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Sommario del 25/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa all'Angelus: Gesù vuole che i cristiani siano uniti

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Continuare a pregare per l’unità dei cristiani e riprendere, nell’Ucraina orientale, i tentativi di dialogo per porre fine alle ostilità. Queste le esortazioni rivolte stamani da Papa Francesco all’Angelus, nel giorno in cui si conclude la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Dio - ha detto il Pontefice - ha sete di noi, il diavolo è il padre di tutte le divisioni. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

I cristiani siano uniti
Gesù vuole che i cristiani siano uniti. E’ quanto ha detto il Papa dopo aver ricordato che nel pomeriggio, nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, si terrà la celebrazione a conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani:

“E’ una cosa brutta che i cristiani siano divisi. Ma Gesù ci vuole uniti: un solo corpo. I nostri peccati, la storia, ci hanno divisi e per questo dobbiamo pregare tanto perché sia lo stesso Spirito Santo ad unirci di nuovo”

Il Diavolo, padre delle divisioni
Nel cuore di Cristo - ha aggiunto - “si incontrano la sete umana e quella divina” e la sete dell’unità:

“Eh, quello che voleva Gesù: l’unità di tutti! Il diavolo, lo sappiamo, è il padre delle divisioni, è uno che sempre divide, che sempre fa guerre, fa tanto male”.

Appello per l’Ucraina
Il Papa ha poi espresso preoccupazione per la situazione in Ucraina e auspicato che cessino le violenze:

“Seguo con viva preoccupazione l’inasprirsi degli scontri nell’Ucraina orientale, che continuano a provocare numerose vittime tra la popolazione civile. Mentre assicuro la mia preghiera per quanti soffrono, rinnovo un accorato appello perché si riprendano i tentativi di dialogo e si ponga fine ad ogni ostilità”.

Gesù è Parola vivente
Ricordando il Vangelo di oggi , che ci presenta l’inizio della predicazione di Gesù in Galilea, il Papa ha inoltre sottolineato che Cristo è “la Parola vivente e operante nella storia” e disseta il nostro cuore inquieto:

“Gesù è il compimento delle promesse divine perché è Colui che dona all’uomo lo Spirito Santo, l’acqua viva che disseta il nostro cuore inquieto, assetato di vita, di amore, di libertà, di pace: assetato di Dio”.

Dio ha sete di noi
“Dio facendosi uomo – ha aggiunto il Santo Padre - ha fatto propria la nostra sete, “non solo dell’acqua materiale, ma soprattutto la sete di una vita piena, libera dalla schiavitù del male e della morte:

“Nello stesso tempo, con la sua incarnazione Dio ha posto la sua sete – perché anche Dio ha sete - la sua sete nel cuore di un uomo: Gesù di Nazaret. Dio ha sete di noi, dei nostri cuori, del nostro amore e l’ha messo nel cuore di Gesù”.

Post Angelus
Dopo l’Angelus, ricordando che oggi si celebra la Giornata  mondiale dei malati di lebbra, il Pontefice ha espresso la sua “vicinanza a tutte le persone che soffrono per questa malattia”. Il Santo Padre ha anche salutato la comunità filippina di Roma il ricordando che il “popolo filippino è meraviglioso, per la sua fede forte e gioiosa”. Rivolgendosi, infine, ai ragazzi e alle ragazze dell’Azione Cattolica di Roma (Acr), arrivati numerosi al termine della “Carovana della Pace”, ha esortato tutti a proseguire “con gioia il cammino cristiano”. Una ragazzadell’Acr, Sara, ha letto un messaggio di pace:

“Noi tutti siamo una squadra di scienziati impegnati in un grandissimo laboratorio, che è il mondo. Solo lavorando insieme e nel modo giusto e portando a termine i nostri piccoli progetti di pace, possiamo rendere concreto quello universale pensato per noi dal Signore”.

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Educare alla pace vuol dire insegnare ad amare il prossimo

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E questa mattina i partecipanti alla “Carovana della pace” promossa dall’ Azione cattolica di Roma, che quest’anno aveva come slogan “La Pace è la Soluzione!”,  hanno invaso gioiosamente piazza san Pietro, per poter ascoltare le parole di Papa Francesco. Marina Tomarro ha raccolto alcuni commenti. 

R. – Siamo qui questa mattina per manifestare che la pace inizia a costruirsi dai primi passi che compiono i ragazzi; e noi come educatori siamo contenti di averli accompagnati oggi, perché anche noi, giorno dopo giorno, ci adoperiamo con loro a costruire questo mondo di pace, che è un mondo che va costruito e dipende da noi.

D. – Cosa vuol dire per te portare la pace?

R. – Seguiamo l’esempio dei nostri educatori più grandi e soprattutto della Parola. Cerchiamo quindi di portare avanti quello che ci insegna Gesù e di trasmetterlo.

R. – Portare la pace significa amare il tuo prossimo. Questo ce lo insegna Gesù ed è un messaggio bellissimo.

R. – Vuol dire amare senza condizioni, senza pregiudizi e non smettere mai di essere felici.

R. - Parlare di pace è così facile, ma è così difficile viverla. Questa è la verità. Io, in modo particolare, penso che la pace inizi dentro di noi soprattutto. Quando uno riesce a vivere questa pace dentro di sé, sarà poi capace di portarla anche agli altri e spargerla nella realtà che viviamo. E’ come una corrente che alla fine contagia tutti quanti.

D. – Oggi si conclude anche la Settimana di Unità dei Cristiani. Il Papa ci invita alla preghiera per l’unità, ma in che modo rispondere a questa sua esortazione?

R. – Se noi cristiani per primi non viviamo questa unità, non saremo mai capaci di portarla agli altri. Quindi questo invito del Papa è molto bello ed è anche più bello sapere che noi cristiani siamo capaci di rispondere a questo invito, con le nostre preghiere.

E in Piazza San Pietro era presente anche il vescovo Mansueto Bianchi, assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica:

R. – La pace è la soluzione, perché evidentemente dove non c’è pace, c’è un problema e c’è il moltiplicarsi dei problemi. Questi giovani sono venuti a San Pietro stamattina per dire all’umanità che se non c’è pace, non c’è umanità, non c’è speranza, non c’è futuro. Allora accogliere la parola del Papa, farla risuonare nella vita e farla ramificare dentro le vicende della vita.

D. – Oggi è anche la conclusione della Settimana dell’Unità dei Cristiani. Il Papa ha detto che non c’è unità senza conversione, senza preghiera e senza santità di vita. Che cosa vuol dire?

