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Sommario del 24/02/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: potenti servano bene comune, prepotenti chiedano perdono

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Chi detiene potere e ricchezza li gestisca a servizio del bene comune e chi li usa come mezzo di sopraffazione e di sfruttamento abbia il coraggio di pentirsi e cambiare vita. È la sostanza della catechesi di Papa Francesco all’udienza generale del mercoledì, tenuta in Piazza San Pietro. Dio, ha detto il Papa, “è più grande” dei “giochi sporchi fatti dagli essere umani” e non nega il perdono a chi glielo chiede. Il servizio di Alessandro De Carolis

La medaglia che brilla con la sua faccia luminosa – il potere vissuto come servizio – e il suo rovescio, temibile e crudele, il potere arrogante “che diventa dominio e sopraffazione”, anche violenta.

Strumenti di giustizia o corruzione
Davanti alle circa 30 mila persone radunate in una soleggiata Piazza San Pietro, Papa Francesco spiega un aspetto della misericordia divina mettendolo a confronto con un dilemma antico quanto il mondo, quello dell’autorità esercitata per il bene di tutti o a vantaggio di qualche privata avidità:

“La ricchezza e il potere sono realtà che possono essere buone e utili al bene comune, se messe al servizio dei poveri e di tutti, con giustizia e carità. Ma quando, come troppo spesso avviene, vengono vissute come privilegio, con egoismo e prepotenza, si trasformano in strumenti di corruzione e morte”.

Un’antica storia attuale
Per spiegare questo assunto, Francesco attinge dalla Bibbia una storia emblematica di malaffare, violenza e pentimento. Il re d’Israele Acab ha messo gli occhi sul pezzo di vigna che confina col palazzo reale, di proprietà di un certo Nabot, che però rifiuta di cedergliela perché all’epoca, spiega il Papa, la proprietà della terra era considerata praticamente “inalienabile”. A soddisfare “il desiderio di possesso” del re frustrato ci pensa sua moglie, Gezabele, che ordisce una campagna pubblica di calunnie contro Nabot, che così viene condannato a morte. La sua terra adesso è tutta per il re:

“E questa non è una storia di altri tempi! È anche una storia d’oggi, dei potenti che per avere più soldi sfruttano i poveri, sfruttano la gente. È la storia della tratta delle persone, del lavoro schiavo, della povera gente che lavora in nero e con il minimo per arricchire i potenti. È la storia dei politici corrotti che vogliono più e più e più!”.

La misericordia guarisce le ferite
“Ecco dove porta l’esercizio di un’autorità senza rispetto per la vita, senza giustizia, senza misericordia”, osserva Francesco. Che racconta anche la fine della storia. Il re Acab, “messo davanti al suo peccato, capisce, si umilia e chiede perdono”:

“Che bello sarebbe che i potenti sfruttatori di oggi facessero lo stesso! Il Signore accetta il suo pentimento; tuttavia, un innocente è stato ucciso e la colpa commessa avrà inevitabili conseguenze. Il male compiuto infatti lascia le sue tracce dolorose e la storia degli uomini ne porta le ferite (…) La misericordia può guarire le ferite e può cambiare la storia”.

La tentazione dei privilegi
Guardiamo a Cristo, conclude Francesco, re che ha per trono “la croce”, “un re che non uccide, ma al contrario dà la vita”. E il suo esempio, soggiunge parlando ai pellegrini di lingua polacca, sia di stimolo per scrutarci nel cuore:

“Nel cammino quaresimale dell’Anno della Misericordia, facciamo l’esame di coscienza e domandiamoci quanto nel nostro modo di pensare, di valutare e di agire influisce la tentazione di abusare del potere sugli altri o di approfittare dei privilegi”.

Tra i saluti finali ai gruppi in Piazza, il Papa ne ha rivolto uno in particolare ai vescovi amici del Movimento dei Focolari, riuniti per l’annuale convegno, alla Comunità Giovanni XXIII con il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi e agli ex-operai della Videocon di Anagni.

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Nomina di vescovo coadiutore in Brasile

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In Brasile, Papa Francesco ha nominato coadiutore della prelatura di Borba padre Zenildo Luiz Pereira Da Silva, dei Redentoristi, finora parroco della Cattedrale “Santana e São Sebastião” nella diocesi di Coari. Il presule è nato il 6 giugno 1968, a Linhares, diocesi di Colatina (Espírito Santo). Quando aveva cinque anni la famiglia si è trasferita alla città di Cacoal, diocesi di Ji-Paraná, nello Stato di Rondônia. Ha emesso i voti religiosi il 27 dicembre 1997 nella Congregazione del Santissimo Redentore (Redentoristi), ed è stato ordinato sacerdote l’11 agosto 2001 a Cacoal. Ha frequentato la Scuola Media nel seminario dei Redentoristi ad Aparecida. Poi ha frequentato i Corsi di Filosofia e Teologia presso il CENESCH – “Centro de Estudos do Comportamento Humano”, a Manaus (1994-2000). Inoltre ha frequentato un corso in “Gestão de Pessoas”, Literatus, a Manaus. Nel corso del ministero sacerdotale, è stato Parroco della parrocchia di “Nossa Senhora de Nazaré” a Manacapuru, diocesi di Coari (2001-2008); Parroco della parrocchia “Nossa Senhora do Perpétuo Socorro” a Manaus (2008-2011) e Superiore della Vice-Provincia Redentorista dell’Amazzonia (2011-2014). Attualmente è Parroco della Cattedrale di “Santana e São Sebastião”, a Coari.

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Temi internazionali e unioni civili nel vertice tra Italia e Santa Sede

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I temi internazionali sono stati al centro dei colloqui tra Italia e Santa Sede ieri sera a Roma a Palazzo Borromeo, durante la tradizionale celebrazione dell'anniversario dei Patti Lateranensi. Buono il clima tra le parti, hanno in sostanza ribadito il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il premier Matteo Renzi. Sullo sfondo anche il ddl Cirinnà sulle unioni civili. Il servizio di Alessandro Guarasci

E' un'ipotesi corretta lo stralcio della "stepchild adoption" (adozione del figliastro), anche se le unioni civili non vanno equiparate ai matrimoni tra uomo e donna. A margine della cerimonia dei Patti Lateranensi, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin affronta uno dei temi caldi della politica italiana. Un argomento che comunque durante il vertice è stato solo evocato, non si è entrati nella discussione. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi:

“Molto bene. E’ stato un incontro importante e significativo. Credo che tanti siano gli argomenti dove la collaborazione è davvero proficua e positiva. Sulle unioni civili, come è noto, le posizioni tra il Governo italiano e la Conferenza episcopale non coincidono su molti aspetti”.

L’opinione della Cei va rispettata dice Renzi. Il premier ha poi ricordato il ruolo cruciale che sta avendo a livello planetario Papa Francesco: "Quando ho visitato Cuba - ha detto il premier - mi sono reso conto che senza la visionaria lucidità di Papa Francesco probabilmente non si sarebbe arrivati a quell’accordo storico". Ma sono stati soprattutto i temi internazionali a dominare la scena. Dunque, il Mediterraneo, la stabilità dell'area con quanto sta succedendo in Siria, concordando "sull'importanza di arrivare a un cessate il fuoco". Ma non solo, dice il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi:

“Apprezzamento anche per l’impegno della Chiesa e dell’ispirazione del Papa sul tema dei migranti, di quello si è parlato, effettivamente; i problemi delle scuole paritarie, delle loro difficoltà. C’è il fatto che le scuole paritarie hanno molti portatori di handicap, ma non hanno il sussidio per la situazione dei portatori di handicap”.   

Ed ancora gli sviluppi dell'accordo fiscale e la riforma dei cappellani militari.

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Padre Lombardi: "I miei 25 anni alla Radio Vaticana"

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Il nostro direttore generale, Padre Federico Lombardi, dopo 25 intensi anni di servizio lascia a fine febbraio la Radio Vaticana. Era arrivato nell'emittente nel 1990 come direttore dei programmi, quindi nel 2005 era stato nominato direttore generale. I superiori nel 2001 gli affidarono il Centro Televisivo Vaticano e dal 2006 la direzione della Sala Stampa vaticana, incarico che ancora conserva. Al microfono di Roberto Piermarini, in questa lunga intervista Padre Lombardi ripercorre i suoi 25 anni alla Radio Vaticana: 

R. - Quando sono venuto alla Radio non conoscevo direttamente il mondo vaticano, ma prima di essere Provinciale dei gesuiti italiani ero stato alla Civiltà Cattolica per oltre 10 anni e come per altri gesuiti prima di me (penso in particolare ai Direttori Padri Martegani e Tucci) questa era stata un’ottima scuola preparatoria per affrontare le questioni della informazione e comunicazione in sintonia con il servizio del Papa e della Santa Sede. Oltre a seguire con continuità e da vicino l’attività del Papa come non avevo mai fatto, per me le novità più affascinanti erano l’orizzonte mondiale dell’attività di informazione della Radio e la grande internazionalità della comunità di lavoro, con personale di 60 nazionalità, con culture, lingue e alfabeti diversissimiInoltre dovevo abituarmi a un genere di espressione diverso da prima: non più lunghi articoli molto documentati, ma pezzi brevissimi, da dire in uno o due minuti. Un’espressione il più sintetica e il più chiara possibile: in questo credo che la mia formazione matematica mi abbia un poco aiutato. Nei primi 15 anni, dal 1991 al 2005, sono stato Direttore dei programmi, e l’aspetto prevalente è stato l’attenzione ai contenuti informativi, ma non meno la grande vicinanza alla vita delle redazioni e alle molte persone che le costituivano. Rapporti umani molto intensi e profondi, soprattutto con redattrici e redattori, ma anche con tecnici con cui avevo rapporti frequenti anche se non dipendevano direttamente da me. Devo dire che questo forse è stato il periodo più “felice”, in cui ho potuto dedicarmi a tempo veramente pieno alla missione della Radio Vaticana, da mattina a sera praticamente ogni giorno, quasi senza interruzione.

