalla propria salute mentale o addirittura alle intenzioni terroristiche che alcuni possono avere. Nell’ultima strage che c’è stata a San Bernardino, le armi erano state comprate da un’altra persona che le ha poi rivendute alla coppia che ha fatto il massacro.

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Presepe vivente medioevale a Canale Monterano per l'Epifania

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Dal 2012, l'antico feudo di Monterano, nei pressi del Lago di Bracciano, a un’ora da Roma, fa da scenario a un Presepe vivente medievale. Durante le feste natalizie, la città abbandonata si trasforma di nuovo in un feudo, dove antichi artigiani, nobili e cavalieri si muovono tra la Chiesa di San Bonaventura e la Fontana del Leone, progettati nel ‘600 da Gian Lorenzo Bernini. Com’è nata l’idea? Natalia La Terza lo ha chiesto al direttore artistico del Presepe, Sandro Carradori

R. – L’idea è nata prendendo come ispirazione le iconografie classiche della tradizione e il posto dove andavamo a rappresentare la natività; è una città morta, abbandonata dalla fine dell’800. Ci siamo ispirati ai dipinti di Gentile da Fabriano, di Botticelli, del Perugino, del Masaccio, dove vengono rappresentate delle persone che vestono con una foggia rigorosamente medioevale. Dato il posto e l’ispirazione abbiamo optato per questo tipo di Presepe che richiama un po’ quello rappresentato nel 1222 a Greccio da San Francesco.

D. - Chi sono gli organizzatori del Presepe?

R. - Il Presepe è organizzato dalla nobile contrada Carraiola, una delle sei contrade di Canale Monterano. Questa contrada ha avuto l’idea di organizzare un Presepe vivente. Io da molti anni faccio parte del Rione Monti di Bracciano che nel 2015 ha messo in scena la 40.ma edizione della Passione di Cristo. Si sono quindi rivolti a me per chiedere un aiuto. Però all’inizio l’idea era quella di fare un Presepe vivente classico, poi si è pensato a Monterano, questa città morta, ricca di storia; è stata anche sede vescovile dall’anno ‘600 all’anno 1000 ed ha visto passare grandi famiglie come i prefetti di Vico, Anguillara, Orsini ed infine gli Altieri. Da questo posto è nata l’idea del Presepe vivente medioevale. Penso che in Italia sia uno dei pochi di questo genere, mentre ce  ne sono molti classici con i soldati romani.

D. - Proprio nella seconda metà del ‘600 Bernini progettò poi il feudo, la Chiesa di San Bonaventura e la facciata del Palazzo ducale con la Fontana del Leone. Quali episodi del Presepe avete affiancato a queste opere?

R. - Carlo Fontana e Matteo de Rossi hanno riporgettato tutto. Tra l’altro la Chiesa di San Bonaventura, che lei ha citato, è quella dove venne girata la celebre scena del Marchese del Grillo, dove c’era  don Bastiano, il prete ribelle. Noi abbiamo affiancato tutto questo mettendo una serie di mestieri e personaggi medioevali avvalendoci anche dell’aiuto di gruppi di rievocazione storica esterni: abbiamo i popolani che procedono nelle attività quotidiane, le compagnie di armati … Cerchiamo di rappresentare al meglio la Natività, localizzandola nel contesto in cui ci troviamo. La sera ci avvaliamo di un impianto quasi completamente composto da luci a led, quindi a basso impatto ambientale.

D. - Come festeggerete l’Epifania?

R: - La festeggeremo a Monterano mettendo ancora in scena la Natività. Abbiamo localizzato, grazie all’aiuto della contrada Castagno – una delle contrade di Canale Monterano che partecipano all’evento del Presepe vivente medievale – tutto l’accampamento dei Re Magi. Il villaggio medievale è situato sotto l’acquedotto all’ingresso di Monterano; da lì partiranno i Re Magi che arriveranno davanti alla Capanna della Natività dove ci sarà l’adorazione.

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Nella Chiesa e nel mondo



India. Pogrom in Orissa, udienza finale per 7 cristiani innocenti

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Si svolgerà il 6 gennaio l’udienza finale del processo contro i sette cristiani condannati all’ergastolo – ma senza prove – per l’omicidio del leader indù, Laxamananda Saraswati, e di quattro suoi seguaci, la cui morte scatenò i violenti pogrom anticristiani del 2008 nello Stato indiano dell’Orissa.  

Le preghiere dei fedeli per la liberazione dei sette accusati
Il Tribunale di Phulbani dovrà decidere sulla fondatezza delle accuse, smentite dai due stessi testimoni che in un primo momento avevano dichiarato di aver visto i sospettati che si riunivano in una foresta e “cospiravano contro il capo indù”. Gli accusati sono detenuti da sette anni, tra una serie di rinvii e processi farsa, nonostante l’omicidio sia stato più volte rivendicato dai ribelli maoisti. Il presidente del "Global Council of Indian Christians" (Gcic), Sajan K. George, ha lanciato un appello “a pregare affinché i sette cristiani innocenti siano assolti”.