R. – Vuol dire che la prima unità è una unità che nasce dal di dentro, nasce dallo spirito; è la forza dell’ecumenismo spirituale; un cuore forgiato dallo Spirito all’accoglienza dei fratelli, al riconoscimento delle diversità; è il cuore che precede, ma anche prepara l’ecumenismo dottrinale, l’ecumenismo istituzionale.

E la Carovana ha sostenuto con una raccolta fondi il progetto “Dai vita alla pace” per l’acquisto di pompe per l’acqua, chiamate “Volanta”, che saranno impiantate in Burkina Faso. Ascoltiamo la presidente dell’Azione Cattolica di Roma, Rosa Calabria:

R. – Stiamo cercando di raccogliere fondi per cercare di comprare delle pompe per questi bambini che sono in Burkina Faso e che poi, appunto, serviranno per trovare l’acqua. Lo facciamo con la vendita delle matite speciali, che sono carine, e poi i semi che andranno piantati e da cui nasceranno delle piante.

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Ecumenismo. Card. Koch: Papa Francesco sta aprendo molte porte

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“Dammi da bere”. Queste parole che Gesù rivolse alla Samaritana incontrata al pozzo hanno guidato la Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani, che nel pomeriggio di questa domenica, alle 17.30, Papa Francesco concluderà come di consueto con la Celebrazione ecumenica dei Vespri nella Basilica di San Paolo fuori le Mura. Il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unita' dei Cristiani, si sofferma, al al microfono di Mario Galgano, sul cammino ecumenico: 

R. – Comme l’a dit le decret sur l’ecumenisme du Vatican II…
Come dice il decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II, l’ecumenismo spirituale è l’anima di tutto il movimento ecumenico. Ed è per questo che è assolutamente necessario fare la preghiera per l’unità, perché noi uomini non possiamo fare l’unità, non possiamo prevederne la data o il modo: l’unità è un dono dello Spirito Santo e quindi dobbiamo essere aperti a questo. Quello che cambia ogni anno è il tema della Settimana di preghiera per l’unità, che quest’anno è stato elaborato da un gruppo del Brasile, che si è ispirato all’incontro di Gesù con la donna che viene dalla Samaria. Proprio questo loro incontro e il loro dialogo ci mostra qualche conseguenza anche per  il dialogo ecumenico: a quei tempi, infatti, gli ebrei non avevano contatti con i samaritani, ma Gesù supera questo problema e parla con questa donna, dimostrandoci che il dialogo può superare molti problemi, anche i problemi che noi abbiamo nella situazione ecumenica.

D. – Il fatto che il tema sia stato elaborato da un gruppo brasiliano, quindi dell’America Latina, dà un impulso particolare, che viene dai cattolici o dai cristiani dell’America Latina: se si pensa poi anche al fatto che il Papa viene dall’Argentina...

 R. – Oui, je pense que au Brésil et aussi en Amérique latine nous avons beaucoup de changements…
Sì, credo che in Brasile, così come in America Latina, vi siano moltissimi cambiamenti nella situazione ecumenica. Assistiamo, infatti, ad una grande nascita di comunità evangeliche, carismatiche e pentecostali… E’ un grande cambiamento. Numericamente parlando, il pentecostalismo è la seconda realtà dopo quella della Chiesa cattolica: e questo certamente rappresenta già in sé una grande sfida. La realtà che viviamo oggi, qui a Roma, è quella di una grande apertura di Papa Francesco. E questo è molto importante, perché in questi gruppi, in passato, c’erano diversi pregiudizi contro la Chiesa cattolica e soprattutto contro il Papato. Quindi se gli evangelici e i pentecostali avranno l’opportunità di incontrare personalmente il Santo Padre, questo potrebbe essere una buona occasione per superare alcuni di quei pregiudizi. E in questo Papa Francesco apre sicuramente molte porte: porte che non erano state ancora completamente aperte.

D. – Un’ultima domanda: come vede la situazione generale dell’ecumenismo? A che punto si è, se facciamo un bilancio o un’analisi di questa Settimana? Dove ci troviamo oggi nel cammino?

R. – On est toujours en chemin…
Siamo sempre in cammino! L’ecumenismo ha un grande cammino di 50 anni e molte cose abbiamo fatto lungo questo strada: penso a come, in questi anni, abbiamo potuto approfondire relazioni fraterne e amichevoli con la maggior parte delle altre Chiese e di comunità ecclesiali. Ma bisogna anche dire, onestamente, che non siamo ancora arrivati alla fine: non abbiamo ancora l’unità ed è per questo che siamo ancora in cammino. C’è anche da dire che abbiamo con tutti i dialoghi un rapporto particolare e specifico: noi abbiamo 15 differenti dialoghi e dobbiamo quindi valutarli tutti. Non è quindi facile dire: “nell’ecumenismo siamo a questo punto…”. Siamo tuttora in cammino.

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Oggi in Primo Piano



Nigeria. Boko Haram libera 192 ostaggi

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Sono 192 gli ostaggi che il gruppo jihadista nigeriano Boko Haram ha rilasciato ieri nello Stato di Yobe, per la maggior parte donne e bambini. Contemporaneamente, però, proseguono le violenze nel nordest proprio nel giorno in cui il segretario di Stato americano Kerry è atteso a Lagos. Il servizio di Roberta Barbi: 

Non si tratta delle liceali rapite l’anno scorso come era sembrato in un primo momento, ma è comunque una buona notizia, quella del rilascio da parte del gruppo di estremisti islamici nigeriano Boko Haram, di 192 tra le 218 donne e bambini che erano stati sequestrati il 6 gennaio scorso a Katarko, nello Stato di Yobe. La liberazione sarebbe avvenuta, invece, nel villaggio di Woron. Ma altrove continuano le violenze dei jihadisti che dopo aver ucciso ieri 15 persone a Kambari, nella notte hanno sferrato una doppia offensiva a Monguno e Maiduguri con colpi di artiglieria ai quali l’esercito ha risposto con un attacco aereo. La città è la patria delle decine di migliaia di profughi messi in fuga proprio da Boko Haram dal 2009 ad oggi ed è dove ieri si era recato il presidente Goodluck Jonathan. Proprio con lui, ma anche con il suo antagonista alle prossime Presidenziali del 14 febbraio, Muhammadu Buharim, s’incontrerà il segretario Kerry atteso oggi a Lagos, da dove lancerà un appello contro la violenza.

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Malawi: alluvioni devastano sud del Paese, rischio di epidemie

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Situazione catastrofica in Malawi colpita dalle alluvioni più devastanti della sua storia: almeno 200 i morti finora, 130 mila i senzatetto nel sud del Paese, senza cibo e assistenza medica. Cresce il rischio di epidemie. Il Papa ha lanciato un appello alla comunità internazionale. Per una testimonianza diretta dal Malawi, Michele Raviart ha raggiunto telefonicamente il padre monfortano Piergiorgio Gamba, da oltre 30 anni missionario nel Paese: 

R. – E’ la prima volta che succede una tale tragedia in Malawi. La situazione è terribile! Più di 200 morti, quelli che si sono riusciti a contare… E poi villaggi interi portati via: più di 200 mila persone sono completamente senza un posto dove stare.