D. - Ma in seguito Lei ha avuto anche altri compiti…

R. - E’ vero. Dal 2001, i Superiori per diverse circostanze mi hanno affidato anche il CTV e dal 2006 si è aggiunta pure la Sala Stampa. Ma dal 2005, con la partenza del P.Borgomeo, sono stato nominato Direttore generale, e questo rispetto a prima era un compito per certi aspetti più amministrativo, che richiedeva meno vicinanza continua alle persone, e quindi in certo senso anche più compatibile con gli altri compiti che mi erano stati affidati nel frattempo e che naturalmente richiedevano una parte consistente del mio tempo. Sommariamente in una giornata normale mi dividevo più o meno così: primo mattino e pomeriggio/sera alla Radio, centro della mattina alla Sala Stampa, fine mattinata al CTV. C’era molto da fare, ma non ho mai pensato di chiedere di lasciare la Radio Vaticana. E’ la missione per cui i miei superiori religiosi mi hanno inviato a servire in Vaticano. L'ho sempre considerata la prima e fondamentale, e mi sono sempre ritenuto impegnato alla fedeltà al servizio delle persone che per prime mi erano state affidate. Naturalmente ho cercato di fare con tutto l’impegno possibile anche gli altri compiti, molto importanti, ma la mia “casa” in Vaticano è sempre rimasta la Radio.

D. - In tanti anni non saranno mancate le difficoltà…

R. - Le difficoltà non mancano mai. Il tempo più travagliato – per quanto riguarda specificamente la Radio – è stato quello delle discussioni e accuse per il cosiddetto “elettrosmog”, per l’attività del Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria. La questione esplose alla fine del Grande Giubileo, nel gennaio del 2001, fu caldissima per diversi mesi, fino all’estate, poi continuò ancora a lungo ma con intensità più ridotta. Naturalmente era duro essere accusati – in modo certamente ingiusto – di fare del male, perfino di uccidere i bambini; ma per fortuna avevamo la coscienza a posto e credo che proprio per questo sapemmo sostenere la prova con responsabilità, pazienza, serietà morale e competenza scientifica.

D. - Quali sono le cose che le hanno fatto più piacere, o rispettivamente più dispiacere in questi anni?...

R. - Quelle che mi davano la gioia più grande erano le testimonianze di ascoltatori che vivevano in situazioni difficili e riuscivano a farci arrivare un messaggio di gratitudine per il nostro servizio. Ricordo le lettere di una infermiera volontaria laica in Somalia, sola in un mondo nella totalità musulmano, che ci ascoltava regolarmente…ricordo le 40.000 lettere di gratitudine arrivate dall’Ucraina nel primo anno dopo la caduta del regime sovietico…e per fortuna gli esempi si potrebbero moltiplicare a lungo. Per contrasto il dispiacere più grande che continuo a portare con me è quello di non aver potuto realizzare un programma in lingua hausa. Era molto intensamente richiesto dai Vescovi della Nigeria settentrionale, una regione che come sappiamo oggi è teatro di violenze e tensioni, dove imperversano i Boko Haram. Io lo avevo già organizzato, praticamente a costo zero, contando su collaborazioni volontarie di religiosi nigeriani a Roma e su contributi realizzati in uno studio radio cattolico in Nigeria. Avrebbe potuto essere ascoltato bene, e l’unico costo aggiuntivo sarebbe stato quello dell’energia elettrica per trasmetterlo, non più di 10.000 Euro in un anno (meno di 30 Euro al giorno…). Avevamo già fatto la prima trasmissione e mi fu imposto di sospenderlo – ritengo per la preoccupazione che la Radio non si “allargasse”…Per i nigeriani fu una delusione molto grave. Per me fu una decisione sbagliata, contraria alla comprensione di una vera necessità umana ed ecclesiale a cui potevamo dare una risposta piccola ma significativa, di attenzione e di sostegno per popolazioni povere e provate…

D. - Ma a parte questo insuccesso, la Radio Vaticana ha fatto molto in questo senso nella sua storia…

R. - Sì. Questo era un caso tipico dei servizi che si potevano – posso dire ancora si possono? – fare con le onde corte e solo con esse. E questo è il motivo per cui noi – anche io personalmente – ne ho difeso pervicacemente l’uso fino ad oggi e sono immensamente grato ai colleghi del Centro di Santa Maria di Galeria che hanno svolto il loro compito con eminente competenza e dedizione, conservando l’operatività del loro Centro – nel suo genere un vero gioiello! - con rigorosa economicità. Naturalmente mi è del tutto chiaro che le tecnologie della comunicazione hanno aperto nuovi spazi importantissimi, e oggi vitali e preponderanti, verso cui bisogna assolutamente riorientare moltissime risorse. Ma nel DNA della Radio Vaticana e della sua missione fin dalle origini e poi in particolare nel tempo della Chiesa oppressa dai totalitarismi, soprattutto comunisti, c’è stato sempre il servizio dei cristiani oppressi, dei poveri, delle minoranze in difficoltà, piuttosto che la sudditanza assoluta all’imperativo della massimizzazione dell’audience. Naturalmente la misura dell’audience va tenuta in conto adeguato, ma non è tutto. Spero che questo non venga dimenticato neanche in futuro nel discernimento sugli sviluppi della comunicazione vaticana. E’ una bella sfida: come tener veramente presenti i poveri, come combattere la “cultura dello scarto” nel mondo nuovo della nuova comunicazione.

D. - Ma Lei è d’accordo che una riforma della comunicazione vaticana era ed è necessaria, e che questo farà cambiare profondamente la Radio Vaticana in cui Lei ha vissuto?...

R. - Certamente, la grande evoluzione nella comunicazione si è imposta anche per i media vaticani ed è per questo che la riforma era necessaria e va realizzata con coraggio, con la consapevolezza e l’apprezzamento della nuova cultura e delle nuove tecnologie che la caratterizzano.
Per questo, soprattutto dai secondi anni novanta alla Radio abbiamo fatto un grande sforzo per entrare nel mondo della comunicazione digitale e della multimedialità, non abbiamo più pensato solo alla produzione di programmi audio, ma abbiamo sviluppato un grande sito multilingue e la presenza nella rete in diverse forme, compreso infine anche l’uso intenso dei social media, passando così dalla unidirezionalità della comunicazione alla interazione. Tanto che quando festeggiammo il 75° della RV nel 2006, io cercai di far passare il discorso che noi ci chiamavamo sì ancora “Radio Vaticana”, ma in realtà non eravamo più una radio nel senso stretto del termine, eravamo diventati un importante centro di produzione di informazioni e approfondimenti multilinguistico e multiculturale che diffondeva il suo servizio con le tecnologie e le forme più appropriate per raggiungere il pubblico nelle diverse parti del mondo: come aveva fatto Pio XI con Marconi, usando le tecnologie più innovative del tempo, così noi facevamo oggi. In realtà io ho amato il nome della Radio Vaticana, che esprime una grande storia, ma nei tempi recenti ho sentito questo nome in certo senso come una trappola, una fonte di equivoco: perché lasciava pensare che noi fossimo bloccati a produrre solo programmi audio per la diffusione radiofonica tradizionale e questo rinforzava naturalmente le obiezioni dei critici, che ci accusavano di spendere molto per un’attività limitata a un medium solo e per di più tradizionale. Questo non era affatto vero, e se solo si guarda il nostro sito lo si capisce. Ma in ogni caso io credo che sia bene ora andare aldilà del nome “Radio Vaticana”, per liberarci dal peso di questo equivoco. Nella riforma in corso questo avverrà naturalmente.

D. - Insomma, Lei vede bene la riforma in corso?...

R. - La riforma è certamente benvenuta. Tutte le volte che mi si diceva che bisognava fare esami e cambiamenti della Radio Vaticana – ad esempio nelle famose riunioni del “Consiglio dei 15 cardinali per lo studio della situazione economica” - rispondevo che certamente erano sempre necessari, ma che ciò avrebbe dovuto avvenire nel contesto di un esame e di una riforma complessiva dei media vaticani, poiché essi venivano da una storia in cui erano nati successivamente e separatamente, come media specifici, mentre ora siamo entrati nel mondo della multimedialità e della convergenza digitale. Quindi sono perfettamente d’accordo che si proceda e mi pare che l’approccio complessivo adottato sia corretto. E’ anche giusto che ne portino la responsabilità persone più giovani di noi, più aperte e più convinte delle possibilità del nuovo.

