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Sommario del 25/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: no a cristiani vanitosi, sono come una bolla di sapone

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Guardiamoci dalla vanità che ci allontana dalla verità e ci fa sembrare una bolla di sapone. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice, prendendo spunto dal passo del Libro di Qoelet nella Prima Lettura, ha sottolineato che, anche quando fanno del bene, i cristiani devono rifuggire la tentazione di apparire, di “farsi vedere”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Se tu “non hai qualcosa di consistente, anche tu passerai come tutte le cose”. Papa Francesco ha preso spunto dal Libro del Qoelet per soffermarsi sulla vanità. Una tentazione, ha osservato, che non c’è solo per i pagani ma anche per i cristiani, per le “persone di fede”. Gesù, ha rammentato, “rimproverava tanto” quelli che si vantavano. Ai dottori della legge, ha soggiunto, diceva che non dovevano “passeggiare nelle piazze” con “vestiti lussuosi” come “principi”. Quando tu preghi, ammoniva il Signore, “per favore non farti vedere, non pregare perché ti vedano”, “prega di nascosto, va nella tua stanza”. Lo stesso, ha ribadito il Papa, va fatto quando si aiutano i poveri: “Non far suonare la tromba, fallo di nascosto. Il Padre lo vede, è sufficiente”:

“Ma il vanitoso: ‘Ma guarda, io do questo assegno per le opere della Chiesa’ e fa vedere l’assegno; poi truffa dall’altra parte la Chiesa. Ma fa questo il vanitoso: vive per apparire. ‘Quando tu digiuni - dice il Signore a questi – per favore non fare il malinconico lì, il triste, perché tutti se ne accorgano, che tu stai digiunando; no, digiuna con gioia; fa' penitenza con gioia, che nessuno si accorga’. E la vanità è così: è vivere per apparire, vivere per farsi vedere”.

“I cristiani che vivono così – ha proseguito - per apparire, per la vanità, sembrano pavoni, si pavoneggiano”. C’è chi dice, “io sono cristiano, io sono parente di quel prete, di quella suora, di tal vescovo, la mia famiglia è una famiglia cristiana”. Si vantano. “Ma – chiede il Papa – la tua vita col Signore? Come preghi? La tua vita nelle opere di misericordia, come va? Tu fai le visite agli ammalati? La realtà”. E per questo Gesù, ha aggiunto, “ci dice che dobbiamo costruire la nostra casa, cioè la nostra vita cristiana, sulla roccia, sulla verità”. Invece, è stato il suo monito, “i vanitosi costruiscono la casa sulla sabbia e quella casa cade, quella vita cristiana cade, scivola, perché non è capace di resistere alle tentazioni”:

“Quanti cristiani vivono per apparire. La vita loro sembra una bolla di sapone. E’ bella la bolla di sapone! Tutti i colori ha! Ma dura un secondo e poi che? Anche quando guardiamo alcuni monumenti funebri, pensiamo che è vanità, perché la verità è tornare alla terra nuda, come diceva il Servo di Dio Paolo VI. Ci aspetta la terra nuda, questa è la nostra verità finale. Nel frattempo, mi vanto o faccio qualcosa? Faccio del bene? Cerco Dio? Prego? Le cose consistenti. E la vanità è bugiarda, è fantasiosa, inganna se stessa, inganna il vanitoso, perché prima fa finta di essere, ma alla fine crede di essere quello, crede. Ci crede. Poveretto!”.

E’ questo, ha sottolineato, è quello che succedeva al Tetrarca Erode che, come narra il Vangelo odierno, si interrogava con insistenza sull’identità di Gesù. “La vanità – ha detto il Papa – semina inquietudine cattiva, toglie la pace. E’ come quelle persone che si truccano troppo e poi hanno paura che le prenda la pioggia e tutto quel trucco venga giù”. “Non ci dà pace la vanità – ha ripreso – soltanto la verità ci dà la pace”. Francesco ha dunque ribadito che l’unica roccia su cui possiamo edificare la nostra vita è Gesù. “E pensiamo – ha affermato – a questa proposta del diavolo, del demonio, anche ha tentato Gesù di vanità nel deserto” dicendogli: “Vieni con me, andiamo su al tempio, facciamo lo spettacolo; tu ti butti giù e tutti crederanno in te”. Il demonio aveva presentato a Gesù “la vanità in un vassoio”. La vanità, ha ribadito il Papa, “è una malattia spirituale molto grave”:

“I Padri egiziani del deserto dicevano che la vanità è una tentazione contro la quale dobbiamo lottare tutta la vita, perché sempre ritorna per toglierci la verità. E per far capire questo dicevano: è come la cipolla, tu la prendi e cominci a sfogliare - la cipolla – e sfogli la vanità oggi, un po’ di vanità domani e tutta la vita sfogliando la vanità per vincerla. E alla fine stai contento: ho tolto la vanità, ho sfogliato la cipolla, ma ti rimane l’odore in mano. Chiediamo al Signore la grazia di non essere vanitosi, di essere veri, con la verità della realtà e del Vangelo”.