D. – Quali sono stati i danni alle cose, all’ambiente e alle persone?

R. – Nella notte, questi fiumi, che improvvisamente scoppiavano, portavano via interi villaggi… Quelli che non erano costruiti su un’altura, ma appena appena erano in pianura, sono stati spazzati via completamente! Quello che succede è che molta gente va ad abitare vicino al fiume, perché lì è sicura di avere un raccolto. Questa è la scelta dei poveri che non hanno altro modo per sopravvivere che tentare di avere un raccolto che li sfami per tutto l’anno: ma si avvicinano anche troppo a questi fiumi… E’ anche vero che sono capanne, costruite di paglia e di fango, perciò non hanno nemmeno la minima resistenza davanti ad una alluvione…

D. – Di che cosa c’è bisogno?

R. – Gli aiuti internazionali alimentari purtroppo arrivano molto, molto adagio perché anche i trasporti, le strade sono state rovinate e anche tanti ponti sono stati portati via… Le scuole sono diventate come dei campi profughi: i ragazzi non vanno più a scuola, perché la scuola è occupata da chi non ha più la casa… L’acqua è ormai tutta contaminata, anche quella dei pozzi, ed è facilissima la diffusione di malattie, dalla dissenteria al colera, che soprattutto colpisce molto i bambini, i bambini piccoli…

D. – Che cosa sta facendo la Chiesa locale?

R. – I vescovi, in queste zone, sono stati presenti sin dal primo momento, con aiuti concreti. Adesso si stanno mobilitando per dare un posto dove stare a tutte queste donne e bambini, famiglie intere, che non hanno più niente. Cercano di distribuire delle sementi, affinché subito si possa ripiantare in modo che ci sia un raccolto quest’anno, perché se dobbiamo farci carico anche dell’alimentazione per tutta questa gente per tutto l’anno, diventa impossibile! Quindi c’è bisogno di acqua, cibo, materiale per gli ospedali e per l’assistenza sanitaria e sementi.

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Egitto: luci e ombre a quattro anni dalla caduta di Mubarak

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Quattro morti, uno dei quali negli scontri tra polizia e sostenitori dei Fratelli Musulmani ad Alessandria e due agenti feriti in un'eplosione al Cairo. Così l'Egitto sta vivendo oggi il quarto anniversario della sommossa popolare culminata con la destituzione del presidente Hosni Mubarak, nell’ambito della Primavera Araba. La giornata si svolge senza festeggiamenti in segno di cordoglio per la morte del re saudita Abdullah. Ma qual è il significato della ricorrenza per il processo democratico del paese egiziano? Eugenio Bonanata lo ha chiesto ad Alberto Negri, analista internazionale de Il Sole 24 ore: 

R. – Direi che non c’è anniversario più dimenticato di questo nell’ambito delle Primavere arabe. Un anniversario che quasi tutti cercano in qualche modo di dimenticare perché la Primavera araba egiziana aveva sollevato enormi speranze. Dopo la caduta di Ben Alì, quella di Mubarak sembrava schiudere una nuova era. Poi sappiamo come si è evoluta: con l’ascesa dei Fratelli musulmani che hanno vinto largamente le elezioni e hanno portato poi alla presidenza Morsi, ma si sono anche dimostrati capaci di tenere insieme le diverse anime del Paese. E poi, però, è arrivato l’intervento dei militari: un intervento duro, sanguinoso, che è stato sostenuto dall’esterno, dalle monarchie del Golfo e soprattutto dall’Arabia Saudita, che ha visto nei Fratelli musulmani un concorrente che potesse in qualche modo delegittimare la monarchia wahabita. In realtà, l’Egitto di oggi è ancora un Paese in pieno conflitto, non soltanto interno ma anche ai suoi confini. Pensiamo soltanto alla guerra jihadista nel Sinai. Insomma, questo quarto anniversario proietta luci e ombre su questo che è il maggiore Paese arabo, un Paese chiave per la stabilità della regione. E in realtà l’esperimento della Primavera araba è stato presto inghiottito da problematiche che in qualche modo si sono scoperchiate con la caduta dei rais.

D. – L’Egitto guarda alle elezioni parlamentari previste tra marzo e aprile. Con quale spirito affronterà questo appuntamento?

R. – Innanzitutto mi sembra che gli attentati a Parigi abbiano segnato un momento importante, perché abbiamo visto il generale Al Sisi prendere in mano un po’ la situazione cercando di sfruttare in qualche modo quello che era accaduto in Europa, per fare pressioni su Al Hazar, sugli imam, per cercare di avviare un programma capace di dare dell’islam una versione assai diversa da quella che danno i gruppi salafiti o jihadisti. Questo avrà un’influenza sulle elezioni. E sicuramente un’influenza avranno anche gli aspetti economici, cioè quelli di una possibile ripresa di un Paese che, non dimentichiamo, ha più di 80 milioni di abitanti e problemi sociali enormi.

D.  – Un’ultima battuta sulla nuova carta costituzionale, che vieta la creazione di partiti confessionali. Anche questa sembra essere una risposta al pericolo islamista; eppure, comunque, i Fratelli musulmani sono ancora attivi nel Paese…

R. – Ma non c’è dubbio. Come si poteva pensare di eliminare i Fratelli musulmani soltanto con la repressione? Sono scesi in clandestinità, come lo erano stati per molti anni. E questo alla fine rappresenta il vero problema, il vero pericolo per l’Egitto: cioè, il non sapere affrontare quella parte della società musulmana che tra l’altro ha votato Morsi in maniera preponderante. E  non dimentichiamoci quei milioni di persone che stavano in piazza Tahrir!. Certo, vietare i partiti confessionali è sicuramente una mossa per cercare in qualche modo di indirizzare il processo politico egiziano. Però, allo stesso tempo, ignorare che i Fratelli musulmani e i partiti islamici siano una buona parte dell’espressione politica degli egiziani può essere assai pericoloso, come si è rivelato pericoloso in passato.

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Lebbra. Nel mondo ogni anno 200mila nuovi casi

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Si celebra oggi la 62.ma Giornata mondiale dei malati di lebbra, istituita nel 1954 dallo scrittore e giornalista francese Raoul Follereau. Si stima che ogni anno oltre 200mila persone contraggano questa patologia. In prima linea nella cura anche la chiesa, che nel mondo gestisce 648 lebbrosari. Massimiliano Menichetti ha intervistato Mariella Pisano presidente dell’Aifo, l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau: 

R. – Oggi ci si ammala ancora di lebbra. Diciamo che ci sono milioni di ex malati di lebbra disabili. E abbiamo ancora più di 200 mila nuovi malati, registrati ogni anno per la lebbra, e vuol dire che sono almeno 400 mila, perché tanti malati si nascondono. La lebbra soffre ancora molto del problema dell’emarginazione.