D. - Si è parlato spesso dei risparmi economici che la riforma dovrebbe portare…

R. - E’ vero, anche se non bisogna dimenticare che l’impegno per il risparmio non comincia da oggi. Alla Radio dal 2003 si è attuato un piano regolare di riduzione del personale complessivo, profittando soprattutto dei cambiamenti tecnologici ma senza licenziare nessuno, che ha comportato la riduzione di circa 70 unità pur conservando la sostanza della produzione dei contenuti informativi. Quindi, a parte la già prevista e da tempo avviata riduzione dell’attività di trasmissione in onde corte e a parte certe indubbie possibilità di risparmio conseguente alla razionalizzazione e al buon coordinamento di certe attività, dubito che si possano fare risparmi radicali senza rinunciare ad attività importanti. Per quanto riguarda la Radio poi, essa ha in realtà garantito una notevole quantità di servizi diversi, che non si limitano affatto alla produzione e diffusione radiofonica. Ad esempio: servizi di produzione e diffusione dell’audio nelle cerimonie e attività vaticane, documentazione al servizio non solo delle proprie redazioni, ma anche più ampiamente dei media vaticani e non, rappresentanza del Vaticano nel mondo delle telecomunicazioni e dei broadcasters internazionali, interpretariato e traduzioni in diverse lingue richieste dalla Segreteria di Stato, ecc. Tutti questi servizi si possono riorganizzare e redistribuire nel più ampio contesto della riforma, ma se non si vogliono eliminare avranno bisogno di personale e strumenti come prima, e in certi casi anche più di prima…E allora i costi continueranno ad esserci, anche se non saranno più imputati alla “Radio Vaticana”… Insomma non bisogna illudersi di poter fare molto di più e meglio investendo meno risorse. La comunicazione costa e continuerà a costare, ma è giusto e necessario continuare ad investire in essa, se no la riforma verrà costretta in una gabbia troppo stretta.

D. - Il prossimo passo della riforma prevede un “accorpamento” di Radio Vaticana e CTV. Lei conosce il CTV, che cosa prevede?...

R. - Sono molto contento di questa prospettiva, che è del tutto naturale. Come Lei ricordava sono stato per oltre 11 anni Direttore anche del CTV, che è stato per me come una seconda famiglia dopo quella della Radio. In quel periodo il mio mandato era di promuovere “sinergie”, ma non è mai stato di pensare a una integrazione, quindi ho cercato di sviluppare la buona collaborazione senza alterare la identità distinta delle due entità. Ma una integrazione è - come dicevo - naturale. Quando si vede una diretta televisiva si vedono immagini e si ascoltano i suoni, le parole del Papa. Finora nello stesso evento le immagini sono prodotte da una istituzione (il CTV) e i suoni da un’altra (la Radio). Strano no? Non per nulla in quasi tutti i Paesi si parla di “Radiotelevisione”. Ma in realtà in ogni caso noi collaboravamo da sempre gomito a gomito. Un’altra dimensione in cui si è lavorato molto insieme è stata quella della presenza nella rete: così i Canali su Youtube, le Videonews degli eventi vaticani, ecc. sono stati sviluppati insieme. Le persone si conoscono e sono abituate a lavorare insieme: non ci sarà difficoltà a sentirsi ancora più strettamente uniti. Faccio solo una considerazione: la piccola dimensione del CTV dal punto di vista del numero del personale gli ha garantito sempre una grandissima agilità di movimento, progettazione e decisione. La “scala gerarchica” era cortissima: era quindi facile decidere e agire…Un organismo più complesso e grande può avere qualche rischio di pesantezza in più. Credo che una delle sfide della riforma sia di  integrare e coordinare i diversi enti mediatici senza appesantire e complicare. Mi auguro che ci si riesca bene.

D. - A suo avviso, quali sono le eredità principali che la Radio Vaticana consegna alla nuova realtà della comunicazione vaticana?

R. - Direi due anzitutto: una culturale e una umana. Dal punto di vista culturale la Radio ha sviluppato e custodito nella sua storia un’eccezionale ricchezza di comunicazione multilinguistica e multiculturale, per inculturare il messaggio dei papi e della Chiesa in molte culture diverse: quasi 40 lingue, in una quindicina di alfabeti diversi, come si vede subito se si dà uno sguardo al sito. Si tratta di una esperienza preziosa dal punto di vista ecclesiale; un laboratorio di unità nella varietà: unità della missione, varietà delle lingue. Vivere alla Radio è una scuola di universalità cattolica. Ritengo che questa ricchezza vada conservata, e sono contento che ciò sia riconosciuto anche nelle linee della riforma. Penso che una sua riduzione per motivo di risparmio economico sarebbe in realtà un vero impoverimento della comunicazione vaticana. In realtà credo che il senso acuto della missionarietà della Chiesa possa farci trovare altre vie per non ridurre la varietà, anzi per arricchirla ancora. Ne abbiamo un segno recente nell’apertura della nuova pagina web coreana nel sito della Radio, da me desiderata da molto tempo e infine realizzata senza spese aggiuntive di personale grazie all’appoggio dell’Ambasciata presso la Santa Sede e della Conferenza episcopale. Sono molto contento che il Prefetto della Segreteria per la Comunicazione e la Segreteria di Stato abbiano accolto con favore questo progetto. Penso che in questa direzione si possa e si debba continuare ad aprire nuovi orizzonti della nostra missione.

D. - Diceva anche una eredità umana. Che cosa intendeva?

R. - Intendo che la comunità di lavoro della Radio, pur nella sua eccezionale complessità per diversità di età e di culture, ha fatto un lungo e non facile cammino di conversione – delle persone e dei gruppi operativi – per passare dalle tecnologie e dai modi di lavorare tradizionali a quelli odierni. Quando sono arrivato alla Radio si usavano solo macchine da scrivere e registratori a nastro: oggi i nostri giovani non sanno neanche che cosa siano…ricordo un viaggio che facemmo in Svizzera con un gruppo di lavoro di tecnici e di redattori per vedere e studiare i primi sistemi di elaborazione ed editing digitale dell’audio per scegliere il nostro…Quanta strada si è fatta insieme! E ora ci sono più di trecento persone dedicate e motivate, che desiderano continuare a impegnarsi per il servizio della Santa Sede con le loro capacità umane e professionali e con la loro motivazione ecclesiale. Vanno accompagnate e valorizzate per quanto possibile. I responsabili della riforma hanno assicurato più volte la stabilità dei posti di lavoro e mi sembrano molto orientati a offrire possibilità di miglioramento e qualificazione professionale. Questo è molto buono. Ora che la riforma si è messa in cammino, se si riuscirà anche a sbloccare lo stallo, ormai un po’ prolungato, dei giusti riconoscimenti di stabilità dei contratti e dei livelli di inquadramento adeguati, si contribuirà alla serenità del clima di lavoro e all’entusiasmo nell’impegno di tutti per camminare per strade nuove e raccogliere nuove sfide di servizio ecclesiale.

D. - Lei è stato l’ultimo Direttore gesuita della Radio Vaticana. Come vivono i gesuiti questa situazione?

R. - Grazie di aver evocato il servizio della Compagnia di Gesù alla Radio Vaticana. E’ un aspetto importante di questi oltre 80 anni di storia, perché fin dall’inizio i Papi la hanno affidata ai gesuiti. Vi sono state figure eminenti nel corso di questo cammino: pensiamo a Gianfranceschi, Soccorsi, Stefanizzi, Martegani, Tucci, Borgomeo e tanti altri, come Pellegrino, Farusi, Quercetti, Maffeo, Giorgianni, Moreau, Matis e più recentemente Arregui, Gemmingen, Koprowski e così via…Tutte persone che sono state felici di dedicare generosamente al servizio del Papa e della Chiesa le loro forze migliori, in certi casi veramente la loro vita. Mi si permetta di dire anche una parola sullo spirito di questo servizio, che siamo sempre stati fieri di svolgere in modo veramente disinteressato. Non lo abbiamo mai sbandierato, ma è vero che il gruppo dei gesuiti in servizio alla Radio non è inquadrato dal punto di vista retributivo come il normale personale vaticano, ma il compenso che viene versato alla loro comunità è calcolato su standard assai inferiori a quelli corrispondenti del personale normale, laico o religioso, permettendo così un risparmio economico non indifferente. E potrei pure aggiungere che portare la responsabilità di una istituzione che ha per natura sua costi considerevoli e non ha praticamente entrate possibili, mette nella condizione un po’ disagevole di dover chiedere sempre molti soldi e non portarne mai. Non molti avrebbero accettato con disponibilità questa situazione per decenni, esponendosi a critiche e obiezioni. Ma noi lo abbiamo fatto senza incertezze, credendo nella missione ricevuta, e credo che nonostante tutto abbiamo fatto anche un buon lavoro insieme ai nostri carissimi colleghi, impiegati, redattori e tecnici. Ora, nel contesto della riforma, il Papa ha manifestato il desiderio che i gesuiti continuino un servizio nel campo della comunicazione; ma non esistendo più la Radio Vaticana, che era loro affidata per Statuto, bisognerà vedere come si possa identificare chiaramente una nuova area di responsabilità dei gesuiti. E’ una questione aperta, di cui i Responsabili della Segreteria per la Comunicazione sono del tutto consapevoli e che certamente approfondiranno in dialogo con i Superiori della Compagnia di Gesù. Intanto, i gesuiti continuano a lavorare serenamente con i loro colleghi e assumendosi le loro responsabilità nell’ambito dell’attività redazionale, informativa e comunicativa di competenza della “Direzione dei Programmi”, affinché il processo di rinnovamento possa svolgersi nel modo migliore. Quindi, andiamo avanti con fiducia, perché la strada diventerà sempre più chiara percorrendola insieme con tutta la buona volontà possibile.