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Il Papa all’Onu: le nazioni promuovano la pace e la dignità umana

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Papa Francesco incoraggia tutte le nazioni a promuovere la dignità di ogni persona umana. Il messaggio pontificio all’Assemblea del Palazzo di Vetro è stato letto ieri dall’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu di New York, in occasione dell'apertura della 69.ma sessione plenaria dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Nel documento, a firma del cardinale Pietro Parolin, il Pontefice auspica che le soluzioni ricercate dalla comunità internazionale “promuovano la pace tra i popoli” e si contrasti la povertà attraverso uno spirito di fraternità che condivide gioie e sofferenze. Il Papa assicura all’Assemblea dell’Onu la sua vicinanza spirituale e spera che questa sia un’occasione di “maggiore comprensione e cooperazione tra le delegazioni” degli Stati per “il bene della comunità globale e al servizio di una pace duratura e della prosperità per ogni popolo”. (A.G.)

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Card. Parolin: religioni condannino chi usa fede per giustificare violenza

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Le persone di fede hanno la grave responsabilità di condannare chi cerca di separare fede e ragione e strumentalizzare la fede come giustificazione della violenza. Così il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin intervenendo al dibattito aperto del Consiglio di Sicurezza Onu sulle “Minacce alla pace e alla sicurezza causate dal terrorismo internazionale. Il servizio di Paolo Ondarza

Il terrorismo rappresenta una minaccia fondamentale per la nostra comune umanità. Il segretario di Stato parla così di fronte ai partecipanti al dibattito del Consiglio di Sicurezza Onu. “Il continuo, e in alcune regioni, crescente uso del terrore è un richiamo a tutte le nazioni e persone di buona volontà ad assumere un impegno condiviso” . 

“Il Consiglio di sicurezza Onu – ricorda il porporato – nacque a seguito di un epoca in cui una visione nichilista della dignità umana ha cercato di dividere e distruggere il mondo”. “Oggi come allora – è l’esortazione  -  le nazioni si uniscano per adempiere alla loro responsabilità primaria di proteggere le persone minacciate da violenza e attacchi diretti alla loro dignità”.

Il card. Parolin ricorda le parole di San Giovanni Paolo II a seguito degli “eventi tragici” dell’11 settembre: il diritto di difendere i Paesi e i popoli da atti di terrorismo non giustifica a rispondere alla violenza con la violenza, ma piuttosto “deve essere esercitato nella scelta dei fini e dei mezzi nel rispetto dei limiti morali e legali”.  “Il colpevole deve essere identificato correttamente, perché la responsabilità penale è sempre personale e non può essere estesa alla nazione, all’etnia o alla religione a cui appartengono i terroristi”.

Il segretario di Stato poi esorta ad affrontare alla radice le cause che alimentano il terrorismo internazionale: “la sfida terroristica – spiega – ha una forte componente socio-culturale”. Giovani spesso provenienti da famiglie povere vanno all’estero e delusi da  quella che sentono come una mancanza di integrazione o di valori in alcune società entrano in organizzazioni terroristiche. Il porporato chiede che insieme agli strumenti giuridici e alle risorse per evitare ciò, i governi “si impegnino con la società civile per affrontare i problemi delle comunità più a rischio di radicalizzazione o reclutamento e raggiungano un’integrazione sociale soddisfacente”.

“La Santa Sede – conclude il card. Parolin - afferma che le persone di fede hanno la grave responsabilità di condannare coloro che cercano di separare la fede dalla ragione e strumentalizzare la fede come una giustificazione della violenza”. Come Papa Francesco ha ribadito durante la sua visita in Albania – ricorda il porporato – “Nessuno pensi di potersi fare scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e di sopraffazione! Nessuno usi  la religione come pretesto per azioni contro la dignità umana e contro i diritti fondamentali di ogni uomo e donna, soprattutto, il diritto alla vita e il diritto di ognuno alla libertà religiosa".

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Paraguay, avvicendamento vescovo: decisione per unità della Chiesa

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Dopo l’accurato esame delle conclusioni delle Visite apostoliche compiute al vescovo, alla Diocesi e ai Seminari di Ciudad del Este, da parte della Congregazione per i Vescovi e della Congregazione per il Clero, Papa Francesco ha provveduto all’avvicendamento di mons. Rogelio Ricardo Livieres Plano e ha nominato amministratore apostolico della medesima sede, ora vacante, mons. Ricardo Jorge Valenzuela Ríos, vescovo di Villarrica del Espíritu Santo.

“La gravosa decisione della Santa Sede, ponderata da serie ragioni pastorali – riferisce in una nota la Sala Stampa vaticana - è ispirata al bene maggiore dell’unità della Chiesa di Ciudad del Este e alla comunione episcopale in Paraguay”.

