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Sommario del 15/01/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa in volo per Manila: nelle Filippine “il messaggio saranno i poveri”

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Nelle Filippine “il messaggio saranno i poveri”, soprattutto il sostegno alle vittime del tifone Yolanda. Lo ha detto Papa Francesco nel lungo colloquio, circa 45 minuti, avuto coi giornalisti a bordo dell’aereo papale. Molto incisive le parole del Papa sui fatti di Parigi, quando ha ribadito che la libertà di espressione è un “diritto fondamentale” ma anche quello di una fede di non essere messa in ridicolo. Tra i temi toccati, la riconciliazione in Sri Lanka e la prossima Enciclica incentrata sui temi ambientali, che dovrebbe essere pubblicata in estate. Il servizio del nostro inviato a Manila, Alessandro De Carolis

Il “brivido” lungo la schiena dei cronisti e dei cameraman scorre all’unisono quando Francesco, alla domanda sul diritto alla libertà di religione e a quello di espressione, come sua abitudine non svicola e va diritto al punto. Il quesito è di un giornalista francese e in ballo c’è la valutazione del Papa sui recenti fatti di Parigi. Queste libertà, afferma, “sono tutte e due diritti umani fondamentali”. Ma così come, scandisce, è un’“aberrazione” chi pretenda di “uccidere in nome di Dio”, sbaglia anche chi arriva a offendere una religione sventolando la bandiera del diritto a dire ciò che si vuole. Sul punto Papa Francesco è inequivocabile: certamente è doveroso dire ciò che contribuisce a costruire il “bene comune”, e certamente non si può reagire con violenza a un affronto, ma nemmeno “si può provocare”. “Non si può insultare la fede degli altri – insiste – non si può prendere in giro la fede”, perché “c’è un limite”, quello della “dignità” che ogni religione possiede.

E come si rischia una brutta reazione insultando chi per qualcuno è sacro, in modo analogo l’uomo rischia di essere vittima della natura da lui stesso “troppo sfruttata”. Uno dei temi iniziali della conferenza stampa aveva riguardato proprio la prossima Enciclica in preparazione sui temi ambientali. Papa Francesco ha dato la notizia da tempo attesa: il documento dovrebbe essere pronto per giugno, luglio. A fine marzo, ha annunciato, prenderà una settimana di tempo per concludere un testo già arrivato alla terza bozza, dopo la prima preparata dal card. Turkson, una seconda rivista dal Papa stesso con l’aiuto di esperti e una terza bozza redatta con il contributo di teologi. Quest’ultima versione ha ricevuto anche costruttivi apporti, ha riferito Francesco, da parte della Congregazione della Dottrina della Fede, della Segreteria di Stato e del teologo della Casa Pontificia. Quello che il Papa vuole è che l’Enciclica porti un “contributo” al prossimo vertice di Parigi sulla tutela ambientale. Quello scorso in Perù, ha soggiunto Papa Francesco, “mi ha deluso” per la “mancanza di coraggio”.

Sulla tappa srilankese del viaggio apostolico, Papa Francesco aveva aperto con una spiegazione del perché abbia ultimamente privilegiato – nel proclamare nuovi Santi – la procedura della “Canonizzazione equipollente”, nel caso di Beate e Beati venerati già da secoli, come avvenuto con l’Apostolo dello Sri Lanka, Giuseppe Vaz. Nella sua scelta – come per la Beata Angela da Foligno, Pietro Favre, padre de Anchieta e gli altri – il Papa ha detto di  preferire, in accordo con la visione dell’“Evangelii Gaudium”, “grandi evangelizzatori ed evangelizzatrici”. Così avverrà in settembre, durante il suo viaggio apostolico negli Stati Uniti, quando canonizzerà Junipero Serra, che portò il Vangelo nell’ovest del Paese.

Forti le parole sul crescente utilizzo di ragazzi e bambini negli attentati kamikaze, drammaticamente noti anche nel conflitto che ha insanguinato lo Sri Lanka. Francesco ha detto di vedere, al di là di problemi psichici, uno “squilibrio umano” in chi sceglie di uccidersi per uccidere. Un kamikaze, ha osservato, è uno che “dà la vita ma non la dà bene”, al contrario per esempio di tanti missionari che pure danno la vita “ma per costruire”. E dunque, mettere una bomba addosso a un bambino non è altro, per il Papa, che un altro dei terribili modi di renderlo “schiavo” .

Sollecitato poi dalla domanda sui possibili attentati contro la sua persona e contro il Vaticano, Francesco ha detto di temere soprattutto per l’incolumità della gente che viene a incontrarlo, dicendo invece di se stesso, con un sorriso, di affrontare questo pericolo con “una buona dose di incoscienza”. Il “miglior modo” per rispondere alla violenza, ha sottolineato, “è la mitezza”.

Un’altra spiegazione, Papa Francesco l’ha data circa la sua visita a sorpresa in un tempio buddista, al termine della seconda giornata in Sri Lanka. Si è trattato di  uno scambio di cortesie con il capo del tempio che era venuto a salutarlo all’aeroporto, ma anche un riconoscimento – ha sottolineato – del valore dell’interreligiosità, che in modo plastico si manifesta ad esempio proprio nel Santuario di Madhu, in Sri Lanka, luogo di incontro e di preghiera non solo di cattolici.

Alla domanda sulla possibilità di coinvolgere le altre religioni contro il terrorismo, magari con un incontro sullo stile di Assisi, Francesco ha detto di aver saputo che “c’è gente che lavora per questo” in ambienti di altre fedi, dove serpeggia una certa “inquietudine” sulla recrudescenza del terrorismo.

Una valutazione del Papa ha riguardato anche un suo appoggio a Commissioni di verità e riconciliazione nel mondo, come quella in Sri Lanka. Francesco ha detto di averne sostenuta una in Argentina e di appoggiare tutti gli “sforzi equilibrati” che “aiutino a mettersi d’accordo” e non cerchino la vendetta. Citando parole del nuovo presidente dello Sri Lanka, Papa Francesco ha detto di essere rimasto colpito dall’idea del presidente di voler andare avanti nel lavoro di pace e di riconciliazione, ma soprattutto di mirare a “creare l’armonia nel popolo”, che è “più della pace e della riconciliazione”. Ma per far questo è necessario “arrivare al cuore del popolo”. L’incontro con i giornalisti è finito con gli auspici del Papa per l’Agenzia Ansa che celebra i 70 anni di attività. “Vi auguro ogni bene”, ha concluso.

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Folla imponente per l'arrivo del Papa a Manila

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Papa Francesco è giunto poco prima delle 10.45 ora italiana a Manila, nelle Filippine, seconda tappa del suo nuovo viaggio in Asia, dopo i giorni intensi vissuti nello Sri Lanka, e che si svolge sul motto "Misericordia e compassione". Alla Villamor Air Base della capitale filippina la cerimonia di benvenuto. Il servizio di Sergio Centofanti

Accoglienza molto calorosa per Papa Francesco a Manila, tra canti e danze locali. A salutarlo, oltre ai tanti giovani che hanno intonato il coro "Papa Francisco, bienvenido", il presidente Benigno Aquino, che gli ha baciato la mano, e i vescovi locali guidati dal cardinale arcivescovo di Manila, Louis Antonio Tagle, che il Papa ha abbracciato con affetto. Dopo gli inni, un breve colloquio tra Francesco e il capo di Stato filippino. Quindi il tragitto verso la nunziatura tra due ali di folla festante: si calcolano 2 milioni di persone. Tra gli eventi più attesi di questo viaggio, gli incontri a Tacloban, quasi interamente devastata dal tifone Yolanda nel novembre 2013 che in tutto ha causato oltre 6 mila morti. Il Papa incontrerà i superstiti e inaugurerà un centro costruito con il contributo di “Cor Unum”. Francesco per questa visita ha voluto costi ridottissimi e si svolge quindi all’insegna della sobrietà, perché tutto ciò che verrà risparmiato possa andare a chi ha bisogno. Il Papa viene a visitare l’unico Paese dell’Asia, a parte il piccolo Timor Est, a maggioranza cattolica. Una Chiesa vivace e di fede profonda che accoglie per la quarta volta un Successore di Pietro. Adesso a Manila è già sera. Il Papa pernotterà nella nunziatura a Manila. Domani l’incontro con il Corpo diplomatico, la Messa con il clero e a chiusura di giornata l’atteso appuntamento con le famiglie filippine.