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P. Campbell: nel libro di Francesco per bambini c’è tutto il suo cuore

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Dal 25 febbraio nelle librerie italiane “L’amore prima del mondo”, volume che raccoglie le risposte di Papa Francesco a 30 lettere di bambini, dai 6 ai 13 anni, di tutti i continenti. Edito in Italia dalla Rizzoli, il libro è stato ispirato e voluto dalla “Loyola Press”, la Casa editrice della Compagnia di Gesù negli Usa, e realizzato grazie a padre Antonio Spadaro che ha rivolto le domande dei bambini al Papa e ne ha raccolto le risposte. Sull’importanza di questo piccolo ma prezioso volume, Alessandro Gisotti ha intervistato il padre gesuita Paul Campbell, direttore editoriale della “Loyola Press”:

R. – A group of our editors were having a meeting…
Un gruppo di nostri direttori stava partecipando ad un incontro ed una delle idee è stata: “Non sarebbe meraviglioso se il Santo Padre, Papa Francesco, scrivesse un libro per bambini? Sì, sarebbe un’idea meravigliosa, ma come si potrebbe raggiungere il Santo Padre per proporgli questa idea?” Bene, è successo. Io conosco, infatti, padre Antonio Spadaro, il direttore di “Civiltà Cattolica”. E Antonio Spadaro, dopo averne parlato con il Papa, ci ha detto: “Il Santo Padre amerebbe scrivere quel libro e vuole sapere quando potrà avere le lettere dei bambini”. Quindi noi ci siamo subito dati da fare per raccogliere le lettere dei bambini di tutto il mondo. Avevamo bisogno e volevamo bambini da tutto il mondo, sia cristiani che non.

D. – Papa Francesco ha detto una volta che le domande più difficili che gli sono state rivolte sono quelle dei bambini. E' molto interessante questa prospettiva…

R. – One of the lines that describes this book…
Uno degli aspetti che descrive questo libro è che "i bambini piccoli hanno grandi domande". Ryan dal Canada, non cristiano, chiede: “Cosa faceva Dio prima di creare il mondo?”, che è una domanda davvero profonda. Luca, dall’Australia: "La mia mamma è morta, le cresceranno ali d’angelo?". Il Santo Padre ha detto: “Le domande dei bambini portano a rivolgerci grandi domande all’interno di noi stessi”. Quindi, sì, sono domande fatte da bambini piccoli, ma sono molto, molto profonde. E il Santo Padre è stato molto chiaro: è terribilmente difficile rispondere a queste domande!

D. – Come editore di questo libro, nella versione inglese - il titolo è “Dear Pope Francis” - quali sono le sue aspettative, pensando ai lettori adulti e bambini di questo libro?

R. – This is the first time…
Questa è la prima volta che un Papa ha scritto un libro per bambini. Ma questo non è solo un libro per bambini, perché i bambini fanno domande talmente profonde: il Santo Padre risponde non solo ai bambini, mai ai loro genitori, ai loro nonni e a tutti quelli che loro amano. Il messaggio del Papa è un messaggio tutto di misericordia, compassione, speranza ed amore. E nel nostro mondo, oggi, ogni singola persona ha bisogno di ascoltare un messaggio d’amore. E la mia speranza per il libro è che il messaggio del Papa raggiunga più persone possibili.

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P. Bentoglio: da comunità umana e Chiesa, mano tesa a migranti

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È l’intera comunità umana, insieme alla Chiesa, a essere “investita” del dovere di "tendere la mano" ai migranti e ai rifugiati. Lo ha sottolineato padre Gabriele Bentoglio, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenuto al Convegno su "Religiosi e migrazioni nel XXI secolo", presso la Casa generalizia dei Passionisti a Roma.

Responsabilità verso i migranti
All’incontro, religiosi da tutto il mondo hanno condiviso da lunedì scorso le loro esperienze sulla comune responsabilità verso i migranti, ascoltando anche chi ha una conoscenza più approfondita della realtà attuale. Prendendo in esame il Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2016, svoltasi il 17 gennaio scorso, padre Bentoglio ha esortato ad operare sul fronte dell’accoglienza, “ma prima ancora sulle ragioni che stanno all’origine della mobilità”, sia volontaria sia forzata.

Decine di milioni di rifugiati e sfollati
Di fronte agli oltre 19 milioni di rifugiati nel mondo, ai 38 milioni di sfollati all’interno dei loro Paesi, e ai quasi 2 milioni di persone in attesa dell’esito delle domande di asilo, il Messaggio del Pontefice, ha ricordato il sotto segretario del dicastero vaticano, indica la risposta del Vangelo della misericordia: siamo invitati a riscoprirlo nel tempo del Giubileo straordinario “non come buonismo spirituale e intimistico, ma - ha concluso - come impegno serio e concreto per rispondere alle migrazioni attuali, specialmente quando si tratta di situazioni drammatiche causate da ingiustizia, egoismo e interessi che distruggono e provocano morte”. (G.A.)

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Giochi di potere: all'udienza generale il monito del Papa contro l'arroganza e i soprusi.

In viaggio tra le chiese lignee di Chiloè: dal Cile, l'inviata Giulia Galeotti sull'arcipelago delle meraviglie.

Sergio Astori sulla lezione materna: sguardo di Gesù su uomini, donne e bambini.

Fermezza e flessibilità: Maurizio Gronchi sul dialogo tra diritto canonico e teologia.

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Oggi in Primo Piano



Libia, barbare esecuzioni dell'Is. Italia appoggio a Usa

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All’indomani dell’ennesimo rinvio per il voto di fiducia al governo di concordia nazionale in Libia, i jihadisti hanno preso per qualche ora stamane il controllo del quartier generale della sicurezza a Sabrata nell'ovest del Paese, decapitando 12 guardie prima di essere respinti. Un blitz che ne dimostra l’aggressività e l’imprevedibilità e che continua ad alimentare l'idea di un intervento armato internazionale massiccio. L'Italia ha dato il via libera all'uso delle basi di Sigonella per i droni Usa d'attacco e la Francia, secondo la stampa locale, condurrebbe già in Libia raid mirati, azioni discrete, anche segrete, per indebolire lo Stato islamico. Intanto a est, intorno alla città di Bengasi, continua l'offensiva anti-jihadista delle truppe del generale Haftar, che guadagna terreno. Sulla potenza effettiva dell'Is a partire da quanto accaduto a Sabrata, Gabriella Ceraso ha raccolto il parere di Antonio Maria Morone, docente di Storia e istituzioni dell'Africa all’Univeristà di Pavia: 

R. – In effetti, a Sabrata sono state documentate attività chiamiamole "jihadiste", perlomeno a partire dal 2012. Evidentemente, questo trend dimostra una grande capacità dell’Is di radicarsi in punti sensibili del Paese. Negli ultimi mesi, questa capacità si è ampliata e si è sempre più messa in contatto con una "internazionale della jihad", che è sempre più una multinazionale: tunisini, siriani, probabilmente afghani, persone che provengono dall’Africa subsahariana, legati sia con Boko Haram che con altri movimenti jihadisti nell’area sahelo-sahariana.

D. – Ma la loro presenza giustifica un intervento militare internazionale più compatto, visto che intanto a livello di governo e di gestione politica siamo lontanissimi da un controllo?

R. – Io personalmente rimango dell’idea che un intervento di ampio respiro in Libia non sia la soluzione, anzi probabilmente aggraverebbe la situazione nella misura in cui di fronte a un intervento internazionale – che per molti libici sarebbe comunque vissuto come una aggressione, specie dopo un lungo percorso di rivolta interna contro il regime – questo intervento internazionale non farebbe altro che portare un’amplissima parte della popolazione, che oggi è neutrale o tiepida verso l’appello dell’Is, verso quel tipo di appello e probabilmente causerebbe l'unione intorno all’Is di una coalizione sempre più ampia di forze contro l’intervento occidentale.

D. – E’ di queste ore la discussione in Italia del “sì" da parte di Renzi a droni da Sigonella, droni ovviamente armati e statunitensi, con determinate limitazioni. Che giudizio dà su questa decisione italiana?

R. – L’Italia dimostra di essere sempre perlomeno a disagio, diciamo così, rispetto alla Libia. Fin dal 2011, e quindi con una certa continuità, l’Italia ha sempre avuto un atteggiamento molto defilato e direi a tratti ambiguo sull’intervento, tanto più che noi nel 2008 avevamo firmato un Trattato nel quale ribadivamo il nostro impegno come Paese a non fornire il nostro territorio nazionale per eventuali aggressioni contro la Libia. Si è venuto meno a questo accordo già nel 2011 e verosimilmente questo continua a essere fatto, ma con una indecisione di fondo: da un lato si vorrebbe evitare un intervento, perché si sa bene che l’Italia, in quel caso, non potrà che essere in prima fila. Dall’altra parte, però, l’Italia non ha il peso politico per dire definitivamente un “no” a un intervento internazionale in Libia e aprire a una altra soluzione prettamente politica.

D. – Quindi, questa decisione del premier è un “nì”?

R. – Direi propri di sì. E' una posizione che sembra sempre al seguito di altri, piuttosto che imporre una linea italiana cui eventualmente altri Paesi potrebbero aderire.

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Siria. Assad conferma la tregua. l'Is avanza verso Aleppo

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In Siria, il regime di Assad si è detto pronto a rispettare il cessate-il-fuoco concordato per il 27 febbraio prossimo, mentre in video conferenza i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania hanno ribadito il loro impegno per una transizione politica nel Paese. Il servizio di Massimiliano Menichetti: 

Febbrile il lavoro delle cancellerie di tutto il mondo per arrivare al cessate-il-fuoco mediato tra Russia e Stati Uniti per sabato prossimo in Siria. Il regime guidato da Bashar al Assad si è detto pronto a rispettare la tregua ad eccezione della lotta contro i jihadisti del sedicente Stato islamico (Is), al Nusra e le organizzazioni ad essi collegate. Oggi conferme in tal senso sono venute dal Cremlino, che ha riferito di una telefonata tra il presidente russo, Putin, e l'omologo siariano, Assad. Lo scenario attuale in Siria vede i bombardamenti della coalizione internazionale contro i ribelli assieme all’offensiva di terra dell’esercito siriano in quasi tutto il nord del Paese. In questo quadro di devastazione, l’Is avanza anche verso Aleppo. Oltre 270 mila i morti in cinque anni di conflitto, migliaia gli scomparsi, 11 milioni i profughi interni ed esterni al Paese. E ieri in videoconferenza il presidente Usa, Barack Obama, il premier britannico, David Cameron, il presidente francese, Francois Hollande, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, hanno fatto il punto sulla crisi, ribadendo il loro impegno per una transizione politica, sottolineando l'importanza della missione Nato e il coordinamento tra Grecia e Turchia per gestire il flusso dei migranti verso l'Europa.