Il Papa, “nell’esercizio del suo ministero di ‘perpetuo e visibile fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli’ (L.G. 23), chiede al clero e a tutto il Popolo di Dio di Ciudad del Este di voler accogliere i provvedimenti della Santa Sede con spirito di obbedienza, docilità e animo disarmato, guidato dalla fede”.

“Inoltre, invita l’intera Chiesa Paraguaiana, guidata dai suoi Pastori, ad un serio processo di riconciliazione e superamento di qualsiasi faziosità e discordia, perché non sia ferito il volto dell’unica Chiesa ‘acquistata con il Sangue del suo proprio Figlio’ e il ‘gregge di Cristo’ non sia privato della gioia del Vangelo (cf. At 20, 28)”.

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Tweet del Papa: Gesù ci perdona, se noi ci lasciamo perdonare

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“Gesù capisce le nostre debolezze, i nostri peccati; e ci perdona, se noi ci lasciamo perdonare”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 15 milioni di follower.

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Le udienze di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza: la signora Miroslava Rosas Vargas, ambasciatore di Panama presso la Santa Sede, in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali; il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano (Italia); il card. Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul (Corea); mons. Giacinto Berloco, arcivescovo tit. di Fidene, nunzio apostolico in Belgio e in Lussemburgo; mons. Claudio Gugerotti, arcivescovo tit. di Ravello, nunzio apostolico in Bielorussia. Il Papa sempre questa mattina riceve in udienza: mons. Ettore Balestrero, arcivescovo tit. di Vittoriana, nunzio apostolico in Colombia; e il signor Marcos Aguinis.

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Il Papa incontra vittime ed ex-membri di gruppi armati colombiani

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Una grande esperienza di perdono e di commozione: è stata quella vissuta ieri  - al termine dell’udienza generale – dal piccolo gruppo composto da vittime ed ex appartenenti a gruppi armati della Colombia quando hanno potuto avvicinare Papa Francesco e scambiare parole di affetto. A guidarli il direttore dell’ Agenzia colombiana per la Reintegrazione, Alejandro Éder, che si occupa proprio di agevolare il reinserimento sociale di persone che abbandonano la guerriglia. Il servizio di Debora Donnini

Non smettere mai di lavorare per la pace. E’ questo il messaggio di Papa Francesco rimasto impresso nel cuore dei colombiani che lo hanno incontrato e che hanno vissuto, come vittime o come ormai ex-appartenenti a gruppi armati, un conflitto che insanguina la Colombia da quasi mezzo secolo. Sandra Gutierrez Jaramino ha perduto alcuni parenti a causa delle Farc ed è stata lei stessa rapita dai paramilitari. Il Papa le ha assicurato che prega per la Colombia, racconta la donna che parla della sua esperienza di perdono:

R. – "Yo ya perdonè...
Io ho già perdonato. Non ho avuto bisogno che mi chiedessero perdono, perché il perdono si dà così, come un regalo. Come Dio lo ha dato a noi, anch’io lo do: Dio mi ha regalato un perdono che non ho meritato e io perdono i miei aggressori".

E il perdono ritorna nelle parole di Cristina che ha fatto parte di un gruppo armato. Parlando dell’incontro con il Papa la donna dice: “il mio obbiettivo era chiedere perdono”. Cristina, infatti, un giorno non ce l’ha fatta più della violenza ed è fuggita, ha capito che la guerra non costruisce la pace:

R. – "La guerra es muy dura...
La guerra è molto dura: vedere i morti, vedere l’uccidersi tra colombiani. Quindi, in quel momento, io mi sono detta: 'No, mi trovo nel posto sbagliato, non sto lavorando per la pace del Paese come credevo'. E ho deciso che lavorare per la pace del Paese significava andarmene e farlo senza armi”.

Anche Regis diversi anni fa ha lasciato un gruppo armato. Ha capito che non poteva continuare quella vita quando durante un bombardamento in cui hanno perso la vita diverse persone, un bambino di 12 anni gli è morto fra le braccia. Profondamente toccante anche per lui è stato quel breve momento di incontro con il Papa:

R. – "Fue algo especial, maravilloso...
E’ stato qualcosa di speciale, di meraviglioso. E’ stato qualcosa che mai avevo sognato di poter realizzare. Nella mia vita, davvero, mai avevo pensato di poter stare qui e tanto meno di vedere Papa Francesco così da vicino".

Uno spazio di riconciliazione fondamentale quello di ieri, dice Alejandro Éder, che nel suo lavoro affronta quotidianamente le difficoltà del reinserimento degli ex-appartenenti a gruppi armati.