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Nunzio Manila: incoraggiamento all'unica grande comunità cattolica d'Asia

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Sul viaggio del Papa nelle Filippine, uno dei nostri inviati, Sean Lovett, ha sentito il nunzio apostolico a Manila, mons. Giuseppe Pinto

Incoraggiamento all’unica grande comunità cattolica in Asia
R. – Questo incontro con l’unica grande comunità cattolica dell’Asia significa portare incoraggiamento alle Chiese locali, quelle delle Filippine in particolare, perché elaborino una presenza nuova ed efficace. Quando venne Giovanni Paolo II, il suo auspicio fu che la comunità delle Filippine non soltanto manifestasse e desse testimonianza a Cristo, ma nello stesso tempo fosse perfettamente inserita nell’ambito delle antiche civiltà asiatiche.

Importante ruolo dei laici nelle Filippine
D. – Lei dice che c’è molto da fare in questa Chiesa locale, cosa intende?

R. - Ci sono vari livelli in cui c’è molto da lavorare. Il primo è quello che è fisiologico: cioè, si sta rinnovando l’episcopato, in quanto ci sono già tanti presuli che hanno raggiunto e superato i 75 anni, quindi adesso tocca a i giovani  - perché già molti, a loro volta, si sono avvicinati a questa età - tocca ai giovani sacerdoti, toccherà ai laici riformare queste Chiese locali che sono nate come Chiese di laici, come in altri Paesi dell’area. Quindi, è un problema di un lavoro fatto insieme: i laici con le loro responsabilità da una parte e i pastori con i sacerdoti dall’altra. Tanto è vero che i vescovi hanno dedicato l’anno che sta per terminare ai laici. E a loro, ai laici, hanno indicato le responsabilità. Posso soltanto ricordare alcune responsabilità dei laici. La responsabilità diretta sulle famiglie cattoliche e, in particolare, ai genitori, di essere modelli di bontà e di vita cristiana con la preghiera, la frequenza alle celebrazioni e l’aiuto reciproco. E poi la responsabilità, propria del laicato, di stabilire un ordine sociale giusto nelle Filippine, ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa. Qui sta avvenendo e deve avvenire, grazie a Dio, una differenziazione di ruoli. Ed è questo che si vuol fare, valorizzando in questo movimento soprattutto i giovani. E, infatti, il Papa che guarda all’Asia, li incontrerà nell’università, in una fra le più famose del mondo, all’Università di Santo Tomas, e parlerà a loro perché siano i protagonisti nel terzo millennio: coloro che portano la Chiesa al dialogo. Ecco perché è la Chiesa delle “porte aperte”, la Chiesa che va verso gli altri. Che siano loro per primi, i giovani, ad inserirsi in questo quadro non facendo proseliti ma evangelizzando, cioè annunciando, e quindi convivendo, vivendo bene con le comunità dell’area.

Forte religiosità popolare
D. - Quando si pensa alla Chiesa nelle Filippine si pensa anche a una Chiesa fortemente radicata nella religiosità popolare. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?

R. – Se per religiosità popolare ci si riferisce al folclore, questo c’è, ma non è tutto e non è la parte principale. Se, invece, ci si riferisce al fervore della fede questo c’è e accompagna la vita di questo popolo. Ecco perché questa è la fiammella che bisogna un po’ far risplendere, ancora di più, perché i filippini sono persone di profonda fede: loro la dimostrano, la vivono, partecipano alle celebrazioni. Ma c’è bisogno di interiorizzare, di mettere una forza interiorizzante: l’auspicio è che la visita del Papa porti ad interiorizzare i valori che già hanno e che sono preziosi, anche per la Chiesa è universale.

Visita nelle zone colpite dal tifone
D. – Parliamo della visita a Tacloban che è il fulcro un po’ di questo viaggio. Il Papa l’ha voluta fortemente, quando ha celebrato quell’incontro con la comunità filippina a Roma, dopo “Jolanda”. Da lì è un po’ scaturito il suo desiderio di venire qui nelle Filippine ad essere fisicamente presente nella zona. Lei ha visitato quella zona, che cosa ha visto? Ci parla della sua esperienza lì a Palo, a Leite?

R. – Io sono stato nella provincia di Leite a Natale dell’anno scorso. Ho celebrato il Natale con loro. E’ stato un momento molto commovente per me e per loro, per l’arcivescovo mons. John Du, che è stato così gentile a ricevermi e nel vivere insieme questo momento prezioso. Momento in cui ho visto partecipare la Nazione intera … E’ stato un momento di comunione. La cosa bella di laggiù è stato sentirsi con la gente e a quel punto non sentirsi più a Leite ma sentirsi comunità, vicino a nostro Signore Gesù Cristo. Sono passate quelle due giornate della vigilia e del Natale in un modo incredibile. Nessuno di noi ha pensato più a se stesso, né da dove veniva, né dove andava, non c’erano programmi, siamo semplicemente stati con i giovani. Vorrei riferire soltanto un episodio veramente bello dell’arcivescovo che si è calato nella cappella completamente crollata e a rischio della sua vita ha tirato su il Santissimo con il Tabernacolo. Tutto intatto. L’ha rimesso lì e lì ha costruito una piccola cappella, per il momento, dove il Signore continua a stare con loro, anche in questi momenti drammatici, drammatici. Un altro episodio molto bello è stato nella parrocchia dei padri spagnoli, l’unica che non è crollata. Allora, lì, si sono riuniti migliaia e migliaia di persone, pensiamo che lì sono morte tra le 2 e 3 mila persone su poco meno di 7 mila. E’ successo che non c’era più nulla da mangiare e non si poteva andare da nessuna parte perché era tutto distrutto, completamente. E allora mi è venuta l’idea di scrivere con le pietre sull’oratorio, all’aperto: “Abbiamo fame”. Dopo qualche ora è arrivato l’elicottero e ha lanciato i viveri e l’acqua di cui avevano bisogno. Piccoli episodi ma che danno il senso di quello che è una distruzione totale. L’ultimo, la cosa più bella, proprio vicino all’Oceano Pacifico, proprio da dove è arrivata la grande ondata che ha distrutto parecchie province nelle Visajans centrali, è successo che sono rimaste in piedi soltanto due statue: una di san Giuseppe e l’altra della Madonna. Chi va lì può vederli ancora adesso. Questa è una Chiesa straordinaria, una Chiesa che soffre, ma che è viva dentro e gioisce perché ama la musica, l’arte e, allo stesso tempo, è attaccatissima alla fede.

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Francesco nelle Filippine. Padre D'Ambra: grandi speranze

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Papa Francesco ha iniziato la sua visita nelle Filippine. Tra gli eventi più attesi, gli incontri a Tacloban, quasi interamente devastata dal tifone Yolanda nel novembre 2013. Sul significato di questa visita apostolica Alessandro De Carolis ha sentito padre Sebastiano D’Ambra, missionario del Pime, che opera nel sud del Paese, dove è forte la presenza musulmana, e che parla di "grandi attese": 

R. – Senz’altro è una cosa molto positiva. Da tutte le parti si recano a Taclobane. Sicuramente dà speranza alla gente. Io mi trovo qui a Mindanao e a Zamboanga. Anche i musulmani, guardano con simpatia a questo incontro, anche perché Papa Francesco piace per la sua semplicità, la vicinanza ai poveri … tutte quelle che sono le caratteristiche di Papa Francesco.

D. – Altro punto focale saranno gli incontri che Papa Francesco avrà con i giovani e con le famiglie. Quali sono stati gli echi del recente Sinodo nella Chiesa filippina?