D. – La lebbra, comunque, è una malattia curabile…

R. – Curabilissima. Diciamo che dall’’80 c’è una terapia di tre medicinali che può curare la lebbra benissimo. La lebbra comincia con delle macchie sulla pelle; normalmente, all’interno delle macchie non si ha sensibilità e quella è una delle caratteristiche maggiori. Se non si cura, in quel momento, allora cominciano ad essere coinvolti i nervi.

D. – Quali sono i Paesi in cui è maggiormente presente la lebbra?

R. – L’India in modo assoluto, subito dopo segue il Brasile, poi tanti Paesi dell’Africa – per esempio il Mozambico, il Madagascar, la Liberia, l’Indonesia – la Cina e anche vari Paesi dell’America Latina.

D. – Come è possibile che ancora ci siano casi di lebbra? Lei stessa ha detto che nell’’80 è stata introdotta una terapia che di fatto risolve questa patologia…

R. – Praticamente non si va più a ricercare il malato nei villaggi e si aspetta che venga negli ospedali. Quindi cominciano a venire quando hanno il braccio che non si piega più, non hanno più sensibilità alle dita, quando magari stanno perdendo un piede o cose del genere. E allora la lebbra è curabilissima, però le disabilità rimangono.

D. – Serve più coordinamento in ambito internazionale?

R. – Più coordinamento in ambito internazionale. Ricordarsi, per esempio, che non bisogna assolutamente fare in modo che ormai i medici non sappiano neanche cosa sia la lebbra. Adesso, anche in India, molti medici non conoscono più la lebbra, proprio perché si è persa questa necessità e questa idea che la lebbra esista, e poi la si ritrova più forte di prima.

D. – Quindi il messaggio è questo: non ci dimentichiamo di questa malattia sia per prevenirla sia per curarla…

R. – Non ci dimentichiamo di questa malattia e cerchiamo di fare in modo, per esempio, di ricercare davvero i casi, di fare in modo che resti nelle idee della medicina preventiva del territorio. Per cui nel territorio – anche nei Paesi poveri – continuare a mandare avvisi, perché ad un certo punto non è possibile che una malattia, assolutamente curabile, debba arrivare a dare tanta disabilità, quindi la perdita delle dita, le amputazioni, la cecità, tutte cose che potrebbero assolutamente essere evitate se il paziente venisse presto curato. Non è più neanche contagiosa, appena inizia ad essere curata. Quindi è una malattia che non dovrebbe assolutamente fare paura.

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In Sicilia opera missionaria delle scalabriniane per gli immigrati

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Per accogliere i migranti che approdano in Sicilia, nasce oggi a Siracusa una nuova comunità missionaria. Voluta dalle suore Scalabriniane, l’opera per ora si compone di tre sorelle che avranno come obiettivo primario quello dell’aiuto e dell’amore fraterno declinato con percorsi di assistenza che saranno creati anche grazie alla collaborazione con la comunità ecclesiale locale e le forze sociali. Federico Piana ne ha parlato con suor Milva Caro, responsabile della Provincia d’Europa delle suore Scalabriniane: 

R. – E’ una risposta alle esigenze attuali che la Chiesa e la realtà ci pongono in questa Chiesa. Siamo state prima di tutto sollecitate dal nostro fondatore, il Beato Scalabrini, per lavorare a servizio dei migranti, per e con loro. E poi, attualmente, anche sollecitate da Papa Francesco, che ci dice: aprite le vostre porte, aprite i vostri cuori e andate incontro al migrante rifugiato che entra nella Chiesa nostra. Quindi questo appello è per noi più che un invito, un impegno di cui prendere atto.

D. – Che farà questa comunità missionaria, quali sono i suoi obiettivi, i suoi impegni?

R.  – Vorremmo dare particolare attenzione ai minori che arrivano su queste coste siracusane. Per le donne, in particolare, vorremmo creare una rete con gli enti già esistenti sul posto perché non faremo niente di nuovo. Forse cercheremo di trovare reti tra le tante associazioni che qui operano per e a favore dei migranti. Poi vorremmo sensibilizzare la popolazione sul fatto che immigrazione è anche un bene.

D. – Tutto questo in che modo, suo Milva? Quali saranno gli strumenti che pensate di utilizzare?

R. – Prima di tutto, la nostra testimonianza e il nostro servizio e quello delle consorelle che lavoreranno qui; poi, collegandoci con le istituzioni già sul posto, sensibilizzando con corsi di formazione; vorremmo inoltre realizzare un volantino, un piccolo pieghevole che si dà in mano a chi arriva e sono le prime informazioni utili per chi si deve muovere su questo territorio, una cosa abbastanza pratica; poi vorremmo creare un contatto anche con le comunità locali qui sul posto. Ci sono già comunità ben stabilite come una chiesa con i cristiani dello Sri Lanka, delle Filippine. Insomma, essere presenti.

D. – Sarà una comunità itinerante...

R.  – E’ vero, sì, perché abiteremo in un appartamento che andremo tra poco a vedere che non sappiamo ancora dov’è ma ci hanno detto, proprio come missionarie: partite e poi il Signore provvederà. Tra poco andremo a vedere il nostro nuovo appartamento. Ma il posto di lavoro sarà sia la città di Siracusa che Augusta, il porto e i dintorni. Siamo noi a spostarci e andare lì dove i migranti saranno.

D. – Suor Milva, lei pensa che l’accoglienza non ci sia stata in questi anni a Siracusa, in Sicilia, che insomma siano stati un po’ abbandonati questi uomini e queste donne che sono arrivati da tanto lontano?

R.  – No, questo non lo credo. Io credo che, invece, abbiano visto - almeno la Chiesa qui a Siracusa, ma anche tante altre Chiese - che c’è un bisogno di aumentare quest’accoglienza che è già stata fatta in questa terra. Hanno fatto tanto lavoro. E’ solo che adesso le esigenze sono maggiori, quindi la richiesta è aumentata, e vorremmo metterci a disposizione di questa Chiesa.