Sulla tregua di sabato abbiamo raccolto il commento di Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa: 

R. – E’ una tregua a metà, se non a un quarto: nel senso che uno dei nodi del contendere – che è stato tale negli ultimi mesi – è stato proprio quello di identificare che cosa sia terroristico oppure no. Non dimentichiamoci che, oltre appunto allo Stato islamico e ad al-Nusra, che rappresenta il braccio ufficiale di al-Qaeda in Siria, ci sono altri gruppi radicali che, soprattutto nella provincia di Idlib, intorno ad Aleppo, combattano al fianco di al-Nusra e che sono altrettanto radicali, ma che sono supportati da Turchia e da Arabia Saudita: mi riferisco in particolare ad al-Aralsham. Per cui, se nell’intenzione di Assad c’è quella di continuare a combattere questi gruppi, credo che si vada poco lontano. Come si può andare poco lontano se i ribelli siriani continuano a chiedere come precondizione per negoziare l’uscita di scena di Assad, che adesso non è una opzione credibile.

D. – Secondo lei, ci sono anche delle realtà sotterranee che tengono vivo questo conflitto, oltre alla complessità che si riesce a vedere?

R. – Questo è un conflitto che si gioca su più livelli, quello locale e poi quello regionale e internazionale. Quello regionale con il grande conflitto tra Arabia Saudita, Iran e in parte Turchia e quello internazionale con la contrapposizione tra Occidente e Russia e soprattutto tra Turchia e Russia, che oggi è probabilmente una delle variabili più importanti per leggere e capire il conflitto siriano.

D. – Ieri, la telefonata tra Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Germania: si è parlato anche di una transizione politica in Siria. Che significa, questo, concretamente?

R. – Ho la sensazione che, in qualche misura, i Paesi europei e l’Occidente restino prigionieri delle proprie scelte compiute soprattutto nel 2013 e negli scorsi anni, quando si pensava che Assad dovesse cadere da un momento all’altro e si faceva dell’uscita di scena di Assad il punto centrale di ogni approccio e di ogni politica sulla Siria. Oggi non è così. Assad ha recuperato terreno, è stato rafforzato dall’intervento russo e non si può parlare come ho detto – almeno in questo momento – di uscita di scena di Assad. Si può parlare di un percorso, un percorso politico che in qualche misura può portare nel prossimo futuro e nei prossimi mesi anche alla sua uscita di scena. Ma pensare che la questione siriana si risolva se Assad se ne va, sarebbe un errore. Questa guerra che si avvia a entrare nel quinto anno è un conflitto feroce e soprattutto di una complessità senza precedenti.

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Barack Obama: chiudiamo il carcere di Guantanamo a Cuba

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“Con la chiusura di Guantanamo, archiviamo un periodo della nostra storia”. Sono le parole del presidente, Barack Obama, che ieri ha annunciato al Congresso Usa la volontà di chiudere la base americana in territorio cubano, trasformata nel 2002 in supercarcere dopo gli attentati dell’11 settembre. In piena corsa alla Casa Bianca, la decisione sta suscitando le critiche di parte repubblicana. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Fernando Fasce, docente di Storia contemporanea all’Università di Genova: 

R. – Mi pare che l’utilità sia nel fatto di voler chiudere con la pesante eredità dell’era George W. Bush e quindi confermare il tentativo di Obama, pur tra molte incertezze e molti errori, di provare a restituire agli Stati Uniti una politica estera di ispirazione multilaterale.

D. – Rimane in piedi il problema di 91 detenuti in carcere a Guantanamo ancora senza processo…

R. – Sì, assolutamente. Questa è una pagina decisamente buia della storia della libera democrazia statunitense e questa è una questione che dovrà essere affrontata. Lo hanno sottolineato le associazioni umanitarie. C’è stato uno spettro di reazioni da parte di chi è critico rispetto al fatto che, nonostante la chiusura di Guantanamo, non si chiarisce che cosa accadrà ai 91 ancora lì confinati e coloro che invece hanno comunque visto in questo un primo passo verso una soluzione di questa incresciosa situazione.

D. – Dietro le motivazioni della scelta di Obama, c’è sicuramente anche il fatto di voler ridurre le spese di una struttura che costa molto, sia pure in un’economia importante come quella degli Stati Uniti…

R. – Sì, sicuramente i costi sono consistenti, ma direi che non ci sono solo queste motivazioni. Ora, in chiusura dei due mandati presidenziali, c’è l’intenzione di Obama – fatta notare subito da alcuni osservatori – di tenere fede a una delle principali promesse che aveva fatto al momento dell’insediamento: chiudere Guantanamo.

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Orban: in Ungheria faremo un referendum su quote migranti

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In Ungheria, si terrà un referendum sulle quote obbligatorie di migranti: lo ha annunciato il premier ungherese, Viktor Orban, senza indicare una data ma precisando che ai cittadini verrà chiesto se sono è meno “d'accordo sul fatto che, senza l'autorizzazione del parlamento nazionale, l'Unione Europea possa obbligare l'Ungheria ad accogliere ricollocamenti di cittadini stranieri sul suo territorio". Nel frattempo, il ministro dell’Interno austriaco, Johanna Mikl-Leitner, ha dichiarato che per affrontare la questione migranti in attesa di una soluzione europea servono misure nazionali. Inoltre, fonti interne allo stesso ministero avvertono che si starebbe pianificando e verificando l’opzione di controlli alla frontiera con l’Italia, sul Brennero. Ed è a Vienna che è in corso il vertice dei Paesi interessati dai flussi migratori della cosiddetta "rotta balcanica" (Albania, Bosnia, Bulgaria, Kosovo, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia), organizzato dal governo austriaco e che ha destato molte polemiche per aver tagliato fuori sia la Grecia, sia l’Unione europea. L'esclusione di Atene è "un atto non amichevole", così il governo ellenico. Francesca Sabatinelli ha intervistato Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas italiana, responsabile dell’area internazionale: 

R. – Esprimiamo forte preoccupazione, perché la tendenza è quella di sbarrare la strada, una volta entrati in Grecia, ai rifugiati nel loro cammino vero il nord Europa. Ciascuno mette al centro di questo ragionamento la tutela dei propri interessi nazionali, comunque parziali, erige muri, sbarramenti, ogni tipo di difficoltà per queste persone alle quali non viene garantito a questo punto alcun diritto. C’è il rischio che vengano rimandati in Grecia, creando poi lì un grandissimo ghetto da cui è impossibile uscire sia verso nord che verso sud, anche perché il fatto stesso di pensare di tornare a casa rischia di per sé di essere una condanna a morte. La preoccupazione, molto alta, è che i vertici non siano poi di fatto partecipativi, aperti a tutti e quindi a una lettura del fenomeno in tutte le sue dimensioni, ma che siano piuttosto monodirezionali, miopi e chiusi alle prospettive solamente nazionali.

D. – L’accusa di Vienna, mossa nei confronti di Atene che ha protestato per questo mancato invito, è quella di non avere la volontà di voler ridurre in modo deciso il flusso di migranti. Come si riduce il flusso di persone che, ricordiamolo, fuggono dalle guerre?

R. – Sappiamo benissimo che le provenienze principali sono Siria, Afghanistan e Iraq. Sappiamo benissimo che, a livello geopolitico e militare, la situazione è molto grave. E quindi la causa è facilmente identificabile, così come sono altrettanto chiare le dinamiche e la fuga da questi contesti che diventano invivibili sia per la guerra, sia per la fame, sia per la sete. E' di questi giorni la notizia che il calo dei fondi delle agenzie dell’Onu rispetto ai campi profughi, anche nel nord dell’Iraq, non garantisca più nemmeno l’acqua. Proprio oggi, ci è stato confermato che interi campi profughi, se non cambia nulla, resteranno senz’acqua per giorni e giorni. Queste dinamiche causano fughe di massa, esodi biblici... Come può, la sola Grecia, con i tratti di costa che dovrebbe sorvegliare, cercare di bloccare un’onda che ha delle radici fortissime, gravissime, per le quali le persone hanno il dilemma se morire nella propria terra o nel percorso o in tutte le dinamiche correlate?