R. – A livello di Chiesa, specialmente il cardinale Tagle che è stato molto attivo anche al Sinodo e la Conferenza episcopale, stanno facendo diversi incontri a tutti i livelli. Credo che ci troviamo ancora nella fase iniziale. Logicamente è uno di quei temi che ha diversi aspetti. Nei giornali c’è la tendenza - anche qui – a prendere ciò che è più sensazionale e mettere da parte lo spirito vero di questo Sinodo. Quindi credo che bisogna lavorare molto per focalizzare l’attenzione del pubblico su quale sia veramente lo spirito di questo Sinodo. Credo che su quell’aspetto bisogna lavorare ancora di più e credo che la visita del Papa contribuirà molto in questa fase.

D. – Lei ha ricordato del suo lavoro, della sua esperienza contatto con i musulmani nella zona Sud delle Filippine. Qual è ora la situazione dei rapporti?

R. - Spero che il Papa anche nei discorsi, nei suoi incontri, parlerà di questo dialogo per la pace nel mondo filippino, specialmente a Mindanao. Che Papa Francesco possa dire a quei gruppi che sono divisi - perché ci sono delle divisioni – di mettersi d’accordo per il bene comune e per il futuro. Le divisioni sono anche culturali e rendono questo discorso della pace un po’ difficile. Quindi se il Papa può dire una parola, questo potrebbe essere un aiuto, come una parola per la difesa dell’ambiente perché qui a Mindanao lavoriamo molto per questo scopo. Purtroppo abbiamo il problema delle miniere che stanno distruggendo l’ambiente. Logicamente credo che il Papa avrà diverse richieste, poi nella sua saggezza dirà quello che è possibile dire.

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I media srilankesi salutano il Papa: "il leader che bacia i piedi"

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Questa mattina, prima di congedarsi dallo Sri Lanka e volare verso le Filippine, Papa Francesco si è recato presso l’Istituto Culturale Benedetto XVI a Bolawalana. Ce ne parla Silvonei Protz

Il Papa all’interno della cappella dell’Istituto si è fermato in preghiera davanti all’immagine di Nostra Signora di Lanka. Il successore di Pietro è venuto a confermare nella fede i fratelli e a scuotere le coscienze per una reale e possibile riconciliazione. Sono stati giorni segnati dalla gioia di un popolo che ha invaso le strade per salutare l’uomo venuto da lontano. Una felicità contagiosa, che le persone hanno mostrato fin dai primi momenti del suo arrivo. Le bandiere, i canti, i sorrisi, il trambusto nelle strade hanno dato il tono di quello che è successo qui a Colombo. Il popolo dello Sri Lanka ha fatto in modo che il Papa si sentisse a casa, come un vecchio amico che veniva in visita. Ma in questo abbraccio ideale a Francesco non c’era solo la dimostrazione di affetto di cattolici e altri cristiani, ma anche l’espressione di un popolo intero: buddisti, induisti, musulmani, hanno guardato a questo pellegrino di pace, al “leader che bacia i piedi” - come uno dei giornali locali ha descritto la figura di Francesco – come ad una persona di casa. La sua umiltà ha contagiato la gente, che anche se di religione diversa voleva vedere l’uomo vestito di bianco venuto dalla fine del mondo. Buddisti, musulmani, protestanti, cattolici, tutti sono felici per la visita di Francesco, convinti che il passaggio di Francesco sia una benedizione per un Paese che inizia una nuova fase della sua storia. “E’ stata la visita di un sant’uomo” - come ha scritto un giornale locale - “che veglia sulla pace e sul mondo”.

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Nomine

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Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Eparchia di Saint Thomas the Apostle of Sydney dei Caldei (Oceania) presentata da S.E. Mons. Djibraïl Kassab.

Il Papa ha nominato Vescovo dell’Eparchia di Saint Thomas the Apostle of Sydney dei Caldei (Oceania) S.E. Mons. Amel Shamon Nona, trasferendolo dalla Sede di Mossul dei Caldei e conservandogli il titolo di Arcivescovo ad personam. S.E. Mons. Amel Shamon Nona è nato ad Alqosh il 1° novembre 1967. Completati gli studi secondari, nel 1985 ha frequentato il Seminario Patriarcale Caldeo ed è stato ordinato sacerdote l’11 gennaio 1991 a Baghdad. Dal 1993 al 1997 è stato Vicario ad Alqosh, quindi parroco fino al 2000, quando si è iscritto alla Facoltà di Teologia dell’Università Lateranense di Roma. Nel 2005 ha conseguito la Laurea ed è rientrato in patria come parroco della chiesa di Alqosh ed è stato nominato Protosincello della sua Arcieparchia oltre ad essere professore di Antropologia al Babel College. Eletto Arcivescovo di Mossul dei Caldei il 13 novembre 2009, ha ricevuto l’ordinazione episcopale l’8 gennaio 2010. Parla l’arabo, l’italiano, il caldeo e conosce l’inglese.

Il Santo Padre ha nominato Vescovo dell’Eparchia di Mar Addai di Toronto dei Caldei (Canada) il Rev.do Corepiscopo Emmanuel Challita, del clero dell’Eparchia di Saint Thomas the Apostle of Detroit dei Caldei (U.S.A.). Il Rev.do Corepiscopo Emmanuel Challita è nato a Fishkabour-Zakho (Iraq) il 12 novembre 1956. Terminati gli studi primari nel suo villaggio, nel 1971 è entrato nel Seminario Minore "S. Giovanni" retto dai Padri Domenicani, presso Mossul. Nel 1977 è stato inviato alla Pontificia Università Urbaniana, dove ha compiuto gli studi di Filosofia e Teologia. È stato ordinato sacerdote da Papa S. Giovanni Paolo II, il 31 maggio 1984. Ha continuato gli studi presso la facoltà di Teologia dell’Università Urbaniana ed ha conseguito il dottorato in Teologia Biblica nel 1987. Si è trasferito negli USA presso l’Eparchia caldea di Saint Thomas the Apostle of Detroit, dove dal 1987 al 2000 ha svolto servizio presso la Parrocchia di San Paolo, North Hollywood (CA), dal 2000 al 2002 è stato Vice Parroco di S. Giuseppe, Troy, Michigan; quindi fino al 2006 Parroco nella stessa sede e al presente è Parroco di San Giorgio a Township (MI). Nel 2009, in occasione del suo venticinquesimo anniversario sacerdotale, ha ricevuto il titolo di Corepiscopo. Parla il caldeo, l’arabo, l’italiano e l’inglese; conosce l’assiro, il curdo, il francese, il tedesco, e tra le lingue antiche il latino, l’ebraico e il greco.

Il Papa ha concesso il Suo Assenso all’elezione canonicamente fatta dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa Caldea del Rev.do Sacerdote Basel Yaldo all’ufficio di Vescovo Ausiliare della Metropolia Patriarcale di Babilonia dei Caldei, al quale è stata assegnata la sede titolare vescovile di Betzabda. Il Rev.do Sacerdote Basel Yaldo è nato a Telkaif (Iraq) il 23 maggio 1970. Ha studiato al National Teachers College di Baghdad dove ha conseguito la licenza nel 1989. Nel 1994 è entrato nel Seminario Maggiore dei Caldei a Baghdad e nel 1996 è stato inviato in Urbe, dove nel 2001, presso la Pontificia Università Urbaniana, ha concluso gli studi in Teologia. È stato ordinato sacerdote il 23 novembre 2002 per l’Arcieparchia di Baghdad dei Caldei. Nel 2003 ha completato un Master in Teologia Dogmatica presso la medesima Università. Dal 2004 al 2006 ha avuto vari incarichi: Vice-Rettore del suddetto Seminario, docente di Teologia Dogmatica al Babel College, Vice-Parroco della chiesa del Sacro Cuore a Baghdad e Segretario Particolare del compianto Patriarca Cardinale Emmanuel III Delly. Nel 2007 si è trasferito negli USA presso l’Eparchia di St. Thomas the Apostle of Detroit dei Caldei, operando come Vice-Parroco di St. George Chaldean Catholic Church in Michigan, della quale al presente è parroco. Nel 2013 ha conseguito il dottorato presso la Pontificia Università Urbaniana. Parla l’aramaico, l’arabo, l’italiano e l’inglese.