Nuove tensioni in alcuni villaggi dell’Orissa
Intanto, mentre si attende l’udienza, alcuni villaggi dell’Orissa vivono nella paura che si possano ripetere le violenze settarie del 2008, in cui persero la vita 81 cristiani e furono distrutti 4.677 case, 236 chiese e 36 fra conventi, istituti e strutture religiose, costringendo alla fuga miglia di cristiani. Il gruppo induista "Kui Samaj Samanwaya Samity" (Ksss), affiliato al partito di governo Bjp (Bharatiya Janata Party) e al Rss (Rastriya Sevaka Sangh), ha indetto uno sciopero generale proprio nei giorni delle celebrazioni natalizie. Lo sciopero ha bloccato i trasporti, impedendo ai cristiani di alcuni villaggi remoti di raggiungere le chiese locali, e lasciato abbassate le serrande dei negozi.

Radicali indù hanno impedito ai cristiani di festeggiare il Natale
L’episodio più grave però – come riporta ad AsiaNews p. Ajay Singh, direttore del Forum for Social Action dell’arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar – è quello avvenuto nel villaggio di Barkhama, dove la mattina del 25 dicembre i fedeli hanno trovato le strade del bloccate da alberi divelti e massi pesanti messi da un migliaio radicali indù per impedire ai cristiani di recarsi in chiesa per festeggiare il Natale. I cristiani hanno sporto denuncia ma la polizia non ha registrato il caso, e hanno anche inviato un memorandum al primo ministro dello Stato e adesso, ha detto il sacerdote, “vivono nella paura e nell’insicurezza”. (L.Z.)

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Caritas internationalis: nel 2016 mobilitazione per la pace in Siria

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Dodici mesi di campagna per la pace in Siria. A lanciarla, in questi giorni di inizio 2016, è la Caritas internationalis, puntando “a mobilitare milioni di sostenitori in tutto il mondo per chiedere la fine della guerra di cinque anni che ha distrutto la Siria, destabilizzato la regione e causato una delle più grandi crisi di rifugiati dei tempi moderni”.

Primo passo: cessare il fuoco dopo 5 anni di conflitto
In particolare, in una nota diffusa alla stampa, Caritas internationalis chiede di far ripartire i negoziati coinvolgendo tutte le parti in causa. “Il primo passo – si legge nel documento - dovrebbe essere un significativo cessate il fuoco, con impegni concreti assunti da tutte le parti. La pace deve venire dall’interno della regione e non può essere imposta dall’esterno”.

Mons. Audo: “Non vogliamo pane, vogliamo pace”
“Non vogliamo pane, vogliamo pace. Sì, pace come condizione di vita”, chiede dal suo canto il vescovo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, mons. Antoine Audo, citato dall’agenzia Sir. “I leader mondiali – precisa il presule – devono riconoscere che non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una soluzione politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione di un governo di unità nazionale che venga dall’interno della nazione”, e al tempo stesso “cessare la fornitura di armi”.

Paese saccheggiato nella sua bellezza
“Tutti possiamo contribuire al raggiungimento della pace – sottolinea ancora mons. Audo - Innanzitutto, dobbiamo desiderarla sinceramente e credere profondamente che essa è possibile. E per farlo, dobbiamo ascoltare il popolo siriano che vuole vivere pacificamente”. In questi cinque anni, lamenta poi il vescovo di Aleppo, il Paese è stato “saccheggiato della sua bellezza” e ora è una nazione “povera”. “Abbiamo perso i nostri medici, ingegneri, dirigenti industriali, la nostra comunità imprenditoriale, i laureati e la forza lavoro qualificata. Ognuno è diventato povero, sia materialmente sia moralmente a causa della violenza e dell’estremismo religioso”.

Ritrovare la forza e la fiducia nel futuro
Ma “la Siria non può essere descritta solo dai cinque anni di guerra, quanto piuttosto dai tremila anni di civiltà, di convivenza e di cooperazione tra popoli di diversa provenienza”, conclude mons. Audo. Essa “è stata in passato forte e bella, ed è con quella storia che aspiriamo a ritrovare questa bellezza e forza della vita nel futuro”. (I.P.)

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Congo. Vescovi, impegno di dialogo in vista delle elezioni

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Favorire il dialogo tra le parti politiche e la società civile in vista delle importanti scadenze elettorali del 2016: questo l’impegno della Conferenza episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Cenco), ribadito dal suo segretario generale, don Léonard Santedi, al termine dell’incontro tra una delegazione di vescovi congolesi e i rappresentanti della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), tenutosi nei giorni scorsi a Kinshasa.