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Card. Koch: dialogo tra cattolici e ortodossi continua nonostante difficoltà

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“La vera gioia della fede la impariamo da coloro che soffrono, dai poveri”: è quanto ha detto il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, a conclusione della plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, svoltasi ad Amman, in Giordania, dal 15 al 23 settembre. Al centro dei lavori l’esame della bozza di documento intitolato “Sinodalità e Primato”, redatta dal Comitato di Coordinamento della Commissione a Parigi nel 2012. Ma quale è stato il più importante progresso di questo incontro? Philippa Hitchen lo ha chiesto allo stesso cardinale Kurt Koch:

R.- Der allergrößte Fortschritt – glaube ich – ist, dass alle Beteiligten bereit sind …
Il progresso più importante – secondo me – è che tutti i partecipanti sono disposti e volenterosi a continuare il dialogo, anche se non è proprio facile. In questa occasione, non è stato possibile presentarci all’opinione pubblica con un documento: infatti, il documento di preparazione che era stato proposto alla discussione e stilato dal Comitato di coordinamento di Parigi, è stato rifiutato, soprattutto da parte ortodossa. Quindi abbiamo deciso di preparare un documento nuovo sui punti più importanti riguardo al tema principale che era “Sinodalità e primato nel primo millennio”; questo documento è stato considerato come non maturo. A questo punto abbiamo stabilito che l’anno prossimo si svolgerà un nuovo Comitato di coordinamento per approfondire e migliorare il testo e per indire poi una nuova assemblea plenaria, in modo da poter completare questo testo.

D. – Dove e quando lei auspica che si possa svolgere la nuova plenaria?

R. – Wie gesagt, das nächste Koordinierungskomitee soll nächstes Jahr sein, dann …
Il prossimo Comitato di coordinamento, come dicevo, si terrà l’anno prossimo; il 2016 sarà un anno difficile per gli ortodossi perché è previsto il Sinodo pan-ortodosso e le Chiese ortodosse saranno molto impegnate. Penso quindi che la prossima assemblea plenaria non potrà svolgersi prima del 2017.

D. – Lei spera che il Sinodo pan-ortodosso del 2016 abbia nel suo ordine del giorno anche la questione dei rapporti ecumenici con il mondo cattolico e che quindi questo possa contribuire a fare qualche passo avanti?

R. – Ich hoffe erstens sehr, dass diese panorthodoxe Synode stattfinden wird, …
Intanto spero fortemente che questo Sinodo pan-ortodosso si svolga: infatti, l’assemblea plenaria ci ha mostrato le tante differenze esistenti tra le stesse Chiese ortodosse. Forse, ci sono più differenze tra gli ortodossi che tra ortodossi e cattolici. E se nel corso del Sinodo pan-ortodosso le Chiese ortodosse riescono a trovare una maggiore unità tra di loro, questo sarà di grande aiuto anche per il proseguimento del nostro dialogo.

D. – Per tradizione, la Chiesa ortodossa russa ha avuto grandi difficoltà ad accettare i principi enunciati nel Documento di Ravenna sul quale si basa questa discussione. Questo rappresenta ancora un problema importante per lei, in questa discussione?

R. – Das Hauptproblem das die russisch-orthodoxe Kirche mit dem Ravenna Dokument hat …
Il problema maggiore che la Chiesa russo-ortodossa rileva nel Documento di Ravenna è il paragrafo nel quale si parla del piano universale in vista del rapporto tra sinodalità e primato: accettano un primato a livello generale, ma non in senso teologico. E questo diventa una sfida difficile per noi cattolici; dobbiamo trovare maggiori consensi. Ma onestamente posso dire che in questa assemblea, la collaborazione con la delegazione russo-ortodossa è stata buona. Il metropolita Hilarion si era anche dichiarato disposto a collaborare nel comitato di redazione per la stesura del nuovo testo: quindi, una collaborazione veramente buona. Quello che poi, naturalmente, sempre traspare da lui è la grande critica rivolta alla Chiesa greco-cattolica in Ucraina, e in questo contesto ha ribadito sempre e molto chiaramente che l’uniatismo, cioè le Chiese uniate, rappresentano una ferita nel corpo di Cristo. E qui, purtroppo, mi sento di contraddirlo e di rispondergli che la vera ferita è la divisione della Chiesa tra Est e Ovest e che l’uniatismo è una conseguenza di questa ferita, e che se vogliamo risolvere il problema dell’uniatismo dobbiamo trovare l’unità: solo così possiamo risolvere questo problema.

D. – Il vostro incontro si è svolto ad Amman, in Giordania, dove si trovano centinaia di migliaia di rifugiati cattolici ed ortodossi, fuggiti dai conflitti in Iraq e in Siria. Questa testimonianza comune, questa persecuzione comune, questo ecumenismo del martirio – come a volte è chiamato – potrà fare la differenza nell’aiutare le Chiese a trovare una visione comune?