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Accordo Santa Sede-Serbia su insegnamento superiore

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La Repubblica di Serbia e la Santa Sede, con rispettive Note Verbali del 17 dicembre 2014 e del 12 gennaio 2015, hanno notificato l’adempimento di tutti i requisiti, che sono previsti dalle normative interne delle due Parti per l’entrata in vigore dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di Serbia sulla collaborazione nell’insegnamento superiore, firmato il 27 giugno 2014 a Belgrado. Pertanto, l’Accordo è entrato in vigore il 12 gennaio 2015, a norma del suo articolo 7.

L’Accordo prevede che le Parti favoriranno la collaborazione nel settore dell’insegnamento superiore e promuoveranno i contatti diretti tra le istituzioni di tale tipo. Esse, inoltre, si impegnano ad uniformare le questioni riguardanti il riconoscimento reciproco dei titoli accademici e degli atti pubblici attestanti il conseguimento dell’istruzione superiore. Per applicare il presente Accordo, le due Parti stipuleranno successivamente i relativi protocolli addizionali, con i quali saranno definite le attività concrete, nonché le condizioni organizzative e finanziarie dell’applicazione.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale del direttore dal titolo "Al cuore del popolo".

Un solo voto, quello della riconciliazione: riproposto l'articolo di Giuseppe Angelini sull'Osservatore Romano del 16 gennaio 1915 su Benedetto XV e il turbolento scenario legato alla prima guerra mondiale, con un commento di Andrea Possieri dal titolo "Per una nuova teologia della pace".

Gabriele Nicolò su storie di amore e di guerra.

Apologia del chiaroscuro: Francesco Scoppola sulla difficile arte del restauro.

Dovere di coerenza: Carlo Petrini ribadisce il principio di non commerciabilità del corpo umano.

La diversità come luogo di incontro e dialogo: in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato, intervista di Nicola Gori al cardinale Antonio Maria Vegliò.

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Oggi in Primo Piano



Allarme profughi siriani. Zenari: grave dimenticare conflitto

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Allarme profughi siriani in Giordania, ma anche in Libano: a lanciarlo è l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati parlando dello stato estremo di povertà, inferiore a quello nazionale, in cui versano queste persone: oltre 150 mila quelle che vivono fuori dai campi attrezzati e che quindi mancano di elettricità, servizi igienici o muoiono di freddo. “La Comunità internazionale deve aumentare il sostegno per evitare che le famiglie facciano scelte drastiche di sopravvivenza” ha detto il Commissario Onu Antonio Guterres. Intanto sul terreno il conflitto interno e la furia dei miliziani dello Stato islamico, continuano a mietere vittime, ma la questione siriana sembra caduta nell’ombra come denuncia mons. Mario Zenari, Nunzio Apostolico a Damasco, al microfono di Cecilia Seppia

R. – E’ il quarto inverno che i siriani stanno vivendo e ogni inverno è sempre stato peggiore del precedente. Quest’anno in modo particolare. La gente vive in certi accampamenti, di fortuna, in mezzo al fango, sotto la neve: bambini che soffrono, qualcuno che è morto di fame, chi per il freddo… Dobbiamo fare qualcosa veramente per venire incontro a questa povera gente.

D. – La conseguenza tra l’altro più ovvia di questa povertà estrema in cui si trovano a vivere milioni di profughi e rifugiati siriani è che le famiglie optano per scelte drastiche: cioè, i bambini abbandonano la scuola, le donne sono a rischio  sfruttamento anche sessuale… Quindi per questo è importante che la Comunità internazionale intervenga...

R. - ... Certo, oltre a questo sappiamo anche della piaga di matrimoni "forzati" in tenera età, 13, 14, 15 anni… E poi pensiamo anche al rischio dell’arruolamento di bambini, di bambini soldato e tante altre conseguenze. Quindi bisogna soprattutto che la Comunità internazionale aumenti gli sforzi economici per venire incontro a questa gente, a questi rifugiati e, direi, anche senza dimenticare che oltre a questi tre milioni, tre milioni e mezzo di rifugiati nei Paesi confinanti con la Siria, ci sono circa 7 milioni di profughi sfollati interni alla Siria, che vivono lo stesso in condizioni difficili, anche loro soffrono il freddo,  alle volte sono alle prese con gli alloggi, trovare gli alloggi, riscaldarsi, il combustibile, costa, le malattie… Senza dimenticare che, sempre secondo le statistiche delle Nazioni Unite, in Siria, 12 milioni di civili circa hanno bisogno di assistenza umanitaria a vari livelli.

D. - Gli attacchi terroristici di Parigi hanno messo il conflitto siriano un po’ nel cono d’ombra. Sembra sempre che ci sia una crisi più importante della Siria che invece è martoriata da questo conflitto, da quasi 5 anni…

R. - E' Grave dimenticare questo conflitto, è grave! E quello che si è visto in questi ultimi giorni nei tragici eventi di Parigi fa pensare che tra le principali soluzioni del fenomeno del terrorismo c’è quella anche di andare alle radici, di tagliare un po’ l’erba sotto i piedi a questo fenomeno. Perciò finché dura questo conflitto siriano, purtroppo, ci sarà dall’altra parte la continuazione di questo terribile fenomeno del terrorismo: una cosa richiama l’altra.

D. – Noi apprendiamo tutti i giorni notizie di attentati anche compiuti spesso dai miliziani dello Stato islamico. Com’è la situazione sul terreno?

D. – Gli attacchi ci sono sempre. C’è la parte ad est della Siria, dall’Eufrate verso il confine con l’Iraq, che è una zona sotto il cosiddetto Califfato o Stato islamico. Non è che si possono avere molte notizie e purtroppo quello che trapela sono notizie e immagini agghiaccianti.

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Comunità S.Egidio: “Siamo tutti nigeriani” contro terrorismo

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“Siamo tutti nigeriani”, il motto della manifestazione promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, a sostegno della Nigeria travolta dalla violenza del movimento islamista Boko Haram, che avrebbe ucciso oltre 2 mila persone in pochi giorni, utilizzando anche bambine kamikaze. Appuntamento stasera alle 19 nella Basilica di Santa Maria in Trastevere per una preghiera comunitaria, presieduta da mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontifico Consiglio della Famiglia. Roberta Gisotti ha intervistato Mauro Garofalo, responsabile esteri della Comunità di Sant’Egidio: 

D. – Perché “Siamo tutti nigeriani”? Credo che a molti sfugga la situazione di questo Paese africano…

R. – “Siamo tutti nigeriani” per non dimenticare che, oltre alle violenze che sono purtroppo accadute a Parigi e oltre al sentimento diffuso di solidarietà con la Francia, ci deve essere anche questo sentimento per la Nigeria, visti i terribili avvenimenti dei giorni scorsi.

D. – Che cosa si chiederà alla comunità che interverrà in questo incontro?

R. – E’ un momento di preghiera, quindi il primo scopo è quello di pregare e di non dimenticare le centinaia e centinaia di persone che sono state uccise dalla violenza terroristica nel nord-est del Paese. Ed è bello dire che ci sarà la partecipazione della numerosa comunità nigeriana di Roma e del Movimento Genti di pace della Comunità di Sant’Egidio. Chiediamo di non dimenticare innanzitutto e di considerare che questa minaccia terroristica è una minaccia globale e molti Paesi ne soffrono.

D. – Dobbiamo dire che qualcuno ha unito il problema del terrorismo all’immigrazione: questo è molto grave!

R. – E’ grave ed è pericoloso! Io credo che ci sia bisogno di parlare, proprio in questo momento, con più forza del problema dell’integrazione, perché abbiamo visto a Parigi come questa violenza venga da cittadini francesi, immigrati di seconda e di terza generazione. E’ un problema che l’Europa ha affrontato in maniera diversa Paese per Paese, ma è un problema irrisolto. Di fronte a questa violenza, di fronte alla permeabilità di certi ambienti alla narrativa terrorista, noi oggi dobbiamo rafforzare certamente i valori di libertà, certamente il valore della solidarietà europea, ma anche il valore dell’integrazione.