D. – Sappiamo che nei Balcani sta avvenendo un effetto domino, persone che vengono rimpallate da un Paese all’altro. Ce ne sono migliaia sono bloccate al confine tra Grecia e Macedonia. In Macedonia, rientrano coloro che sono stati respinti da altri Paesi. Ricordiamo che stiamo parlando di persone: di anziani, donne e bambini…

R. – Sì, per usare le parole di Papa Francesco: “È una vergogna”. Noi, costantemente, quotidianamente, siamo in contatto con le Chiese locali, con le Caritas di tutti questi Paesi. Abbiamo appena incontrato il parroco della parrocchia di frontiera tra Macedonia e Grecia che, con grandissima commozione da parte sua, ci raccontava di come queste persone siano trattate come merci, come pacchi, e non come persone. Non è un fenomeno che nasce oggi. Sappiamo benissimo che tutti i trend relativi al numero di guerre, di rifugiati, sfollati interni sono in aumento: il 2014 e il 2015 hanno costituito i picchi di un fenomeno ben noto. E, quindi, le drammatiche testimonianze che ci giungono in questi momenti non fanno che rafforzare, di fatto, una preoccupazione rispetto a una Unione Europea che non è in grado di aprire in una prospettiva più ampia tutto questo e neanche di gestire fenomeni ampiamenti preannunciati. Quindi, il nostro appello è affinché, veramente, si cambi mentalità nell’orizzonte di Papa Francesco e in quello di una prospettiva che non deve essere vista come preoccupante o fonte di paura, ma come fonte di arricchimento reciproco.

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Rapporto Amnesty: violazioni dei diritti umani in aumento

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Aumentano i conflitti e le crisi umanitarie nel mondo e nel 2015 sono aumentate anche le violazioni ai diritti umani. E’ quanto emerge dal Rapporto annuale di Amnesty International, che sottolinea però  anche successi globali, come l’abolizione della pena di morte in tre Stati. Elvira Ragosta

La protezione internazionale dei diritti umani rischia di essere compromessa a causa di interessi nazionali di corto respiro. E’ il monito di Amnesty International alla presentazione del Rapporto 2015-2016, che punta l’attenzione sull’aumento dei conflitti, sulla crisi dei rifugiati in Europa, sugli effetti della crescente adozione delle misure antiterrorismo da parte degli Stati e sulla crisi della Comunità internazionale. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia:

"122 Paesi in cui si è torturato, 113 in cui sono state limitate la libertà di manifestazione e di stampa e 156 difensori dei diritti umani uccisi: il che vuol dire che nel mondo si è esercitata una repressione sempre più forte e chi ha provato a parlarne o a denunciarla ha fatto una brutta fine. Ci sono sempre episodi positivi durante l’anno – la liberazione di tanti, tanti prigionieri di coscienza, la pena di morte abolita in tre Paesi, Fiji, Madagascar e Suriname – ma complessivamente il quadro è di continuità, perché abbiamo la crisi globale dei rifugiati che peggiora continuamente, abbiamo il conflitto siriano che peggiora, abbiamo un nuovo conflitto che è quello in Yemen con crimini di guerra e altre crisi che sono ancora in corso senza via di risoluzione”.

Sono 160 i Paesi nei quali Amnesty International ha svolto ricerca e ricevuto informazioni credibili su violazioni di diritti umani nel 2015. Tra i successi globali, l’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’Onu di una risoluzione sui difensori dei diritti umani, sostenuta da 190 Organizzazioni non governative, tra cui Amnesty. Poi, l’abolizione della pena di morte da parte di Madagascar, Figi e Suriname. Gianni Rufini, direttore di Amnesty International Italia:

"Continua a diminuire il numero di Paesi che applicano la pena di morte. E questo è uno dei pochi aspetti positivi di questo Rapporto 2015. Ce ne sono rimasti ormai solamente una ventina che effettivamente la applicano, anche se persiste ancora nella legislazione di circa una quarantina di Paesi. Però, rispetto alla situazione di 50 anni fa, quando abbiamo iniziato la nostra battaglia, ormai sono una sparuta minoranza i Paesi che ancora utilizzano questa barbarie. Purtroppo, in alcuni di questi Paesi – come, per esempio, in Arabia Saudita – il numero di esecuzioni è aumentato vertiginosamente, anche in Pakistan è accaduta una cosa del genere. Quindi, sono pochissimi i Paesi che ancora la applicano, ma purtroppo non dimostrano una tendenza a diminuirne l’uso".

Nel rapporto 2015-2016 anche un aggiornamento dell’Agenda in 10 punti sui diritti umani in Italia. Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia:

"Non abbiamo ancora, in Italia, una istituzione nazionale per i diritti umani, come invece richiesto dai cosiddetti "Principi di Parigi" dell’Assemblea generale. E questo nonostante l’Italia si sia impegnata ad introdurla nel momento in cui si è candidata al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. E’ un impegno formale, che sembra essere disatteso".

Nel corso della presentazione del Rapporto annuale è stato proiettato un video realizzato dalla Saatchi & Saatchi, in cui lo scrittore Roberto Saviano, sulle note della ballata “Here’s to you”, dedicata a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ingiustamente condannati a morte negli Stati Uniti nel 1927, invita tutti a far sentire la propria voce per tutti i Sacco e Vanzetti di oggi. Giuliano Montaldo, regista del film “Sacco e Vanzetti”, del 1971:

"Uno dei problemi gravi è che la parola intolleranza è la madre di tutto quello che può accadere nel razzismo, nelle guerre, nelle sopraffazioni. E’ una parola che proprio mi fa proprio soffrire! E devo dire che, purtroppo, il mondo non sta reagendo: mi sembra che Amnesty proprio oggi abbia fatto un elenco agghiacciante di quello che succede. Il mondo è fatto di strane curve di grandi momenti, quello che dovrebbe vincere la conoscenza e la cultura, ma la cultura viene soffocata da egoismo, da ignoranza, da intolleranza e dalla voglia di ricchezza".

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Unioni Civili. Gandolfini: ddl ritorni in Commissione Giustizia

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Ancora lontano l'accordo sulle unioni civili. Prosegue serrato in queste ore il confronto tra Pd e Ncd per la stesura del maxiemdamento su cui il governo sarebbe intenzionato a porre la fiducia. Il ministro della Salute Lorenzin commenta: "Lo stralcio della stepchild adoption non è sufficiente, si sta lavaorando per evitare quelle equiparazioni al matrimonio che noi riteniamo incostituzionali". Secca la risposta del sottosegretario alle Riforme Pizzetti: "Il maxiemendamento sulle unioni civili affronta il tema delle adozioni e non altri argomenti". I tempi saranno brevi garantisce Pizzetti: "Stasera dopo la fiducia al Milleproroghe saremo in Aula del Senato con il maxiemendamento. Mettiamo la fiducia e votiamo entro domani". Malumori nell'ala laica del Pd con Michela Marzano che minaccia di lasciare il partito se sarà stralciata dal testo l'adozione gay. Di tradimento parlano le associazioni Lgbt che per il prossimo 5 marzo in Piazza del Popolo a Roma hanno indetto una manifestazione di protesta. Da parte sua, il presidente del “Comitato Difendiamo i nostri figli” Massimo Gandolfini, ieri in conferenza stampa al Senato, ha detto che “lo stralcio della stepchild dal ddl Cirinnà è una parziale vittoria del Family Day”. “Ci si aspetta una vittoria più grande – ha aggiunto – e cioè la non equiparazione delle unioni civili al matrimonio e il ritorno del provvedimento in Commissione Giustizia”. Da Gandolfini inoltre un netto rifiuto alla  proposta di una riforma della legge sulle adozioni che apra alle coppie omosessuali. Paolo Ondarza lo ha intervistato: 

R.- Noi innanzitutto vogliamo leggere il maxiemdamento per capirne i contenuti. Ribadiamo che noi siamo contrari ovviamente alla stepchild, ma anche all’articolo 2 e 3 del simil-matrimonio; più precisamente noi siamo contrari all’intero impianto di legge. Cioè noi intendiamo dire basandoci sull’articolo 3 della Costituzione che nessun cittadino italiano per condizioni personali e sociali debba essere discriminato; detto questo i diritti civili legati alla persona vanno assolutamente ribaditi e questi diritti civili, che sono prevalentemente diritti di mutuo soccorso, la persona può giocarseli all’interno di quello che personalmente e privatamente considera essere la propria unione affettiva sentimentale; ma far diventare un’unione affettiva tra due persone dello stesso sesso un istituto giuridico in qualche misura paragonabile al matrimonio e nella quale la Repubblica si riconosce, ci vede assolutamente contrari. Qualora si mettesse la fiducia su un simile provvedimento noi rimarremmo scandalizzati da un vero e proprio tradimento operato dai parlamentari cattolici.

D.- Il ricorso alla fiducia, lei ha detto, trasformerebbe il provvedimento da un’iniziativa parlamentare ad un patto di governo. Anche per questo continuate a chiedere il ritiro in toto del ddl Cirinnà?

R.- Sì. Questo disegno di legge si è dimostrato terribilmente divisivo all’interno delle forze politiche, spaventosamente divisivo tra il Paese reale e le forze politiche, e poi essendo una legge così delicata e così complessa che può davvero stravolgere l’antropologia sociale italiana, merita una ponderata riflessione e di ritornare alla Commissione Giustizia del Senato, ottemperando a quello che dice l’articolo 72 della Costituzione: perché questo ddl è stato scippato dalla Commissione Giustizia.

D.- Qualunque sia l’esito dell’iter parlamentare, voi resterete vigili su chi ha ascoltato le vostre istanze?

R. – Assolutamente sì. Saremo vigilanti sulle forze politiche che hanno aiutato o hanno contrastato, come sui singoli parlamentari che si sono spesi a favore del popolo del Family Day e quelli che – voglio sottolineare – con becera arroganza hanno fatto finta che quella piazza fosse una piazza di persone che volevano farsi un weekend a Roma: la cosa non è stata assolutamente così. Noi vogliamo essere portavoci di quel popolo e indicheremo alle persone che si riconoscono in  noi chi ci ha aiutato e chi no.

D.- Si sente di fare un appello ai senatori in queste ore così cruciali a nome del popolo del Family Day?