R. – Ich war zunächst sehr besorgt, dass wir in diese Region gehen, für unseren Dialog …
All’inizio ero un po’ preoccupato perché saremmo andati proprio in questa regione a svolgere il nostro dialogo: speravo che saremmo stati capaci di dare un segno migliore dell’unità tra ortodossi e cattolici proprio in questa difficile situazione. Poi, però, mi sono anche commosso per l’incontro con il principe di Giordania che ha voluto appositamente fare visita all’assemblea plenaria per il cui svolgimento si era molto impegnato, e che ha detto: “Proprio quando ci sono le crisi non bisogna porre termine al dialogo, anzi, bisogna continuarlo”. E credo che questo sia stato un buon segno. Naturalmente, tutti eravamo molto preoccupati della situazione in Medio Oriente; abbiamo anche pregato tanto per i fratelli e le sorelle perseguitati. Siamo stati anche molto colpiti dalla grande disponibilità che il re di Giordania dimostra nei riguardi dei profughi: credo che attualmente in Giordania ci siano un milione di profughi, soprattutto dall’Iraq, e tutti sono accolti. Abbiamo avuto l’occasione – una piccola delegazione, in particolare i due presidenti della commissione – per recarci in un campo profughi ed è stato molto commovente l’incontro con queste persone, percepire la loro paura … E quello che mi ha colpito è stata la gioia che emanavano per la loro fede e questo mi ha fatto capire una volta ancora che la vera gioia della fede la impariamo da coloro che soffrono, dai poveri.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Per una risposta all’orrore: l’Is decapita un ostaggio francese mentre all’Onu si discute la strategia contro il terrorismo.

Ho sfogliato la cipolla: Messa del Papa a Santa Marta.

Allo Spirito Santo i diritti d’autore: intervista di Mario Ponzi al cardinale Roger Etchegaray, che oggi compie 92 anni.

Al centro la persona: intervista di Nicola Gori all’arcivescovo Angelo Vincenzo Zani, segretario della Congregazione per l’educazione cattolica.

La “Pacem iin terris”? Un fatto senza precedenti: Adam Somorjai sull’Ostpolitik della Santa Sede nelle fonti diplomatiche americane e Andras Fejérdy su due trattative e uno stesso metodo tra Praga e Budapest.

Lasciamo perdere Hegel: il cardinale Gianfranco Ravasi su Giuseppe Pontiggia e il mistero.

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Oggi in Primo Piano



L'arcivescovo di Algeri: decapitazione Gourdel shock per il Paese

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Paura in Algeria dopo la decapitazione dell'ostaggio francese Hervé Gourdel da parte di un gruppo jihadista locale. Sulla situazione che sta vivendo il Paese, Tiziana Campisi ha sentito l’arcivescovo di Algeri, mons. Ghaleb Bader

R. – Tutti gli algerini sono sotto shock per questa vicenda, soprattutto perché dagli anni ’90, gli anni bui, non ci sono più stati fatti del genere. Tornare a questo clima, a questa barbarie, ha scioccato tutti. Ma ad Algeri, la capitale, non si sente questo clima … Il fatto si è svolto in una zona isolata delle montagne e quindi dovrebbe rimanere in quel contesto, cioè in una zona non messa in sicurezza e lontana da qui. La gente è dispiaciuta, tutti sono dispiaciuti. Credo, però, che rimarrà un fatto isolato e che non torneremo a vivere il clima degli anni ‘90.

D. – La Chiesa algerina come sta vivendo questo periodo in cui sembra farsi avanti questo cosiddetto Stato Islamico?

R. – Questo Stato Islamico è una deformazione della religione musulmana che vuole imporre l’islam come religione, come Stato, a tutti. Per il momento, in Algeria almeno, direi che non è cambiato niente. La paura degli anni ‘90 è lontana, ma fatti del genere fanno tornare alla mente di tutti – non solo della Chiesa – tutta la barbarie di quegli anni. Ma come Chiesa non siamo minacciati.

D. – La Chiesa in Algeria che stagione sta vivendo, adesso?

R. – Per la Chiesa non è cambiato niente. Ho chiesto a tutti i miei sacerdoti, religiose e religiosi, di stare attenti perché in una situazione del genere la prudenza non è mai troppa. Ma non c’è niente di grave, di esplicito, che ci faccia dire che la Chiesa è in pericolo … per il momento non c’è niente. Speriamo che continui così.