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In un libro, le 'periferie esistenziali' di Papa Francesco

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“Esclusi. Nelle periferie esistenziali con Papa Francesco”. È il nuovo libro di don Nandino Capovilla, parroco a Marghera e referente per il Medio Oriente di Pax Christi Italia, e Betta Tusset, del punto pace Pax Christi di Venezia, presentato in questi giorni alla Libreria Paoline Multimedia di Roma. “Ma cosa sono queste periferie di cui continua a parlare Papa Francesco?”, si chiede Gaetano - uno dei personaggi del libro – mentre va a prestare servizio di volontariato nella sua nuova parrocchia, in un quartiere multietnico di una nebbiosa città del nord Italia. Tra testimonianza e romanzo, si vuole direttamente dare voce alla ‘carne di Cristo’, perché in ogni ‘scarto dell’umanità’ c’è qualcuno da ascoltare e da amare. Cosa ha spinto dunque gli autori a scrivere questo libro? Giada Aquilino li ha intervistati. Cominciamo, con don Nandino Capovilla: 

Don Capovilla – Le piaghe che Papa Francesco dice di toccare e quindi stare con i poveri. Ecco, le storie da queste ‘periferie esistenziali’, storie di poveri senza dimora che ci condizionano poi anche nelle nostre scelte di fede e soprattutto ci chiamano a condividere e quindi a ‘far saltare’ anche gli schemi dell’assistenza.

D. – Betta, nel libro c’è un personaggio immaginario e tante storie: di cosa si parla?

Tusset – Si parla innanzitutto di relazioni che si instaurano tra le persone, tra i volontari che fanno un gesto semplice offrendo la colazione la domenica mattina in una qualsiasi parrocchia di una qualsiasi periferia italiana e la gente che ha bisogno, verso cui ci si china. Quello che abbiamo cercato di evidenziare nel libro è che, partendo da un piccolo gesto, ci si allarga a conoscersi e a condividere, a raccontarsi vicendevolmente, quindi a tornare ad essere gli uni per gli altri semplicemente persone. E nel libro poi c’ è un personaggio che non esiste, un personaggio inventato: Gaetano, che è un volontario che ci rappresenta un po’ tutti; fa fatica ad accettare le storie di queste persone, perché le giudica innanzitutto e pensa che se hanno sbagliato – come dice lui – perché poi le si deve accogliere a braccia aperte? Non basta, forse, semplicemente chinarsi verso di loro e dare loro il necessario? Perché anche ascoltarli?

D. – Perché? Da dove arriva la risposta, don Nandino?

Don Capovilla – La risposta è sempre esattamente nella nostra umanità condivisa, riconosciuta. Per strada, in autobus, quando vediamo una persona che vive nel disagio - che appunto è un povero, un senza fissa dimora, una persona che, diremmo, sta di là, sull’altro lato della strada - bisogna scoprire e partire dal punto di vista che è esattamente un nostro fratello. E, allora, ecco che prima di tutto bisogna attivare l’ascolto e poi far sì che sia possibile, proprio dall’ottica delle periferie, cominciare a guardare la storia in modo diverso, con i loro occhi.

D. – Ci sono storie di dolore, di abbandono, di ‘scarto’, come dice Papa Francesco: lo ha ribadito anche nel suo ultimo viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine. Quali realtà avete colto e raccontato, Betta?

Tusset  – Sono storie che partono dalla mancanza di lavoro, partono da un disagio psicologico, a volte psichiatrico, dalla tossicodipendenza; poi ci sono storie di persone che magari arrivano da più lontano e che hanno sofferto i problemi collegati alla guerra, alla fame dell’Africa, al fuggire da realtà durissime per arrivare qui e, magari, essere accolte in maniera anche sbagliata; e infine, anche storie di fragilità che si incontrano e che poi fanno fatica a trovarsi, come quelle, ad esempio, delle nostre badanti. L’unica donna che è raccontata in questo libro è proprio una signora dell’est europeo, Romana, che improvvisamente - avendo perso l’affetto che la legava qui, una delle nostre persone anziane che accudiva - si è trovata a perdere la famiglia che l’aveva accolta e, con questa, la casa e il lavoro, a non riuscire più a risalire la china e a non riuscire più neppure ad avere la forza di ritornare in patria, perché la sua dignità di donna lavoratrice da tanto tempo non lo ha permette.

D. - Come poi dalla realtà parrocchiale si può uscire fuori e andare verso l’altro, don Nandino?

Don Capovilla – E’ assolutamente necessario riscrivere, continuamente, quei percorsi di solidarietà delle nostre città, le reti che ci impegnano prima di tutto come cittadini prima che come credenti, proprio per generare inclusione, ascolto, possibilità di spazi. Dal libro, per esempio, è nata un’esperienza di superamento di chiusura delle biblioteche cittadine. Nelle istituzioni, da cittadini e da cristiani, ci mettiamo ad inventare, con creatività, soluzioni nuove perché davvero da questi cittadini “a metà”, come dice Papa Francesco, si possa avere tutti gli stessi diritti nella stessa città.

D – Don Nandino, voi come Pax Christi, spesso siete usciti dalla realtà parrocchiale per andare ad esempio nei Territori palestinesi. Lì ci sono persone ‘escluse’, nel senso di escluse dalla pace: cosa manca per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi oggi?

Don Capovilla – La mancanza di giustizia, la mancanza di un sussulto per i popoli del Medio Oriente, in particolare, i popoli oppressi, come quello palestinese da un’occupazione militare, da una colonizzazione che mette in dubbio anche il progetto di una soluzione di due Stati per due popoli. E, da parte nostra, deve esserci un sussulto sul riconoscimento dei percorsi che possono portare alla pace: in questo caso, in questi giorni, anche dal nostro Parlamento italiano, per un riconoscimento dello Stato di Palestina, come l’Europa ha già fatto.

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Sugli schermi italiani “Difret. Il coraggio per cambiare”

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Dopo aver vinto numerosi premi applaudito dal pubblico, è giunto sugli schermi italiani “Difret. Il coraggio per cambiare”, girato con grande passione dal regista etiope Zeresenay Berhane Mehari. E’ la storia dolorosa e coraggiosa accaduta a una ragazzina etiope quattordicenne e di come sia diventata un esempio a difesa della dignità e libertà delle donne africane. Il servizio di Luca Pellegrini: 

(clip dal film)

Collega avvocato: “Mi hanno detto che il Consiglio del villaggio ha esiliato Hirut e le proibisce di tornare. E’ vera la notizia?”.

Meaza Ashenafi: “Per questo sono qui. Vorrei sapere che ne pensa... Ho chiesto al sostituto procuratore di convincere il Consiglio degli anziani a revocare la decisione, ma lui ha rifiutato. Allora ho chiesto al ministero della giustizia di intervenire. Dicono: ‘Non ci immischiamo con le leggi della tradizione!’”.