R. - Io vorrei fare un appello generale a tutti i senatori dicendo loro: cercate di guardare con obbiettività la situazione attuale, una divaricazione spaventosa fra il Paese reale e il Parlamento e una grande divisione all’interno delle forze politiche con trabocchetti ad ogni piè sospeso, la lezione “canguro” ce lo insegna. A questo punto una saggia, sapiente politica richiederebbe di fermare tutto e tornare in Commissione Giustizia.

D.- Il vostro appello ai senatori e ai parlamentari cattolici?

R.- Non permettete che la ragione di partito o la ragione di interesse personale scavalchi quella “coscienza ben formata” di cui ha parlato Papa Francesco. Vuol dire: attenersi al magistero secolare della Chiesa che definisce famiglia quella con un padre e una madre e che vede nel diritto fondamentale del bambino ad avere una famiglia con un padre e una madre un diritto inviolabile.

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Dal Papa i ragazzi de "Il Sorriso": un incontro per sempre

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Si sono svegliati molto presto per vedere da vicino Papa Francesco e per ascoltare le sue parole, all'udienza generale in Piazza San Pietro. I ragazzi diversamente abili dell’Associazione “Il Sorriso” hanno voluto vivere così il loro momento forte dell’Anno della Misericordia. Ce ne parla Davide Dionisi

In piazza San Pietro, ad ascoltare il Papa, c’erano anche i volontari de "Il Sorriso", l’associazione di volontariato di Genzano, in provincia di Roma, fondata nel 1993 dai genitori di ragazzi diversamente abili. Famiglie che hanno scelto di stare al fianco dei propri figli per una loro piena integrazione nella società e il raggiungimento della massima autonomia. Una giornata davvero particolare per i 25 giovani che hanno avuto la possibilità di vivere il loro Giubileo della Misericordia. L’emozione raccontata ai nostri microfoni da Isabella Giardina, una delle volontarie de "Il Sorriso":

R. - Oggi ci siamo alzati prestissimo. I ragazzi emozionatissimi, sorridenti, cantavano sul pullman, chiamavano il nome di Francesco. L’emozione più grande è scattata quando abbiamo varcato il confine del Vaticano e siamo entrati nella residenza ed abbiamo parcheggiato proprio all’interno. Lì l’emozione è stata fortissima; c’è stato un forte applauso. Anche in Piazza poi c’è stata una grande gioia.

D. - Come avete preparato i vostri ragazzi a questo incontro?

R. - C’è stata poca preparazione nel senso che il Papa per loro è un riferimento, è una persona che seguono già nelle loro famiglie. Per cui è bastato dire che saremmo andati a vederlo da vicino.

D. - Cosa pensano gli ospiti de "Il Sorriso" di Papa Francesco?

R. - Per loro è un papà, è la persona che porta la pace, è la persona a cui chiedere aiuto anche per quelli che sono i loro problemi e le loro sofferenze quotidiane. È un simbolo di serenità, di pace e di gioia.

D. - Cosa rappresenta l’incontro di oggi per un’associazione come la vostra?

R. - È un grandissimo traguardo, è raggiungere un obiettivo unico e vivere un momento irripetibile: perché di gite se ne possono organizzare tante in tanti posti scontati, però questo credo sia un incontro che rimarrà per sempre.

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Alzheimer, 600 mila malati in Italia: famiglie sempre più sole

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Sono 600 mila i malati di Alzheimer in Italia, il 22 per cento della popolazione, ogni 10 minuti circa viene diagnosticato un nuovo caso. Tutto ciò ha un costo diretto per l’assistenza di oltre 11 miliardi di euro, che ricade per oltre il 70 per cento sulle loro famiglie. A fare il punto sull’impatto economico e sociale di questa malattia, fortemente invalidante, è una ricerca del Censis condotta in collaborazione con l’Aima-Associazione italiana malattia Alzheimer. Stamane la presentazione alla stampa. Il servizio di Roberta Gisotti: 

“E’ un Paese l’Italia - ammonisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita - che invecchia male, rintanato nel passato, che guarda indietro e non avanti, come dimostra anche questa ricerca sull’Alzheimer! Abbiamo oggi un’assistenza che fa perno su modelli familiari e sociali del passato che non reggeranno per molto ancora”. I dati parlano chiaro, in calo negli ultimi 10 anni i pazienti che accedono ai farmaci specifici (da 59,9% a 56,1%), ai centri diurni (da 24,9% a 12,5%), ai ricoveri in ospedale e in altri centri (da 20,9% a 16,6%). Scende pure l’assistenza domiciliare (dal 18,5% all’11,2%). Sale invece al 38% il ricorso privato alle badanti. La frase ricorrente delle famiglie è “alla fine ci siamo ritrovati soli!”, conferma Ketty Vaccaro, responsabile dell’Area salute e welfare del Censis, curatrice della ricerca:

R. - Questa è assolutamente l’immagine che la ricerca restituisce. Sostanzialmente queste famiglie sono sempre più sole a gestire l’assistenza, potendo contare di fatto solo su una figura che è quella della badante che però si è poco evoluta sotto il profilo delle attività che riesce a garantire e della professionalità. Senza contare che pesa sempre di più sulle disponibilità economiche degli stessi familiari. Quindi c’è una delega familiare fortissima che rappresenta un peso forse ormai eccessivo per queste famiglie.

D. - Una ricerca quindi che illumina uno spaccato di emergenza …

R. - Noi vorremmo che questa consapevolezza culturale, che ormai c’è sulla malattia, si traducesse in un’attività sotto il profilo dell’allestimento, dell’organizzazione dei servizi affinché migliorino e si diffondano in modo più uniforme sul territorio nazionale le risposte che le famiglie che hanno un problema di Alzheimer stanno ormai aspettando da tempo.

Se un peso eccessivo grava sui caregiver, ovvero chi si prende cura dei malati, è più un problema economico o di gestione organizzativa? Gabriella Bottini, neuropsicologa, ordinario nel Dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell’Università di Pavia:

R. – Le due cose non sono disgiungibili in realtà. L’isolamento è un sintomo del caregiver che si rispecchia nella vita sociale, quindi nel lavoro. Si sa che queste figure, nella stragrande maggioranza dei casi, sono i familiari. Il 18% dei pazienti in Italia vive da solo con un badante e tra i familiari sono soprattutto le donne ad abbandonare progressivamente il lavoro. Ma il problema organizzativo è un problema anche di carattere economico, perché la malattia è complessa, epidemiologicamente rilevante in modo ‘agghiacciante’; siamo infatti il Paese più longevo di tutta l’Europa e di converso la demenza costituisce – ahimè – una nostra accompagnatrice. Ed oggi ci troviamo in una situazione di spending review, di risparmi, che riguarda tutte le regioni italiane per cui inevitabilmente bisogna sopperire economicamente spesso ricorrendo al privato. Ecco che l’organizzazione e l’assistenza domiciliare sono anche un problema di carattere economico.

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Nella Chiesa e nel mondo



Nigeria: uccisi migliaia di cristiani, è fuga dal nord

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Da 9.000 a 11.500 cristiani uccisi (secondo una stima prudente); dal 2000 almeno 1,3 milioni di cristiani sono diventati sfollati interni od obbligati a trasferirsi altrove; 13.000 chiese sono state distrutte o costrette a chiudere i battenti; migliaia di attività economiche, proprietà e case di cristiani sono state distrutte. È questo il bilancio delle violenze delle quali sono vittime i cristiani nel Nord della Nigeria e nella cosiddetta Middle Belt, secondo il rapporto “Crushed but not Defeated” dell’organizzazione Open Doors/Porte Aperte, ripreso dall’agenzia Fides.

Nella zone delle violenze cancellata la presenza cristiana
A causa delle violenze, afferma il rapporto, in alcune aree della Nigeria del Nord, “la presenza cristiana è stata virtualmente cancellata o consistentemente diminuita, mentre in altre aree il numero di fedeli nelle chiese è cresciuto a causa del flusso di cristiani in fuga dalle violenze e da un certo numero di musulmani convertitesi al cristianesimo”. “In aggiunta, la coesione sociale tra musulmani e cristiani è stata messa in pericolo. La reciproca fiducia è sostanzialmente scomparsa; cristiani e musulmani sono diventati gruppi sempre più separati e distinti, raggruppati in periferie, quartieri o specifiche aree rurali” avverte il rapporto.

Non solo estremisti musulmani autori delle violenze anti-cristiane
Il documento mostra che sebbene l’etnia, il conflitto politico e la lotta per lo sfruttamento delle risorse siano note fonti di violenza nella Nigeria del Nord, le cause della violenza contro i cristiani in quest’area appaiono invece molteplici. Si possono trovare sfumature religiose, economiche e sociali allo stesso tempo. Gli elementi della violenza specificatamente mirata contro i cristiani nella Nigeria del Nord sono collegati da un comune denominatore religioso: difendere gli interessi dei musulmani del Nord, la loro identità e la posizione dell’islam. “Non solo islam radicale, Boko Haram ne è l’esempio più noto, ma anche allevatori musulmani Hausa-Fulani e l’élite musulmana politica e religiosa del Nord sono attori principali della violenza che mira a colpire la minoranza cristiana” si sottolinea nel rapporto.