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Hollande: prenderemo gli assassini di Gourdel

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L'Algeria mobiliterà tutte le forze per trovare i terroristi che hanno decapitato ieri l'ostaggio francese Hervé Gourdel: lo ha riferito il capo dell’Eliseo Francois Hollande ai margini dell'Assemblea dell'Onu a New York. Intanto in Siria e Iraq continuano i combattimenti contro i gruppi jihadisti del cosiddetto Stato Islamico. Massimiliano Menichetti

Si alza l’allerta terrorismo in molti Paesi occidentali dopo l’uccisione  di Hervé Gourdel, sequestrato quattro giorni fa in Cabilia, in Algeria dai jihadisti di "Jund al-Khilafa", legati al sedicente Stato Islamico. Ieri è arrivata anche la notizia della decapitazione, nei giorni scorsi, di un tuareg in Mali accusato di essere una spia della Francia. Una strategia che fa paura: sono 5 i prigionieri decapitati in poco più di un mese. “La lotta contro i gruppi jihadisti non si fermerà” hanno ribadito, in sede Onu, il presidente francese Hollande e quello statunitense Obama; quest’ultimo ha anche sottolineato che non è in atto una guerra all’islam, ma ai terroristi. Domani il parlamento britannico discuterà di un eventuale appoggio del Regno Unito al governo iracheno contro il sedicente Stato Islamico, mentre Olanda e Belgio hanno già messo a disposizione aerei da combattimento. Sul terreno, in Iraq, sono decine le vittime, stesso scenario in Siria dove proseguono i raid aerei contro l’Is e il Fronte al Nusra, ma i gruppi di opposizione che qui, da oltre tre anni, combattono contro regime di Assad parlano di “azioni che non faranno che alimentare l'estremismo".

 

Per un’analisi della situazione algerina, Paese che ha conquistato l’indipendenza dalla Francia nel 1962 e ha vissuto negli anni ’90 la guerra civile arrivando nel 1999 all’elezione dell’attuale presidente Bouteflika, abbiamo intervistato Roberto Tottoli, docente di islamistica all'Università Orientale di Napoli: 

R. - Innanzitutto bisogna distinguere tra l’Algeria del Nord e le zone desertiche meridionali: la zona sud scarsamente controllata dal potere centrale e riflette quelle che sono le tensioni dell’Africa sub-sahariana e quindi delle varie componenti che si rifanno, più o meno, ad al-Qaeda, nel Maghreb. Quindi la zona che va da Mauritania, Niger, Sud dell’Algeria e Libia vedono organizzazioni, magari di numero ridotto, particolarmente pericolose nei sequestri e anche in azioni coordinate con le zone più a sud di stampo jihadista e salafita.

D. - Ma questo asse che si è creato tra i jihadisti del sud, con i militanti del cosiddetto Stato Islamico potrebbe portare anche una frattura all’interno dello Stato o ancor peggio una alleanza che continua a propagarsi lungo tutto il Maghreb?

R. - Questo Califfato non dovrebbe avere una forza attrattiva: però passa il tempo, rimane e dimostra anche una capacità di circolazione di messaggi non indifferente. Il segnale sinistro di questa esecuzione in Algeria è che pochi giorni fa Adnani ha lanciato un messaggio contro gli occidentali e contro i francesi. Questo gruppo locale, Jund al-Khilafa, il 14 settembre aveva dichiarato fedeltà al Califfato ed ha ucciso raccogliendo questo sinistro messaggio. C’è uno spirito di emulazione, un collegamento e più si coalizza la realtà mondiale contro il Califfato, più, per certi versi, ne accresce la capacità attrattiva. Credo comunque che, per ora, sia molto difficile che si crei un collegamento territoriale esteso, anche se l’instabilità di tutta la regione attorno al Mediterraneo sembra aprire spazi assolutamente nuovi nella definizione anche delle entità statali.

D. - Ma qual è il futuro del Paese, secondo lei?

R. - Difficile dirlo ora! Fino a qualche anno fa chi poteva pensare che anche la realtà geografica di Siria ed Iraq fossero così messe a rischio… Nell’immediato non sembrano esserci grosse difficoltà e l’Algeria, tra i Paesi della regione, sicuramente  è quello che può contare su una stabilità relativa interna rispetto a Paesi come la Libia o anche Egitto e Tunisia. Non credo che nell’immediato ci siano rischi, però la storia in questa regione si sta muovendo molto più velocemente di quanto non abbia fatto nei decenni precedenti.

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Teologa musulmana: il Corano non giustifica la violenza

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Il mondo arabo e musulmano, circa un miliardo e mezzo di fedeli, assiste in massima parte sconvolto alla ferocia dei miliziani jihadisti del neo-proclamato Stato islamico (Is), stimati in circa 30 mila ma con un potere attrattivo in tutta la galassia islamica, che potrebbe scatenare un effetto domino di violenze e massacri contro chiunque si opponga alle derive folli di interpretazione del Corano ad opera del suo leader, al Baghdadi. Roberta Gisotti ha intervistato Shahrzad Houshmand, iraniana, teologa musulmana, docente di studi islamici alla Pontificia Università Gregoriana di Roma: 