L’avvocato Meaza Ashenafi ha ben chiaro l’orrore di questa tradizione, che consiste nel rapire e violentare ragazzine adolescenti per costringerle al matrimonio, di cui Hirut è stata una delle tante vittime: si chiama Telefa, il suo giogo è sopportato in silenzio dalle donne e tranquillamente imposto dagli uomini. La storia di Hirut, però, che veniamo a conoscere nel film “Difret. Il coraggio per cambiare”, è realmente accaduta in Etiopia nel 1996: preso in mano un fucile, sparò al suo rapitore e aspirante sposo. Un sistema legislativo arrugginito e l'acquiescenza delle leggi nei confronti, appunto, delle tradizioni stavano per avere la meglio sui principi di libertà e dignità umane: Hirut finiva in prigione, rischiando la pena di morte. Intersecava, però, questa vicenda tragica la giovane e caparbia Meaza, fondatrice di Andenet, un'associazione di donne avvocato nata per difendere i più deboli. Dopo una corsa tra cavilli legali e intimidazioni, rimosso pure il Ministro della Giustizia d'allora, Hirut è stata assolta dall'accusa di omicidio. Tra le donne etiopi la reazione fu contrastante. Alcune continuarono a difendere la pratica della Telefa, altre ovviamente si schierarono contro. Il regista ha affermato, all’indomani del successo del film nel suo Paese, che la cosa più importante generata dai quei fatti è consistita nell'aver dimostrato che la legge di uno Stato può sconfiggere una tradizione sbagliata e che quella stessa legge può essere usata per proteggere le donne che ne sono vittime. Per questo il film s’intitola Difret, che in amarico significa "coraggio" oppure "osare".

Secondo una revisione del Codice Penale del 2004, rapimento e stupro possono ora essere puniti con una condanna fino a 15 anni di reclusione, anche se la legge non sempre viene applicata perché nelle zone rurali la tradizione è ancora assai ben radicata. Ma per l’Etiopia quei fatti sono stati importanti ed esemplari. Alla fine del film Hirut si confonde tra la folla di Addis Abeba: dopo aver vinto il processo, che ha cambiato il futuro suo e di tutte le donne etiopi, lei decide di raggiungerle sulla strada, diventando semplicemente una di loro.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vietnam. La Messa del card. Filoni a Xuan Loc

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Un ringraziamento per il lavoro fatto fino ad oggi e un augurio di buon cammino per il futuro: questo il centro dell’omelia pronunciata oggi dal cardinale Fernando Filoni, nella celebrazione per il 50.mo anniversario della creazione della diocesi vietnamita di Xuan Loc. Il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, in visita pastorale in Vietnam, nei giorni scorsi ha avuto l’occasione di celebrare anche il 400.mo anniversario di evangelizzazione di questa terra e di affidare a Maria la protezione dell’evangelizzazione nel mondo, durante una preghiera nel Santuario nazionale di La Vang.

La storia della diocesi di Xuan Loc
La diocesi di Xuan Loc fu eretta il 14 ottobre 1965 per volere del Beato Papa Paolo VI che eresse anche la diocesi di Phu Cuong, sempre in Vietnam. Ciò avvenne mentre il Concilio Vaticano II stava per concludersi: infatti, sempre quest’anno, ricorrono i 50 anni del Decreto missionario “Ad gentes” con cui i padri conciliari chiesero che l’evangelizzazione passasse direttamente nelle mani delle chiese locali e quindi delle diocesi. “Xuan Loc è dunque il frutto del Concilio – ha proseguito il porporato – e in questi anni si è assunta il compito di annunciare il Vangelo e di fare di voi la vera ‘famiglia di Dio’”.

Il tema della famiglia
Il cardinale Filoni ha poi lodato il programma quinquennale con cui la diocesi si è preparata a questo anniversario: il tema scelto per la riflessione è stato quello della famiglia, in riferimento alla parrocchia, al mistero della Chiesa, alla carità, all’annuncio del Vangelo e – nell’ultimo anno – all’Eucaristia. “So che proprio questo è il tema corrente – ha aggiunto – rinnovare la nostra fede perché le nostre famiglie e le nostre parrocchie divengano famiglie di Dio e in questa fedeltà Dio vi benedirà con molte vocazioni”.

La riflessione sulle Letture
Infine, il porporato ha guidato una riflessione sulle letture odierne, a partire dal Vangelo di oggi che propone il brano dell’evangelista Luca in cui Gesù nella sinagoga di Nazareth spiega la sua missione, cioè essere stato “consacrato per annunciare ai poveri un lieto messaggio e un anno di grazia”. Anche il profeta Isaia, nella Prima lettura, parla della missione di Gesù, venuto al mondo per fasciare le piaghe dei feriti, per dare libertà ai prigionieri e per manifestare a tutti la misericordia di Dio: “C’è missione più bella, più nobile, più alta di questa? – chiede il cardinale Filoni – Questa è anche la vostra missione di oggi!”. La Seconda lettura, invece, è tratta da San Paolo, che ricorda come l’annuncio del Vangelo sia un dovere del fedele e non un aspetto secondario: “Guai a me se non predicassi il Vangelo! Ma dove? Quando? La risposta è: dovunque e sempre!”.

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Ucraina. A Mariupol dopo la strage offensiva dei separatisti

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Proseguono le violenze nel sudest dell’Ucraina, dopo che ieri il lancio di una raffica di missili Grad – almeno 120 - su Mariupol ha causato la morte di almeno 30 civili e il ferimento di 93 persone, distruggendo un mercato, diversi edifici e perfino un asilo. Intanto i separatisti continuano la loro offensiva e il leader dell’autoproclamatasi repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharcenko, ha annunciato una vasta operazione militare proprio nella città sul Mar Nero, strategicamente importantissima non solo perché cuore dell’industria metallurgica ucraina, ma soprattutto perché potrebbe creare un corridoio terrestre tra la Crimea, ormai russa, e Mosca.

Il governo di Kiev
Il presidente ucraino, dopo quanto è accaduto, è rientrato in anticipo dall’Arabia Saudita: “Le cosiddette repubbliche di Donetsk e Lugansk devono essere considerate organizzazioni terroristiche – ha tuonato – difenderemo la nostra patria fino alla vittoria finale”. Kiev si scaglia anche contro Mosca, accusandola di avere novemila soldati nel sudest ucraino per “sostenere le azioni terroristiche” e di essere quindi “pienamente responsabile” delle violenze in atto.

La reazione dell’Unione europea
E dopo l’ennesima strage, alza i toni anche l’Alto rappresentante della politica estera europa, Federica Mogherini, che se finora aveva lanciato appelli a Mosca invitandola a riconoscere le proprie responsabilità, ora la mette in guardia da un possibile “deterioramento delle relazioni con l’Ue” rivolgendosi apertamente al presidente Putin affinché “eserciti la propria influenza”. In Europa, infatti, c’è chi parla già di nuove sanzioni, come la Lettonia, presidente di turno dell’Unione, finora congelate dagli accordi di Minsk – gli unici che la Russia abbia mai firmato – ma che, prevedendo una tregua, appaiono ormai lettera morta.