D. – Non crede, dottor Garofalo, che anche la comunità islamica nel mondo debba fare una riflessione?

R. – Una riflessione certamente è necessaria e urgente, e credo di poter dire che una riflessione è già cominciata: abbiamo visto dei segni di questo. C’è bisogno di un maggior impegno, c’è bisogno di una maggiore coscienza delle comunità islamiche in generale e di quelle presenti in Europa. Ma io credo che noi abbiamo sempre avuto una difficoltà a comprendere l’articolazione del mondo musulmano. Io penso, per esempio, al recente Convegno di al-Azhar – che è la più grande autorità musulmana ed è in Egitto – che è stata molto fermo nel condannare questi atti di violenza in nome di Allah, che tradiscono la vera religione islamica. Ma poi penso anche all’appello del Papa durante questo suo viaggio in Sri Lanka e nelle Filippine, che invita le religioni a condannare senza equivoci questi atti. Credo che questo sia un cammino da fare insieme.

D.- Sovente si dimentica che gli islamici sono, a volte, le prime vittime del terrorismo islamico…

R. – Questo è vero ed è un dato statisticamente provato: la grande vittima, in termini numerici, della violenza terrorista sono gli stessi islamici. E’ un conflitto che mette in crisi il modello di islam tradizionale e moderato. C’è una narrativa che fa forza sulla tradizione islamica. Purtroppo è vero e bisogna anche dire che è arrivato alle nostre porte e dentro le nostre case. Quindi è un problema da affrontare in maniera molto seria, ma anche rispettandone la complessità.

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Arabia Saudita: blogger condannato a 10 anni e 1000 frustate

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Sit-in, oggi, di fronte all'Ambasciata dell'Arabia Saudita a Roma per chiedere l'annullamento della condanna a 10 anni di carcere e a 1000 frustate inflitta a Raif Badawi, il blogger dissidente giudicato colpevole di aver offeso l'Islam sul suo forum online "Liberali dell'Arabia saudita". A organizzare l'appuntamento è  stata Amnesty International Italia, con il supporto della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e l'associazione per la libertà di stampa Articolo 21. È previsto che le 1000 frustate siano eseguite con scadenza settimanale, 50 per volta. Le autorità saudite hanno reso noto che la seconda serie, dopo quella di venerdì scorso, avverrà domani16 gennaio, in una pubblica piazza di Gedda. Fausta Speranza ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia: 

R. – Il governo di Riad da un lato difende la libertà di espressione dei giornalisti di Charlie Hebdo massacrati a Parigi ma, dall’altro, condanna a mille frustrate un blogger dissidente che non ha fatto altro che esercitare il suo diritto alla libertà di espressione. Lo fa con una gogna, abbiamo visto la prima serie di frustrate inflitte venerdì scorso e la seconda rischia di essere inflitta tra poche ore.

D. – Qual è la colpa di questo giovane, che cosa ha detto in sostanza?

R. – Ha fatto qualcosa che è assolutamente legittimo: ha organizzato online un sito, un forum, per una discussione su vari aspetti, compresa ovviamente la religione. Ha criticato lo zelo con cui la polizia religiosa persegue comportamenti non conformi, non consentiti; ha detto che le religioni sono uguali e che è possibile, anche in un Paese governato dalla legge islamica, professare altre fedi. Non ha fatto nient’altro che esercitare un diritto fondamentale, esprimendo le sue idee online, creando un dibattito nel Paese. Questo ha dato fastidio alle autorità.

D. – Che cosa sappiamo dell’eco tra la gente in Arabia Saudita?

R. – Molto poco! L’unica eco che abbiamo constato, dalle testimonianze oculari, sono le grida “Dio è grande” quando è terminata l’esecuzione delle 50 frustrate. Ricordo che avvengono in piazza, in luogo pubblico, alla fine della preghiera del venerdì, di fronte alla moschea della città di Gedda. E’ come se con quel castigo, quella gogna, le persone intorno abbiano creduto che quell’uomo fosse stato, in qualche modo, purificato.

D. – Sullo sfondo c’è una situazione più ampia di difficoltà in tema di diritti umani in Arabia Saudita…

R. – Non c’è dubbio. Pensiamo che l’avvocato di Raif Badawi si è visto inasprire la condanna da 10 a 15 anni in appello all’inizio di questa settimana, pensiamo che ci sono leggi antiterrorismo assolutamente vaghe e formulate in modo da impedire anche l’espressione del dissenso pacifico e poi pensiamo che ci sono avvocati, attivisti per i diritti umani e organi di monitoraggio indipendente, che sono falcidiati da arresti e condanne su base mensile…

D. – Che cosa dire del possibile intervento della Comunità internazionale?

R. – Ci sono state delle proteste abbastanza blande, devo dire. I governi che hanno rapporti politici, economici e anche militari con l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti in particolare, hanno espresso una condanna, però evidentemente non è bastata. Bisogna fare molto di più! Il rischio è duplice: da un lato, che la pressione dei governi non fermi questa ignobile pratica delle frustrate, dall’altra che magari ci riesca ma che ci si fermi lì e che il caso di Raif Badawi finisca nell’oblio. Speriamo che al più presto siano terminate le frustrate, ma comunque scatterà la condanna a dieci anni di carcere.

D. – Ma non ci sarebbero sedi internazionali in cui discutere casi come questi, o comunque le problematiche che ci sono dietro?

R. – Sarebbe certamente possibile se i diritti umani fossero un argomento di costante attenzione e non un tema da usare quando fa comodo, e quindi da usare contro il nemico di turno o da dimenticare invece quando si tratta degli amici di turno. Purtroppo così non è! Il paradosso è che al centro di questa situazione c’è un Paese che con l’Occidente ha rapporti molto importanti.

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Catalogna, elezioni anticipate: si punta a indipendenza

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Elezioni anticipate, il 27 settembre in Catalogna. Ad annunciarle Artur Mas, presidente della regione autonoma spagnola e leader del partito “Convergencia y Union”, dopo una riunione fiume con il leader del partito di opposizione “Esquerra Republicana”. Sul perché di queste elezioni anticipate, Elvira Ragosta ha intervistato il prof. Claudio Venza, docente di Storia della Spagna Contemporanea all’Università di Trieste: 

R. – Ritengo che lo scopo sia di dare legittimità alle scelte politiche che sono state realizzate e che vanno ovviamente nella direzione di una maggiore autonomia, fino a giungere all’indipendenza.

D. – Cosa potrebbe cambiare nel governo della regione autonoma della Catalogna dopo queste elezioni?

R. – Ecco, questo è un po’ difficile da stabilire con una certa esattezza. L’orientamento dell’opinione pubblica, da quanto si può capire, è un orientamento, più o meno radicalmente prevalente, nel senso dell’indipendenza o quasi. Potrebbe essere che la Erc – la Esquerra Repubblicana de Catalunya – che adesso rappresenta la sinistra di questa sorta di governo di centrosinistra, in cui il centro è rappresentato dal presidente Mas, abbia una ricollocazione nel bilanciamento dei diversi pesi di queste due forze politiche. Però ci sono sempre delle incognite, e l’incognita può essere rappresentata da questa appendice catalana del movimento che nei sondaggi appare come primo: il Movimento di Podemos, che è un movimento popolare di sinistra abbastanza radicale.

D. – Dal punto di vista economico, la Spagna è un Paese già in crisi in un’Europa economicamente in crisi. Un eventuale futuro indipendente della Catalogna avrebbe effetti economici forti su tutta la Spagna?

R. – Delle conseguenze evidentemente le avrebbe: basti pensare alla possibilità di innalzare dei dazi, che è una caratteristica degli Stati, ieri e anche oggi, e quindi di dirigere l’economia, per esempio di praticare un’economia di tipo più autarchico, più autosufficiente e questo significherebbe, per esempio, indebolire gli arrivi di prodotti agricoli dal Sud della Spagna, che si fonda molto su questo tipo di economia. Perciò, conseguenze considerevoli possono esserci, secondo me; anche se non penso che si possa parlare di una situazione catastrofica. Certo che questo contesto di crisi ha portato anche ad una serie di misure di pressione molto forti sui ceti popolari: hanno ridotto le spese per la sanità, per le pensioni, hanno addirittura tagliato gli stipendi degli impiegati pubblici … insomma, hanno peggiorato le condizioni di vita e di lavoro di buona parte della popolazione. E questo - è un dato interessante – è avvenuto sia a livello spagnolo complessivo, sia anche a livello catalano: cioè, il governo di Mas che ha detto che vorrebbe essere indipendente da Madrid perché Madrid pesa negativamente dal punto di vista economico sulla situazione di Barcellona e di tutta la regione, però ha praticato lo stesso tipo di misure che si potrebbe definire semplicemente “antipopolari”.