Necessario migliorare il dialogo tra politica e società civile
“I vescovi, in qualità di pastori, hanno avviato alcuni incontri con gli attori politici e della società civile per vedere insieme quello che occorre fare per migliorare la situazione, in primo luogo per quel che concerne il dialogo”, ha detto don Santedi, citato dall’agenzia Fides. Dal suo canto, il presidente della Ceni, Corneille Nangaa Yobeluo, ha sottolineato di aver terminato la valutazione del processo elettorale, ma che la pubblicazione del calendario delle votazioni è ancora condizionata dall’approvazione, da parte del parlamento, della legge elettorale e di altri provvedimenti legislativi, come quello relativo al voto della diaspora congolese all’estero.

Occorre un nuovo calendario elettorale
“Abbiamo bisogno di pubblicare un nuovo calendario elettorale. Ma vogliamo garanzie che esso venga poi rispettato. Inoltre – ha aggiunto il presidente della Ceni – tale scadenzario deve essere consensuale e realistico”. “La Commissione elettorale – gli ha fatto eco don Santedi – ci ha assicurato che farà di tutto dal punto di vista tecnico, anche se non tutto dipende da essa”, perché alcune decisioni spettano “al governo, al Parlamento, agli attori politici”.

Crisi politica iniziata nel 2011
Nella Repubblica Democratica del Congo, la questione elettorale è in fase di stallo da diverso tempo dopo che la Corte Costituzionale ha invalidato il calendario delle elezioni che prevedeva, tra l’altro, le presidenziali nel novembre 2016. La crisi politica è iniziata nel novembre 2011, dopo la rielezione del presidente Kabila segnata da sospette frodi alle urne. A gennaio 2015, l’ipotesi di un terzo mandato, in violazione della Costituzione, ha suscitato forti proteste, sfociate in scontri con morti e feriti. I disaccordi poi sul calendario elettorale (elezioni locali, provinciali, legislative e presidenziali) – con una serie di rinvii – hanno creato un clima di incertezza. Il sospetto è che tali rinvii facciano parte di una strategia messa in atto dalla maggioranza presidenziale per ottenere un prolungamento automatico e indeterminato del mandato del presidente. (I.P. – T.C.)

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Sud Sudan. Vescovo: dialogo, mai cedere alla disperazione

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“Non cedere alla disperazione, alla paura, al dominio diabolico della violenza, ma perseverare nel dialogo e in tutte le iniziative che possano portare a una rapida fine delle violenze” in Sud Sudan. Con questo accorato appello mons. Barani Eduardo Hilboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio, capitale dello Stato meridionale dell’Equatoria Occidentale, si è congedato dal 2015.

2015, anno di scontri
Un anno segnato fino alla fine da violenti scontri tra l’esercito fedele al presidente, Salva Kiir, e una milizia locale, nonostante gli accordi di pace firmati in agosto tra il governo di Juba e l’ex vicepresidente, Riek Machar, per mettere fine alla guerra civile scoppiata nel dicembre 2013. Dopo quelli negli Stati settentrionali di Unity e Alto Nilo e quello orientale di Jonglei, i combattimenti degli ultimi mesi si sono concentrati in particolate a sud, nell’Equatoria occidentale, costringendo alla fuga decine di migliaia di civili.

Violenze al Teacher Training College di Yambio
L’ultimo grave episodio di violenza ha coinvolto il Teacher Training College di Yambio, un centro di formazione per insegnanti gestito da “Solidarity”, un gruppo di missionari cattolici impegnato, con il sostegno dei vescovi sudanesi, in diversi programmi pastorali di formazione e di assistenza psicologia alle popolazioni del Sud Sudan, vittime della guerra. Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre scorsi, cinque miliziani armati hanno fatto irruzione nella scuola chiedendo alle religiose armi, soldi e altre suppellettili. L’attacco non ha provocato vittime, ma ha profondamente scosso il personale e tutta la comunità cattolica locale. E profondo turbamento e “tristezza” per quanto accaduto sono stati espressi da mons. Kussala nel messaggio di fine anno che, tra l’altro, ricorda l’encomiabile lavoro svolto “Solidarity with South Sudan” a favore dei più poveri e vulnerabili nel Paese.