I dati del conflitto
Dall’inizio del conflitto nel sudest dell’Ucraina, nell’aprile del 2014, si calcola che siano state uccise circa 15mila persone. Secondo le Nazioni Unite, ben 262 sono state le vittime negli ultimi nove giorni, da quando la tensione è tornata a salire.

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Elezioni Grecia. Aperti dalle 6 i seggi per le politiche

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Sono iniziate questa mattina alle 6 ora locale - con qualche problema causato dal maltempo nell’isola di Creta – le operazioni di voto in Grecia, dove poco meno di dieci milioni di cittadini sono chiamati alle urne per le elezioni politiche. Gli occhi di tutta l’Europa sono puntati sui risultati che nella loro forma definitiva arriveranno soltanto domani, perché da come si rinnoverà il Parlamento greco potrebbe determinarsi il futuro del Paese in Europa.

I candidati
A sfidarsi sono l’attuale premier, il conservatore Antonis Samaras, leader di Nea Dimokratia e fautore della politica del rigore, e Alexis Tsipras, che ha riunito la sinistra nel partito Syriza e che promette la fine dei tagli a pensioni e stipendi. Alcuni analisti ritengono che una sua vittoria potrebbe condurre la Grecia al fallimento e farla uscire dall’Eurozona, ma lui smentisce dicendosi convinto che si possa arrivare a un accordo con i creditori internazionali. Gli ultimi sondaggi della vigilia danno Syriza al 31.2% contro il 26 di Nea Demokratia, ma sembra che comunque la sinistra non riesca a conquistare abbastanza seggi per poter governare da sola.

Le dichiarazioni
“Una giornata storica – l’ha definita il superfavorito Tsipras all’uscita del suo seggio nel quartiere ateniese di Kipseli – oggi i greci devono decidere se domani la troika dovrà tornare in Grecia oper proseguire ciò che ha fatto con Samaras. Il popolo deve votare per difendere la propria dignità”. Più diretto il premier uscente Samaras, che dopo aver votato a Pylos, nel Peloponneso, ha detto: "Le elezioni di oggi determineranno il futuro nostro e dei nostri figli". I seggi chiuderanno alle 19 ora locale. "Mi auguro che il popolo greco dimostri responsabilità, prevedo anni difficili", ha invece affermato il presidente uscente Papoulias da Ioannina, nella Grecia settentrionale. 

Aggressione a militante di Alba Dorata
Un deputato del partito di estrema destra Alba Dorata è stato aggredito stamani mentra si recava a votare nel seggio di Kallipoli, nel quartiere ateniese del Pireo. Il politico è stato soccorso in ospedale mentre l'assalitore ha fatto perdere le proprie tracce. Molti militanti di Alba Dorata, detenuti da mesi con l'accusa di aver creato un'organizzazione criminale, hanno votato oggi in carcere. (R.B.)

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Preoccupazione per l’ostaggio giapponese nelle mani dell’Is

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C’è molta apprensione in Giappone e in tutto il mondo per la sorte di Kenji Goto Jogo, il reporter freelance ancora nelle mani del sedicente Stato islamico (Is), che è apparso in un video della durata di quasi tre minuti in cui ha annunciato l’esecuzione dell’altro ostaggio giapponese, Haruna Yukawa, e ha implorato che gli venga salvata la vita.

Confermata l’autenticità del video
Le immagini del video in questione sono “verosimilmente autentiche”: così ha confermato oggi un portavoce del governo di Tokyo, Yoshihide Suga, che ha aggiunto che ancora non ci sono stati nuovi contatti tra il governo e i rapitori, i quali nel frattempo hanno avanzato una nuova richiesta: non più un riscatto pari a 200 milioni di dollari, ma la liberazione di Sajida al-Rishawi, la kamikaze irachena sopravvissuta all’attacco di un albergo in Giordania nel novembre 2005 e attualmente detenuta ad Amman.

Le reazioni
Il premier giapponese Shinzo Abe, intanto, è tornato a ribadire che Tokyo “non cederà mai al terrorismo” e ha chiesto “il rilascio immediato” dell’ostaggio. Unanime la condanna del mondo, a partire da quella del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha assicurato la sua collaborazione al Giappone e a tutti gli altri alleati contro i jihadisti. (R.B.)

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Vescovi australiani contro la tratta: le persone non sono in vendita

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“Impegniamoci tutti insieme per sradicare il traffico di esseri umani, che è un affronto alla nostra umanità”: scrive così mons. Eugene Hurley, presidente della Commissione per la Vita pastorale della Conferenza episcopale australiana, in un messaggio diffuso in vista dell’8 febbraio, prima Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. Il documento, siglato anche dalle Religiose cattoliche australiane impegnate nella lotta alla tratta, si intitola “Le persone non sono in vendita”.

27 milioni di persone vittime della tratta
“Il traffico di esseri umani esiste perché noi lo permettiamo”, continua mons. Hurley, sottolineando quanto sia importante sensibilizzare l’opinione pubblica su questo “tragico fenomeno che rappresenta una delle piaghe più tristi della nostra epoca”. “Nonostante i numerosi sforzi a livello internazionale – ribadisce il presule – oggi si stima che circa 27 milioni di uomini, donne e bambini vengono totalmente privati della loro libertà e costretti a soffrire in condizioni di sfruttamento e schiavitù”. Per questo, “c’è una necessità impellente di porre fine alla tratta”.

Occorre sforzo globale per prevenire il crimine
Quindi, la Chiesa australiana ricorda le vittime di prostituzione, matrimoni forzati, lavoro nero in settori come l’agricoltura, l’abbigliamento e la pesca; e non dimentica di citare “le 200 studentesse rapite da Boko Haram in Nigeria, lo scorso 27 aprile” a scopo di schiavitù. Sono quattro, dunque, gli obiettivi da raggiungere, conclude mons. Hurley: “Prevenire il crimine, proteggere le vittime, perseguire legalmente i committenti, collaborare al cambiamento”, coinvolgendo “tutti i settori della società in uno sforzo globale”.

8 febbraio, una data significativa
La Giornata di preghiera contro la tratta viene promossa dai Pontifici consigli della Pastorale per i migranti e della Giustizia e della pace, insieme alle Unioni internazionali femminili e maschili dei superiori e superiore generali. La scelta della data è significativa: l’8 febbraio, infatti, ricorre la memoria liturgica di Santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese, liberata e divenuta religiosa canossiana, canonizzata nel 2000 dall’allora Papa Giovanni Paolo II. (I.P.)