D. – Dr.ssa Houshmand, le prime e più numerose vittime dei miliziani dell’Is sono proprio i musulmani ….

R. – Assolutamente sì! Loro hanno attaccato questi territori a maggioranza islamica: i primi ad essere vittime di questa violenza incredibilmente forte sono stati gli stessi musulmani di diverse scuole teologiche. Infatti, è veramente una violenza contro l’umanità. L’abuso assoluto di termini religiosi è soltanto uno strumento per giustificare questi atti di violenza, che viene assolutamente condannata dai capi religiosi, soprattutto dai docenti, dagli intellettuali e direi proprio dagli stessi musulmani che la vivono. E sono milioni e milioni che soffrono e altri milioni che guardano con sofferenza e piangono sangue a vedere queste immagini …

D. – Lei, da teologa musulmana, cosa risponde a chi imputa al Corano le violenze fondamentaliste?

R. – Io vorrei citare, prima di me, teologa, un uomo che oggi, con un coraggio immenso, sta insegnando a noi stessi teologi musulmani e ai musulmani stessi, non solo insegnando, ma ci abbraccia, ci ri-guida un po’, di nuovo, alla nostra fonte di misericordia. Nel meraviglioso libro di Papa Francesco, “Evangelii Gaudium”, cito soltanto una frase che oggi dobbiamo riprendere: noi musulmani l’abbiamo già ringraziato con diverse lettere da tutte le parti del mondo. Lui scrive: “Di fronte a episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza”. E lui stesso, lo testimonia anche con questo viaggio in Albania, primo Paese europeo che lui visita, un Paese a maggioranza islamica: oltre il 60 per cento è musulmano. E lui vuole fare proprio una guerra contro questa fabbrica di odio che vorrebbe mettere i musulmani contro i cristiani e viceversa; lui fa vedere che lì da secoli c’è una convivenza pacifica. E allora, l’errata interpretazione del testo coranico non è esclusivo dell’islam: nella Bibbia, che è sempre Parola di Dio, sia per i cristiani sia per i musulmani, sappiamo che in quasi tutti i suoi libri purtroppo c’è l’annuncio o la presenza di una violenza. Soltanto tre libri, Ester, Ruth e il Cantico dei Cantici, ne sono esenti. Allora, se un cristiano opera una violenza giustificando o interpretando a suo favore un passo della Bibbia, non significa che la Bibbia sia un libro che guida verso la violenza. La Bibbia, come il Corano, sono Libri che riflettono anche la vita umana. Allora, il Corano è pieno di passi in cui guida verso il perdono e la pace. Per esempio, nel versetto 38 e seguenti, ricorda proprio un popolo che è stato violentato, di cui si è ingiustamente abusato, e dice che la cosa giusta – oltre alla preghiera, al consigliarsi nel bene – sia anche darsi reciproco soccorso quando si è esposti alla violenza. E, poi il Corano continua: “Il contraccambio di un male è un male identico. Ma colui che perdona e si riconcilia, troverà la ricompensa presso Dio, che certo non ama gli iniqui”. Allora, è il momento di costruire, di riconciliarsi, perché cosa ci gioverà se vediamo tutti i musulmani presenti in Europa come i nostri nemici? E’ assurdo generalizzare un miliardo e mezzo di musulmani di tutte le culture e tradizioni, dalla Cina, all’India, all’Africa soltanto per un gruppo di persone che hanno una patologia? Quello che taglia la testa ai bambini: ma come possiamo pensarlo un uomo religioso che vuole costruire un califfato?

D. – Quanto è importante che le comunità musulmane nel mondo – come già accaduto in Germania, in Francia e anche in Italia, nei giorni scorsi – manifestino, scendendo nelle strade, contro il progetto di feroce dittatura del sedicente califfo al Baghdadi?

R. – E’ importante sicuramente. Ma vi dico: quei milioni che sono sotto queste violenze, come possono manifestare? In Europa, sì: stanno scrivendo lettere, facendo manifestazioni … Ma chi mai può essere d’accordo e favorevole con una forma di violenza di questa portata?

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Libia: rischio catastrofe umanitaria per scontri tra islamisti

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Forze contrapposte che quotidianamente lottano per conquistare il potere. È emergenza in Libia per l'avanzata delle milizie islamiche provenienti da Misurata. Dopo il controllo di Tripoli, sono riuscite ad occupare anche l’area di Warshfana a Sud Ovest della capitale. Per la zona, il parlamento libico - eletto nel giugno scorso e costretto a riunirsi a Tobruk perché contestato dai gruppi jihadisti - ha evocato il rischio di catastrofe umanitaria per i sanguinosi combattimenti tra fazioni armate rivali. Intanto a Bengasi, i caccia fedeli al generale Khalifa Haftar, ora fedele al parlamento e protagonista di un'offensiva anti-jihadista, hanno bombardato il lato non petrolifero del porto, per fermare alcune navi dei miliziani islamici. Proprio a Bengasi, inoltre, sono stati rapiti nelle ultime ore un medico anestesista ucraino e la moglie. Sulle forze rivali che si affrontano in questo momento, Giada Aquilino ha intervistato Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Firenze: 

R. - In questa fase si tratta di forze islamiste in qualche modo trasversali, che hanno cominciato la loro offensiva partendo da Ovest, partendo da Misurata, e poi avanzando lungo la costa fino a controllare praticamente tutte le grandi città, esclusa Tobruk dove il governo e il parlamento sono asserragliati sul confine egiziano. Il grande problema della Libia è che, se anche gli islamisti sono minoranza, le fratture tribali - soprattutto tra Tripolitania e Cirenaica - impediscono una risposta a forze che appunto sono minoritarie rispetto all’assetto del Paese.