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Unioni gay. Giuristi per la Vita: non tradire Costituzione

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Prosegue in Commissione Giustizia del Senato  la serie di audizioni informali sul disegno di legge Cirinnà riguardante il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Nel suo intervento, il presidente dei Giuristi per la Vita, l'avvocato Gianfranco Amato, ha evidenziato che qualunque seria discussione sulla delicata materia non può prescindere dall’articolo 29 della Costituzione. Emanuela Campanile lo ha intervistato: 

R. – L’articolo 29 della Costituzione dice: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. L’articolo 29 ci dice che la famiglia è un dato pre-politico e pre-giuridico, cioè viene prima dello Stato; è un dato di natura di cui, appunto, bisogna semplicemente prendere atto, che non si può manipolare. Quindi: siccome il disegno di legge in discussione  introduce una nuova forma di famiglia, composta da due persone dello stesso sesso, noi non possiamo non modificare l’articolo 29. Tra l’altro, la famiglia entra a far parte dei documenti giuridici nazionali e internazionali solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché l’esperienza aveva dimostrato come durante quella devastante tragedia l’unica cosa che aveva retto il tessuto sociale era stata la famiglia.

D. – Lei pensa che il suo intervento potrà frenare, comunque, una fretta palpabile della discussione in Parlamento sulla materia?

R. – Questa è la speranza. Io confido nella saggezza dei senatori, perché – guardate – quello che non si può fare è introdurre modifiche in maniera surrettizia e fraudolenta. Questo intervento normativo è una frode: spaccia per unione civile quello che è a tutti gli effetti un matrimonio. E’ bene che, se cambiamo il concetto di famiglia, se introduciamo per legge nuove forme di famiglia, allora lo si deve fare in maniera trasparente. Anche perché  - e questo è un altro degli aspetti che io ho sollevato e che mi preoccupa molto, perché è una deriva che avverto da diverso tempo -  io ho fatto presente che il 10 ottobre dell’anno scorso ho partecipato come relatore, a Roma, a un convegno organizzato dall’Ordine degli Avvocati, che aveva come titolo: “Matrimoni, adozioni tra tutela dell’infanzia e parità dei diritti civili”, in cui – appunto – c’erano due posizioni contrapposte e io rappresentavo la mia, e sono rimasto molto inquietato da un ragionamento che è emerso. Si diceva: “Sì, è vero, effettivamente bisogna prendere atto che la nostra società non è ancora matura per accogliere alcuni concetti come l’adozione di minori per le coppie omosessuali o la fecondazione artificiale per le coppie omosessuali, eccetera. E questo è il motivo per cui bisogna introdurre nuove leggi in modo che attraverso la forza pedagogica della legge la società evolva e maturi”. Bè,  io ho detto: “Scusate, ma c’è qualcosa che non quadra, in questo ragionamento. A me è sempre stato insegnato che la legge è uno strumento per regolare i rapporti tra gli individui! Cioè, è la legge che si adegua al naturale sviluppo della società, non il contrario. Non è la società che deve adeguarsi a una legge magari imposta dall’esterno o dall’Europa: non è così!”.

D. – Secondo lei, cosa bisogna fare?

R. – Bisogna denunciarlo senza mezzi termini: l’utilizzo della funzione legislativa in modo ideologico, cioè come mezzo per imporre un modello culturale alla maggioranza, è una forma della dittatura del pensiero unico che è in atto.

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Vescovi italiani: religione a scuola per leggere la realtà

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“L’educazione non può essere neutra: o arricchisce o impoverisce”. Partendo da questa dichiarazione di Papa Francesco, la presidenza della Conferenza Episcopale Italiana in un messaggio invita i genitori che devono iscrivere i propri figli al primo anno di ciclo di studi a scegliere di avvalersi, per il prossimo anno scolastico, dell’insegnamento della religione cattolica. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Questa scelta – scrivono i vescovi italiani – non è “una dichiarazione di appartenenza religiosa”, ma solo la richiesta di “voler essere istruiti anche sui contenuti della religione cattolica”. Don Daniele Saottini, responsabile del Servizio nazionale della Cei per l’insegnamento della religione cattolica:

“L’insegnamento della religione cattolica si propone come una scelta scolastica, culturale, con una sua dignità di insegnamento e quindi non pretende di condizionare la scelta di ciascuno degli studenti, ma nello stesso tempo si presenta come una proposta molto chiara di una chiave di lettura seria, fondamentale, autentica e completa di quella realtà complessa che noi oggi viviamo”.

La missione di ogni percorso formativo, ha spiegato Papa Francesco incontrando lo scorso 10 maggio il mondo della scuola italiana, è di sviluppare il senso del vero, del bene e del bello…

“Il Papa, continuando proprio quel discorso, ricorda come l’educazione non può essere neutra. L’insegnamento della religione si presenta anche con una dichiarazione molto chiara: la persona, la dignità della persona, il valore di ciascuna persona, soprattutto il più debole, il più fragile, devono essere visti e valorizzati. Devono essere valorizzati anche attraverso una formazione culturale, una conoscenza storica completa degli aspetti positivi e anche delle fragilità delle varie religioni, e una presentazione completa della proposta autentica della cultura italiana che, chiaramente, ha radici e fondamenti più che espliciti legati anche alla Chiesa cattolica”.

In una società dove sempre più spesso si cerca di far prevalere presunti diritti soggettivi, il rischio è che su temi cruciali gli insegnanti di religione vengano osteggiati ed emarginati. Ancora don Daniele Saottini:

“Il rischio c’è. Io però vorrei mettere in evidenza la preparazione culturale degli insegnanti di religione che sempre di più permette all’insegnante di religione di porsi assolutamente come interlocutore qualificato, non soltanto rispetto agli studenti ma anche rispetto ai propri colleghi e al consiglio di classe. E’ una figura significativa tra gli educatori e i docenti di ciascuna classe, di ciascuna scuola. La stragrande maggioranza, quasi il 90 per cento degli studenti italiani sceglie ancora l’insegnamento della religione, si avvale di questa disciplina e testimonia anche questo lavoro preziosissimo e anche efficace degli insegnanti di religione”.

Gli insegnanti di religione – sottolineano infine i vescovi – sono “persone professionalmente molto qualificate, ma anche testimoni credibili, capaci di cogliere gli interrogativi più sinceri di ogni persona”.

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Presentato a Roma il libro "Medio Oriente senza cristiani?"

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L'importanza del ruolo dei cristiani oggi in Medio Oriente, alla luce dell’attuale tragica situazione in quei Paesi tormentati da conflitti e dall’avanzata del sedicente Stato islamico. E’ il filo conduttore del libro “Medio Oriente senza cristiani? Dalla fine dell’impero ottomano ai nuovi fondamentalismi” scritto da Riccardo Cristiano e presentato a Roma presso il Centro Astalli. Il servizio di Marina Tomarro: 

E’ possibile pensare realmente ad un Medio Oriente senza cristiani? E’ questo l’interrogativo che attraversa tutto il libro “Medio Oriente senza cristiani? Dalla fine dell’Impero Ottomano ai nuovi fondamentalismi”. Ascoltiamo l’autore del testo, Riccardo Cristiano:

R. – Il Medio Oriente senza cristiani vuol dire un Medio Oriente omologato, un Medio Oriente senza quella complessità costituiva delle società e della cultura del Medio Oriente, e in particolare voglio dire del Levante. Il Mediterraneo è il vivere insieme tra diversi, che accettano queste loro diversità come elemento costitutivo della società. Un Medio Oriente senza cristiani vuol dire un Medio Oriente che è uscito dalla dimensione cosmopolita della sua storia. E per evitarlo dobbiamo andare incontro a quella parte illuminata della società mediorientale, che riconosce i fondamenti di questa scelta e che non può che essere incompatibile con i totalitarismi.