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Corea: speranza e attenzione ai poveri, l’eredità del viaggio del Papa

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Una “Chiesa povera per i poveri”, meno autoreferenziale, capace di vivere e di testimoniare in concreto la gioia del Vangelo e più impegnata per la pace e la giustizia. Sono questi alcuni dei cambiamenti più attesi oggi dai cattolici sud coreani. A rilevarlo i risultati, diffusi in questi giorni, di un’indagine condotta lo scorso autunno dall’Istituto pastorale cattolico della Corea (Cpik) sulle sfide pastorali della Chiesa coreana dopo il viaggio apostolico di Papa Francesco nel Paese, svoltosi ad agosto 2014. Un evento che ha lasciato un segno profondo tra i fedeli in Sud Corea, sia per la capacità di contatto umano di Papa Francesco (a colpire in particolare la vicinanza mostrata ai familiari delle vittime della tragedia del traghetto Sewol), sia per i contenuti dei suoi interventi.

Le due frasi di Papa Francesco rimaste più impresse
Due le frasi rimaste particolarmente impresse, secondo i risultati dell’’indagine commissionata dalla Conferenza episcopale (Cbck): l’esortazione  rivolta dal Santo Padre ai vescovi durante l’incontro a Seoul ad essere “custodi della memoria e della speranza” e alla “sollecitudine verso i poveri” e l’affermazione “con il dolore umano non si può essere neutrali”, pronunciata durante la conferenza stampa del volo di ritorno a proposito della stessa tragedia di Sewol.

Più dialogo, spiritualità e impegno sociale
Tra i sei quesiti proposti nel questionario,  di particolare interesse quello su cosa dovrebbero fare i fedeli per rinnovare se stessi. La maggior parte degli intervistati vorrebbe vescovi più aperti al dialogo e più attivi nella promozione della giustizia sociale; sacerdoti meno moralisti e autoritari; religiosi più impegnati ad approfondire la loro vita spirituale e laici meno divisi che diano più spazio alla preghiera e alla spiritualità. Infine, alla domanda: “Quali sono i compiti della Chiesa in Corea per rinnovarsi ed evangelizzarsi?”, la maggior parte degli intervistati ha indicato quale priorità “la promozione di un ambiente ecclesiale più accogliente verso i poveri”.

I risultati dell’indagine sono stati presentati all’ultima sessione autunnale dei vescovi sud-coreani e pubblicati ieri sul sito della Cbck.  (L.Z.)

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Allarme vescovi maltesi: danneggiare Creato danneggia sviluppo

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Danneggiare l’ambiente mette in pericolo lo sviluppo economico e sociale: così, in sintesi, la Commissione interdiocesana per l’ambiente (Ka) della Chiesa di Malta mette in guardia le autorità locali in relazione all’eccessivo sfruttamento costiero delle isole maltesi. In particolare, la Ka fa riferimento alla proposta di costruire due hotel su un largo tratto della costa sud-orientale.

Promuovere turismo sostenibile
“La proposta – sottolinea la Ka – spiega che il progetto porterà prosperità economica” a tutta Malta; tuttavia, “se si continua a giustificare la costruzione edilizia su terreni non edificabili, il Paese continuerà a patire le conseguenze di danni irreparabili sull’ambiente e la natura, i quali avranno ripercussioni sullo sviluppo economico e sociale” dell’intera popolazione. Puntando, quindi, alla necessità di garantire “lo sviluppo sostenibile” e “l’ecologia”, la Commissione interdiocesana per l’ambiente si chiede se tale proposta rientri veramente nel piano edilizio nazionale e se “intenda davvero promuovere il turismo rurale come parte essenziale del turismo sostenibile”.

Le coste, bene comune per tutti
Di qui, l’appello alle “autorità competenti affinché ci pensino bene prima di concedere l’autorizzazione ad un simile progetto e tengano conto del pesante prezzo che il Paese potrebbe pagare se questo tratto della costa sud-orientale si dovesse trasformare in un beneficio economico solo per pochi, invece di essere un bene comune per tutti”. (I.P.)

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Kenya. Pubblicata ricerca per ridurre la povertà nel Paese

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Stimolare una riflessione sulle strategie migliori per ridurre la povertà in Kenya. È quanto si propone il volume “Paths of Development”, pubblicato dall’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea). Il volume, presentato nei giorni scorsi nella sede della Cuea a Nairobi, è il frutto di una ricerca durata due anni, dal 2011 al 2012, nella quale sono stati messi a confronto i programmi governativi di promozione dello sviluppo, centrati sul credito agevolato alle iniziative imprenditoriali, e quelli della Chiesa imperniati piuttosto sulla solidarietà e sulla promozione di gruppi di auto-aiuto nelle comunità locali.

Rivedere le politiche economiche
I risultati della ricerca condotta dalla Cuea, in collaborazione con la Federazione internazionale delle Università cattoliche (Ifcu) e altri organismi pubblici e cattolici, indicano che il compito di sradicare la povertà richiede l’azione coordinata di diverse organizzazioni, ma anche che le strade alternative proposte dalla Chiesa possono essere più efficaci. È quanto ha evidenziato alla presentazione del libro mons. Zacchaeus Okoth, che ha quindi esortato il governo keniano a rivedere le sue riforme economiche per la lotta alla povertà.

La carità quale strada alternativa nella lotta alla povertà
Per sradicarla occorre affrontare i problemi che la alimentano, ha sottolineato il presule ricordando in conclusione che la carità è una parte vitale della missione della Chiesa e che il bene comune richiede una condivisione di valori, oltre che di ricchezze. (L.Z.)

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La Guardia svizzera festeggia 509 anni di servizio

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Ha festeggiato 509 anni dalla sua fondazione il 22 gennaio scorso, il Corpo della Guardia svizzera Pontificia, al servizio del Papa dal 1506. Per ricordare l’importante anniversario, è stata celebrata a Roma una Messa nella chiesa di Santa Maria della Pietà in Camposanto Teutonico dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro, e concelebrata dal cappellano del corpo, don Pascal Burri.

La missione di fedeltà al Papa e alla Chiesa
È una storia, quella della Guardia svizzera a servizio del Pontefice, scritta “con inchiostro indelebile e che ha il colore e l’intensità della fedeltà al Papa e alla Chiesa”, ha detto il comandante, Daniel Rudolf Anrig, intervistato per l’occasione. Una fedeltà che si rinnova giorno dopo giorno nel servizio di “migliaia di uomini che hanno contribuito alla longevità del Corpo, mentre altrettanti si apprestano a farlo tutt’ora”, ha concluso. (R.B.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 25

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.