La Chiesa del Nord non deve chiudersi in se stessa
​Ciononostante c’è ancora un’ampia presenza cristiana nella Nigeria del Nord, col potenziale di unità e resistenza. Ma la Chiesa di questa regione - afferma il rapporto - dovrà cercare di non chiudersi in se stessa e disimpegnarsi dalla società. Dovrebbe fare l’opposto, stimolata dalla sua spinta cristiana a essere coinvolta con la società e operare per la giustizia, la pace e la riconciliazione condividendo le proprie risorse per il bene di tutti. Per fare tutto ciò - conclude il rapporto - sarà necessario l’aiuto della comunità internazionale affinché la Chiesa possa lavorare per il rinnovamento e la trasformazione della comunità cristiana e della società nigeriana del Nord in generale.

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Egitto: il Grande Imam di al-Azhar contro le nozze gay

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L'Occidente sta diffondendo l'omosessualità, e “purtroppo alcuni capi di Chiese negli Stati Uniti accettano i matrimoni omosessuali. Mi chiedo cosa è rimasto della Bibbia in quelle Chiese. E cosa diranno davanti a Gesù, la pace sia su di lui”. Con queste parole lo sheikh egiziano Amhed al Tayyeb, Grande Imam dell’università islamica sunnita di al Azhar, ha voluto esternare il suo pensiero riguardo alle scelte di alcune realtà cristiane statunitensi - come la Presbyterian Church Usa – che negli ultimi tempi hanno modificato i propri statuti interni allo scopo di riconoscere come matrimoni le unioni tra persone dello stesso sesso.

La questione omosessuale è utilizzata come tema per avere consenso politico
Le dichiarazioni – riferiscono fonti egiziane riprese dall'agenzia Fides – sono state rilasciate dal rappresentante della più prestigiosa accademia teologica sunnita in Indonesia, durante un incontro con domande e risposte svoltosi presso l'Università islamica di Syarif Hidayatullah, a South Tangerang. Il Grande Imam al Tayeeb ha anche aggiunto che i gruppi gay intervengono nelle campagne elettorali e la questione omosessuale è utilizzata come tema per conseguire consenso politico

Le differenze tra le dottrine nell'islam sono pretesto di violenza
Il Grande Imam si trova per la prima volta in Indonesia – dove ha anche incontrato il Presidente Joko Joko Widodo - per partecipare a un incontro internazionale indetto dal Consiglio musulmano degli anziani, l'organizzazione, con sede ad Abu Dhabi, creata con l'intento di favorire una maggiore tolleranza tra le diverse correnti dell'islam. In alcune dichiarazioni, rilanciate dalla stampa indonesiana, lo sheikh al Tayyeb ha rimarcato che in questo momento storico la sfida più grande in seno al mondo islamico è rappresentata dal fatto che “le differenze tra le dottrine non sono tollerate, e diventano piuttosto pretesto di violenza”.

La guerra in Medio Oriente provocata dalla divisione sciiti-sunniti
​Secondo il Grande Imam di al Azhar, “non c'è nessun male nel seguire una determinata scuola o dottrina, ma nessuno può affermare di rappresentare in maniera esclusiva il vero e autentico islam”. La guerra che ha distrutto la Siria, l'Iraq e lo Yemen - ha aggiunto al Tayyeb - “è stata provocata dalla divisione tra sciiti e sunniti”. (G.V.)

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Bangladesh: a rischio la vita dei missionari

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Resta alta la tensione in Banglasdesh, e la necessaria sorveglianza sulla vita dei missionari “sta provocando alcune conseguenze anche sull’esercizio del ministero”, afferma una nota del Pontificio Istituto Missioni Estere, ripresa dall’agenzia Fides.

I missionari si muovono sotto scorta
A poco più di tre mesi dall’attentato a padre Piero Parolari, che sta riprendendo una vita normale, l’uccisione di un sacerdote indù avvenuta il 21 febbraio nel Nordovest del paese, ha riportato allarme e preoccupazione. L’attentato è stato rivendicato da una fonte che si definisce “dell’Isis” , ma la cui autenticità non è sicura. L’aggressività del fondamentalismo islamico si è riaccesa nel nord-ovest del Paese. Negli ultimi mesi l’area è stata teatro di tre assalti armati a templi indù, profanazioni di statue e simboli religiosi. La polizia segue e accompagna i missionari cristiani nei loro spostamenti e a volte sconsiglia loro di muoversi. “Se le restrizioni continuano e ancor più aumentano, occorrerà forse, con rammarico, ripensare alla nostra dislocazione” commenta un missionario locale.

Preoccupazione nelle minoranze
Meno preoccupante, invece, secondo il Pime, la situazione per chi sta a Dacca e dintorni. Anche se la polizia ha scoperto a Mirpur, vasto quartiere nella parte nord-ovest della capitale, un covo di fondamentalisti forniti di molte armi, che stavano organizzando assalti ad alcune chiese del quartiere. In generale, il clima sociale nel Paese rimane “segnato da preoccupazione” e “soprattutto le minoranze si sentono e sono sotto tiro”, nota il Pime, affermando che “il governo, da un lato tenta di reprimere e proteggere, dall’altro minimizza”.

La presenza del Pime in Bangladesh
Quella in Bangladesh è una delle missioni più antiche del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), che giunse nel subcontinente indiano nel 1855. Oggi il Pime ha 29 missionari nel Paese, presenti in tre diocesi: Dacca, Dinajpur e Rajshashi. I missionari sono impegnati a livello pastorale nelle parrocchie e in opere educative e sociali come scuole, dispensari, ospedali. (P.A.)

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Chiesa Perù: interventi urgenti per il disastro di Inayo

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Il 25 gennaio si è verificata una prima fuoriuscita di petrolio, seguita dopo poco da un’altra, nella gola di Inayo, nella regione amazzonica del nord del Perù, dall’oleodotto che attraversa la provincia di Bagua. Ad un mese dal disastro, mons. Alfredo Vizcarra e gli operatori pastorali della zona della foresta del vicariato apostolico di San Francisco Javier, esprimono la loro preoccupazione e chiedono un'azione urgente "per risolvere i danni che questo incidente sta causando alla natura in questa regione e in particolare alle persone delle diverse comunità che vivono sulle rive dei fiumi Chiriaco e Maranon nella zona di Inayo". Nella dichiarazione inviata alla Repam (la rete ecclesiale Pan-amazzonica), ripresa dall'agenzia Fides, si legge: "le autorità devono, in modo responsabile e veloce, fornire una risposta soddisfacente a questo disastro".

La Chiesa chiede un indennizzo alle persone colpite
Il vicario apostolico, essendo stato sul posto, presenta quindi una serie di richieste alle autorità: dare un indennizzo alle persone colpite con la perdita delle coltivazioni agricole, loro unico mezzo di sussistenza; avviare una bonifica per garantire che l'acqua non comporti nessun rischio per la salute e la vita delle persone, degli animali e dell'ambiente; eseguire un monitoraggio continuo delle acque dei fiumi inquinati, fino alla completa bonifica; informare la popolazione di tutte le azioni per proteggere la loro salute e l’ambiente.

Sono 60 le comunità indigene colpite
​Il comunicato si conclude sottolineando la necessità di andare alle cause di questi incidenti, in modo che non si ripetano, e ipotizzando che forse “le installazioni petrolifere sono obsolete (40 anni) e avrebbero bisogno di essere rinnovate o sostituite". Secondo la Federazione delle Comunità dei Nativi di Rio Corrientes (Feconaco) sarebbero 60 le comunità colpite i cui abitanti (circa 60 mila) non trovano l'acqua per bere, lavarsi e preparare il cibo. La loro principale fonte di alimentazione viene dai fiumi, da cui pescano il pesce, che però adesso sono contaminati dal petrolio versato. (C.E.)

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Premio Niwano ad un Centro di pace in Sri Lanka

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È stato assegnato al Center for Peacebuilding and Reconciliation (Cpbr) in Sri Lanka il Premio Niwano per la pace di quest’anno. Fondato nel 2002 da Dishani Jayaweera e Jayantha Seneviratne – informa la Niwano Peace Foundation, nel dare notizia del vincitore del 2016 – il Cpbr è una organizzazione no profit che promuove “la costruzione della pace e la soluzione non violenta dei conflitti”, dando sostegno “all’evoluzione personale e sociale all’interno e tra i gruppi etnici, religiosi, linguistici e regionali dello Sri Lanka” e impegnandosi “a tutti i livelli di base, locali e nazionali”. 

La pace non è solo assenza di conflitti tra le nazioni
“Per raggiungere l’obiettivo della riconciliazione nazionale – spiegano i promotori del prestigioso riconoscimento – il Cpbr è concentrato su quelli ritenuti avere maggiore influenza più grande e promessa di trasformazione: i leader religiosi, le donne e i giovani”. Il Premio - riferisce l'agenzia Sir - prende nome dal fondatore e primo presidente dell’organizzazione buddista laica, Rissho Kosei-kai, Nikkyo Niwano, per il quale “la pace non è solo assenza di conflitti tra le nazioni, ma un’armonia dinamica nella vita interiore delle persone, così come nelle comunità, nelle nazioni e nel mondo”. 

La cerimonia di conferimento del premio si svolgerà a Tokyo
​Considerando la pace come l’obiettivo del buddismo, Niwano ha dedicato gran parte della seconda metà della sua vita a promuovere la pace nel mondo, in particolare attraverso la discussione interreligiosa e la cooperazione. La cerimonia di conferimento del premio si svolgerà a Tokyo il 12 maggio. Il vincitore – scelto tra circa 600 persone e organizzazioni di 125 Paesi e molte religioni, vagliate dal comitato internazionale di selezione del Premio Niwano, composto attualmente da dieci leader religiosi provenienti da varie parti del mondo coinvolti in movimenti per la pace e la cooperazione interreligiosa – riceverà un attestato, una medaglia e 20 milioni di yen (circa 164mila euro). (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 55

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.