D. – Quasi quotidianamente ci arrivano notizie dal Medio Oriente di violenze contro i cristiani…

R. – I cristiani sono il simbolo della complessità di quelle società. Questo è il motivo per cui vengono attaccati e questo è il motivo per cui vengono difesi. Credo che quello che serva sia la capacità di raccontare nei nostri Paesi, ai noi stessi, tutte le vittime che ci sono. I sistemi totalitari hanno cercato di deturpare il volto del Levante. Le società cosmopolite vanno rappresentate, io credo, nella loro necessità di sopravvivere plurime.

D. - Ma come viene vissuta la convivenza interreligiosa nella vita quotidiana? La testimonianza di Lorenzo Trombetta, corrispondente dell’Ansa da Beirut...

R. – Beirut è sì un luogo di incontro tradizionale tra comunità diverse, in cui questa diversità a volte sembra diluirsi a certi livelli sociali. A un livello sociale medio-basso, queste diversità vengono invece sottolineate. I livelli di lettura dei rapporti comunitari possono essere visti dal punto di vista confessionale, dal punto di vista economico-sociale, dove quando si sta bene. Quando si vive nello stesso palazzo in un quartiere bene di Beirut, il fatto che il mio vicino musulmano sia alawita o sciita conta molto, molto, poco. Quindi, anche l’aspetto socio-economico è preponderante nel determinare una capacità di apertura o di chiusura. Nella vita quotidiana poi ci sono famiglie che sono cresciute in un ambiente aperto, e in un clima di apertura familiare è più facile, anche in quartiere-ghetto, aprirsi all’altro. Ci sono poi delle situazioni di depressione economica, culturale e sociale, dove l’essere musulmano, occupare uno spazio fisico ma essere diverso, allora lì la diversità diventa un elemento di conflitto e di violenza.

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa. Vescovi Usa e Ue: dignità umana, fondamento pace

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La dignità umana è il fondamento della pace: questo, in sintesi l’appello lanciato dai sedici vescovi dell'Holy Land Coordination, al termine della visita organizzata in questi giorni in Palestina e Israele. L’iniziativa, che si tiene ogni anno, riunisce presuli e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Europa e Nord America. “Siamo venuti per pregare e dare sostegno alla comunità cristiana, per promuovere la pace e la dignità umana in questa terra divisa – si legge nel comunicato finale dell’evento - Abbiamo visto le conseguenze tragiche del fallimento dei politici nazionali e internazionali per conseguire la pace. La dignità umana è data da Dio ed è assoluta. Il conflitto in corso minaccia la dignità dei palestinesi e degli israeliani, ma in modo particolare il nostro impegno per i poveri ci chiama a sostenere le persone sofferenti di Gaza”.

Non dimenticare la comunità cristiana
Ribadendo, poi, che “la piccola comunità cristiana non è stata dimenticata”, il Coordinamento dei vescovi lancia l’allarme per le “decine di migliaia di famiglie di Gaza che non hanno un alloggio adeguato”, tanto che  “in questo ultimo periodo di freddo gelido, almeno due bambini sono morti per ipotermia”. “Il blocco continuo – prosegue la nota - impedisce drammaticamente la ricostruzione e contribuisce alla disperazione che mina la legittima speranza degli israeliani per la sicurezza. Ma crea, anche, livelli intollerabili di disoccupazione e spinge la gente comune verso la povertà più estrema”.

Mantenere viva la speranza
Tuttavia, “nonostante la devastazione, le terrificanti scene di distruzione e le paure di un'altra guerra”, i vescovi sottolineano che “la speranza è viva in Gaza” ed è testimoniata dalle famiglie che ricostruiscono “con caparbietà le proprie vite”, da “una piccola comunità cristiana con un’enorme fede” e dalla “tenacia di molti volontari”. Di qui, l’appello affinché i leader politici difendano “la dignità umana della popolazione di Gaza”, perché “le persone di buona volontà di entrambe le parti in conflitto vogliono la stessa cosa: una vita degna della persona umana”.

No al muro nella Valle del Cremisan
Poi, il Coordinamento dei vescovi sottolinea la sua opposizione “alla costruzione del muro previsto nella valle di Cremisan”, che  “comporterebbe la perdita delle terre e dei mezzi di sussistenza di molte famiglie cristiane”. Allo stesso tempo, i presuli si dicono contrari alla “espansione del programma d’insediamento, illegale secondo il diritto internazionale”, poiché “il suo impatto sulla libertà di movimento dei palestinesi e sulla confisca delle terre è semplicemente ingiusto”.

La pace esige rispetto diritti umani
L’esortazione rivolta, dunque, ai “funzionari pubblici” è quella di  “costruire ponti, non muri”, “favorendo una maggiore interazione tra israeliani e palestinesi”, perché “la pace si realizzerà solo quando tutte le parti rispetteranno il fatto che la Terra Santa è sacra per tre religioni e casa di due popoli”, così come sottolineato da Papa Francesco nell’udienza, il 12 gennaio, al Corpo Diplomatico. “La via della pace esige il rispetto dei diritti umani di israeliani e palestinesi – conclude la nota -  La nostra preghiera alimenta la speranza che rende possibile la pace. Facciamo appello a tutti i cristiani a pregare per gli ebrei, i cristiani e i musulmani di questa Terra che chiamiamo Santa”. (I.P.)

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Consiglio Ecumenico Chiese: sgomento per attacchi in Nigeria

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Sgomento e preoccupazione: è quanto esprime il Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc) per gli attacchi del gruppo estremista Boko Haram in Nigeria che - secondo stime locali - hanno provocato la morte di oltre 2mila persone. E profonda indignazione viene ribadita davanti all’uso di bambini come bombe umane: atti che “non possono essere giustificati in alcun modo da convincimenti religiosi”, afferma il Wcc, che chiede poi al Governo nigeriano di rispondere efficacemente a questi feroci attacchi e di garantire la protezione di tutte le persone.

Delusione per scarsa attenzione mediatica alle vittime
Il Consiglio ecumenico delle Chiese, inoltre, si unisce alla solidarietà internazionale con il popolo francese per le stragi di Parigi, ma allo stesso tempo si dice “profondamente addolorati che i tragici eventi in Nigeria non abbiano attirato altrettanta preoccupazione e solidarietà da parte della comunità internazionale.

Aberrante usare i bambini come bombe umane
“La nuova strategia dei terroristi di Boko Haram di usare bambine innocenti come bombe umane è aberrante e inimmaginabile”, gli fa eco l’arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana, mons. Ignatius Ayau Kaigama, che ricorda quindi “il triste fenomeno dei bambini soldato in diverse zone dell’Africa, che sono indottrinati con terrificanti metodologie di plagio al fine di diventare macchine per uccidere”. Allo stesso tempo, l’arcivescovo esprime soddisfazione per il fatto che alcuni leader religiosi della comunità musulmana stiano prendendo le distanze da Boko Haram, condannando le loro azioni. Tuttavia, afferma, “è necessario fare di più” e per questo auspica “una grande manifestazione di unità nazionale, per dire no alla violenza e superare le divisioni politiche, etniche e religiose, come quella svoltasi a Parigi”.

Comunità Sant’Egidio organizza preghiera per vittime
Intanto, questa sera alle 19.00, a Roma, nella Basilica di Santa Maria in Trastevere, la Comunità di Sant’Egidio organizza un momento di preghiera in memoria delle vittime della violenza e del terrorismo in Nigeria. A presiedere l’evento sarà mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia. “La preghiera di oggi – si legge in una nota - vedrà la partecipazione della comunità nigeriana in Italia e del movimento Genti di Pace, che promuove l’integrazione nel nostro Paese e in Europa”. Duplice l’obiettivo dell’iniziativa: “Ricordare che non si può mai uccidere in nome di Dio” e  “rilanciare una mobilitazione a tutti i livelli perché si faccia il possibile per arrestare una tragedia che non sembra avere senza fine”. (I.P.)