Un appello per la pace
Il messaggio rivolge quindi un accorato a tutto il popolo del Sud Sudan, in particolare del Western Equatoria, alle chiese e ai musulmani a unirsi in preghiera in questo perdurante clima di violenza e insicurezza. La paura, osserva il presule, non deve indurre a “rinunciare alla lotta per creare una società diversa e migliore. Adesso più che mai siamo chiamati ad essere testimoni di speranza. Come persone di fede – continua il presule – dobbiamo chiedere ai nostri rappresentanti politici di implementare l’accordo di pace e alle milizie amate di porre fine a questa violenza insensata che continua a uccidere vite innocenti”. In conclusione, mons. Kussala esprime l’auspicio che nel 2016 resti viva tra i fedeli la consapevolezza del dovere di partecipare attivamente alla missione di Dio per allontanare il buio che grava sul Paese: “Così facendo – afferma – porteremo agli altri quella luce della presenza di Dio che si chiama pace”. (L.Z.)

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Vietnam: dal 7 gennaio, visita del cardinale Marx

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Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, il cardinale Reinhard Marx, sarà dal 7 al 17 gennaio in Vietnam per una visita di 11 giorni su invito dell’arcivescovo di Hanoi, card. Pierre Nguyên Van Nhon, e dell’arcivescovo di Hôchiminh Ville (ex Saigon), mons. Paul Bùi Văn Đoc.

Prima tappa in Nord Vietnam
Lo scopo della visita – riferisce l’agenzia Eglises d’Asie – è di prendere contatti con la Chiesa locale, rafforzare il suo dinamismo e incoraggiare il suo impegno nella società vietnamita. Il viaggio inizierà nella capitale Hanoi, dove sono stati organizzati numerosi incontri con il clero locale e i fedeli dell’arcidiocesi ed è prevista una visita al seminario maggiore. Quindi, il card. Marx si recherà Bac Ninh dove visiterà un centro di pellegrinaggio. Nel programma di questa prima parte del viaggio anche incontri con le autorità civili. Tra le tappe più significative in Nord Vietnam figura la diocesi di Vinh, dove incontrerà il vescovo Nguyên Thai Hop, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale vietnamita. Nella diocesi, che conta 500 mila fedeli, l’arcivescovo di Monaco e Frisinga visiterà il centro di pellegrinaggio di Sant’Antonio di Padova, uno dei più antichi del Paese.

La seconda tappa a Hôchiminh Ville
Durante il suo soggiorno a Hôchiminh Ville, nel Sud Vietnam, visiterà i nuovi locali della Caritas, dove interverrà a un dibattito sulla condizione e i diritti dei lavoratori nel Paese, dopo una visita ad una fabbrica di tessuti e una scuola di formazione professionale nel settore. Nel programma anche la partecipazione a un colloquio sulla pastorale familiare nella Chiesa vietnamita, un tema particolarmente sentito dai vescovi in una società in profonda trasformazione. Prevista anche una possibile visita al convento delle Amanti della Santa Croce di Thu Thiêm, recentemente protagoniste di un contenzioso con le autorità a causa di un progetto di demolizione di una scuola elementare gestita dalla congregazione per far posto ad altri progetti urbanistici. (L.Z.)

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A Roma, 31.mo corteo storico-folkloristico "Viva la Befana"

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Riaffermare e tramandare i valori dell’Epifania: con questo obiettivo, torna il 6 gennaio a Roma il corteo storico-folkloristico “Viva la Befana”. La manifestazione, giunta alla 31.ma edizione, è promossa dall’Associazione "Europae Fami.li.a." (Famiglie libere associate d’Europa), insieme a molte altre associazioni di volontariato sociale, culturale e sportivo.  

Protagonisti i Comuni in provincia di Latina
“Nata nel 1985 per far reinserire la festività dell’Epifania nel calendario civile – informa una nota degli organizzatori – l’iniziativa vede, ogni anno, figuranti in veste di Re Magi provenienti da diverse località, a rappresentare l’universalità di questa Solennità, che celebra la manifestazione di Gesù ai popoli della Terra. Al loro seguito, le popolazioni protagoniste del corteo offrono a tutte le famiglie del mondo frammenti di storia, cultura, tradizioni, prodotti e risorse dei loro territori, per rinnovare l’antica tradizione del dono. Protagonisti dell’edizione 2016 sono i cittadini dei comuni di Maenza, Roccagorga, Sermoneta e Sonnino, in provincia di Latina.

Oltre mille figuranti in costume e i Re Magi su tre cammelli
Il programma della giornata prevede, alle ore 10.20, l’avvio del corteo storico-folkloristico con in testa i Re Magi, su tre cammelli, seguiti dai sindaci dei quattro Comuni, 1.300 figuranti in costume, una biga romana e alcuni cavalli. I partecipanti percorreranno via della Conciliazione fino a raggiungere Piazza San Pietro, per ascoltare, alle ore 12, l’Angelus di Papa Francesco. Parteciperanno, tra gli altri, la fanfara a cavallo dell’Arma dei Carabinieri e una folta rappresentanza di atleti olimpionici italiani. Dopo l’Angelus, i tre figuranti in veste di Re Magi recheranno al Pontefice alcuni doni simbolici dell’Epifania. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 5

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.