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“Ascoltare la città”, iniziativa del Patriarcato di Lisbona

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“Ascoltare la città”: si intitola così l’iniziativa al via oggi a Lisbona, in Portogallo, e promossa da ventisette comunità, movimenti, organizzazioni e gruppi cattolici portoghesi coinvolti nel Sinodo diocesano, guidato dal Patriarca della città, il cardinale nominato Manuel José Macário do Nascimento Clemente. L’iniziativa si concluderà nel novembre 2016, in occasione del trecentesimo anniversario della bolla pontificia “In supremo apostolatus solio”, con la quale Clemente xi, il 7 novembre 1716, elevò l’arcidiocesi di Lisbona al rango di Patriarcato.

Ascoltare per trovare risposte alle sfide contemporanee
L’obiettivo dell’iniziativa, spiegano gli organizzatori dell’iniziativa, è quello di dare voce alla società affinché possa “esprimere le proprie inquietudini e dire cosa si aspetta dalle comunità di credenti che vivono nella diocesi”. Tocca, dunque, ai cattolici “ascoltare, accogliere e meditare su ciò che viene espresso”, affinché “siano in grado di affrontare le sfide che si presentano, di formulare risposte, di andare verso l’altro”. “Ascoltare – sottolineano ancora i promotori dell’evento - è il luogo dell’incontro con il mistero di Dio”.

Andare nelle periferie esistenziali e geografiche
Il richiamo è anche ad essere “Chiesa in uscita”, come spesso chiede Papa Francesco, andando nelle periferie geografiche ed esistenziali, perché “ascoltare voci diverse, le domande degli altri e comprendere l’importanza di ciò per cui si stanno battendo, aiuta l’identità” degli stessi cristiani. “Ascoltare la città” proseguirà fino a giugno e vedrà incontri a cadenza mensile, ciascuno dedicato a temi diversi: identità, comportamenti e stili di vita; politica, partecipazione e democrazia; dinamiche sociali nel territorio della diocesi; povertà, occupazione e crisi finanziaria; scienza, arte e conoscenza; lingue, spiritualità, sessualità e convinzioni. Il tutto, conclude il Patriarca Clemente, con l’auspicio di  “dare impulso al sogno missionario di raggiungere tutti”. (I.P.)

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Messaggio dei vescovi australiani per Anno vita consacrata

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“Siamo chiamati a portare a tutti l’abbraccio ed il sorriso di Dio”: scrive così mons. Denis Hart, presidente della Conferenza episcopale australiana, in un messaggio diffuso in occasione dell’Anno della vita consacrata. Indetto da Papa Francesco per celebrare il 50.mo anniversario della promulgazione del decreto conciliare "Perfectae caritatis" sul rinnovamento della vita religiosa, l’evento proseguirà fino al 2 febbraio 2016. “Come possiamo riconoscere nelle nostre parrocchie e comunità – chiede innanzitutto mons. Hart – il dono della vita consacrata?”. L’auspicio è che “il contributo vitale dei religiosi sia reso noto attraverso il loro seguire Cristo in modo profetico, capace di svegliare il mondo”. “Spero – aggiunge il presule – che i religiosi ci mostrino la gioia che deriva dalla certezza di sapere che siamo amati”.

Importanza della preghiera
Di qui, l’appello del presidente della Conferenza episcopale australiana a dedicare tempo alla preghiera, “a stare insieme al Maestro, ad ascoltare e ad imparare da Lui, coltivando la dimensione contemplativa anche in mezzo al turbinio di doveri più urgenti e gravosi”. La gente, osserva poi mons. Hart, oggi ha certamente “bisogno di parole, ma più di tutto ha bisogno della testimonianza della misericordia e della tenerezza di Dio che scalda i cuori, riaccende la speranza ed attira le persone verso il bene”. E non solo: “Gli uomini e le donne del nostro tempo – continua il presule – stanno aspettando una parola di consolazione, la disponibilità al perdono, la vera gioia”. Per questo, “tutti noi siamo chiamati a portare agli altri l’abbraccio ed il sorriso di Dio”.

Il mondo ha bisogno di speranza
Testimoni “della comunione al di là dei nostri limiti”, dunque, e illustrando “la novità della vicinanza di Dio che risveglia il mondo”, i consacrati saranno sempre, instancabilmente, alla ricerca del bene degli altri. Di qui, l’appello conclusivo di mons. Hart a portare “la gioia e la speranza della vita consacrata in un mondo che ne ha disperatamente bisogno”. (I.P.)

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Settimana delle Scuole cattoliche irlandesi

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“Scuole cattoliche: chiamate a servire”. Sarà questo il tema della Settimana delle Scuole cattoliche, in programma in Irlanda dal 25 gennaio al primo febbraio. Indetta ogni anno dalla Conferenza episcopale locale, l’iniziativa è giunta alla sesta edizione. “La chiamata a servire deriva da Cristo stesso – si legge sul sito web dei vescovi di Dublino – Gesù è chiamato ‘Maestro’ quarantasei volte nei Vangeli e questo è l’appellativo più comune che gli rivolgono i suoi primi seguaci”. “Ma cosa insegna Gesù? - sottolineano i presuli irlandesi – Insegna che il Regno di Dio è Regno di salvezza” per tutti, siano essi malati, poveri o prigionieri.

Scuole cattoliche aprono alla trascendenza
“Tutti i cristiani sono chiamati a servire i loro fratelli e sorelle – si legge ancora nel sito web – E ciò significa aiutarli ad alzarsi ed a camminare con le loro gambe, senza aver paura dell’ignoto ed aprendo la loro mente attraverso l’educazione”, “i loro occhi alla realtà della vita, sfidandoli ad andare oltre il male ed i pregiudizi, liberando coloro che sono ingiustamente oppressi”. “Aprire orizzonti sempre più grandi di trascendenza e di bellezza”, quindi, è il compito primario delle scuole cattoliche, affinché ”proseguano il ministero salvifico di Gesù”.

Dare nuovo slancio alla missionarietà
Ma la Chiesa di Dublino sottolinea anche che il tema “Chiamate a servire” implica un esame di coscienza delle scuole e dell’educazione cattolica in generale, invitate a “riflettere su cosa è il servizio, a chi è destinato”, così da “dare nuovo slancio all’aspetto missionario”. “Servire, infatti – continuano i presuli irlandesi – è una chiamata ad agire ed è un elemento integrale della missione evangelica di Gesù”. L’educazione, allora, diventa “una piattaforma dalla quale tutti – genitori, insegnanti e studenti – sono chiamati a servire”. In particolare, conclude la nota, “le scuole cattoliche pongono al centro della loro etica l’identificazione con la missione di Cristo, il quale, appunto, chiama sempre al servizio”. (I.P.)

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Senegal. Pellegrinaggio dei malati al Santuario di Popenguine

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“Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo” (Gb 29,15): riprende il tema del Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del malato 2015 il pellegrinaggio indetto dall’arcidiocesi di Dakar, in Senegal, per il prossimo 15 febbraio. Riservato alle persone anziane, malate e portatrici di handicap, l’evento si terrà presso il Santuario mariano di Popenguine e sarà guidato da mons. André Gueye, vescovo di Thiès. In preparazione all’evento, giunto alla 35.ma edizione, dal 7 al 14 febbraio si terrà una novena di preghiera.

Popenguine, simbolo di dialogo
La scelta di Popenguine non è certo casuale: il Santuario mariano che qui si trova è infatti ogni anno, in estate, meta di un pellegrinaggio antichissimo, istituito nel 1888, su iniziativa di mons. Mathurin Picarda, all’epoca vicario apostolico di Senegambia. In origine, l’iniziativa mirava ad essere un segno di omaggio a Notre Dame de la Délivrance, particolarmente venerata a Caen, in Francia, diocesi natia di mons. Picarda. Ma oggi, l’evento rappresenta anche un importante momento di dialogo interreligioso, poiché ad esso partecipano anche molti musulmani.

Tempo dedicato ai malati, tempo santo
Da ricordare, infine, che nel suo Messaggio per la Giornata mondiale del malato, il Papa ribadisce che “il tempo passato accanto al malato è un tempo santo” perché “è lode a Dio, che ci conforma all’immagine di suo Figlio, il quale “non è venuto per farsi servire, ma per servire”. “Quale grande menzogna invece – esclama il Pontefice - si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla ‘qualità della vita’, per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere vissute!”. “Anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede – si legge ancora nel Messaggio - possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 15

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.