D. - Il parlamento libico, eletto nel giugno scorso, è contestato da queste milizie jihadiste ed è costretto appunto a riunirsi a Tobruk, che si trova a 1.200 chilometri da Tripoli. Ci sono stati almeno dei tentativi di disarmare le numerose milizie che agiscono sul terreno?

R. - Il governo credo che controlli molto poco e quindi non può neanche disarmare. Peraltro le elezioni di giugno hanno aggiunto altro caos: nei giorni scorsi è stato rinominato il precedente primo ministro, Abdallah al-Theni, che sta letteralmente ricominciando da capo.

D. - Si può dire che, dalla morte di Gheddafi, il già precario equilibrio politico e sociale della Libia si è definitivamente rotto?

R. - Definitivamente sì, perché Gheddafi - come anche Saddam Hussein in Iraq - teneva insieme a forza i ‘pezzi’ della Libia: adesso ogni ‘pezzo’ pensa di avere titolo a governare il Paese come meglio crede.

D. - Adesso il parlamento evoca il rischio di catastrofe umanitaria proprio nell’area di Warshfana, a Sud-Ovest di Tripoli, da settimane teatro di sanguinosi combattimenti. E’ una situazione che un po’ richiama quella della Somalia, in preda all’anarchia?

R. - Credo che per la Somalia si tratti di condizioni peggiori. A Tripoli c’è sempre un retroterra dove in qualche modo ci si può rifugiare… Certo il modo di aiutare la Libia è pressoché impossibile, perché non è garantita alcuna condizione di sicurezza per qualsiasi tipo di intervento, anche umanitario.

D. - In questo momento di mobilitazione per l’avanzare del sedicente Stato Islamico (Is) in Medio Oriente, cosa è mancato finora a livello internazionale per la Libia?

R. - Per la Libia quello che manca è un chiaro referente. La Libia è un Paese che faceva parte delle colonie italiane, poi sono arrivati gli inglesi. A tutt’oggi quello che manca in Libia è un chiaro Stato di riferimento: l’Italia ovviamente - anche per l’acquisto di petrolio - vorrebbe mantenere la Libia nella sua sfera di interesse, ma ci sono forze ben maggiori, francesi e anche americani. Mancando un riferimento preciso, non c’è coordinamento.

D. - Da più parti si è lanciato l’allarme per un’avanzata dell’Is anche in Nord Africa…

R. - Questo è possibile, solo che non esiste uno Stato Islamico: ognuno lo interpreta a modo suo. Non c’è alcun collegamento tra quello che avviene in Libia e quello che avviene in Siria e in Iraq con l’Is. Ognuno ha il proprio Stato Islamico.

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Mons. Bregantini presenta libro sulla visita del Papa in Molise

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“Dio non si stanca di perdonare”: è  il titolo del libro presentato nella sede della Radio Vaticana che ripercorre la visita di Papa Francesco in Molise, avvenuta lo scorso 5 luglio. Un testo suddiviso in sette tappe, dal suo arrivo, la mattina presto all’eliporto dell’Università a Campobasso, fino al giorno dopo in Piazza San Pietro, con il saluto e il ringraziamento all'Angelus a “tutta la brava gente del Molise”. Marina Tomarro ha intervistato mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso e Boiano: 

R. - E’ un libro di riconoscenza ed è un libro di memoria: di riconoscenza, perché ci siamo sentiti preziosi agli occhi del Papa; di memoria, per non perdere la ricchezza spirituale e culturale che ci ha donato.

D. - Il Papa durante la visita in Molise ha evidenziato diversi temi, tra cui anche quello del lavoro, mettendo in evidenza proprio la dignità del portare il pane a casa…

R. - Da parte nostra è stata una maggior consapevolezza a livello di coraggio, da parte delle istituzioni è quello di non lasciarsi travolgere dall’aspetto finanziario, ma di organizzarsi bene insieme tramite l’alleanza intorno a tema del lavoro, perché sia possibile proprio in termini più generali - nell’alleanza reciproca - trovare le strade, specialmente alcuni passaggi: lo zuccherificio, il mondo rurale, il mondo delle piccole realtà industriali. La parola dignità che ha collegato soprattutto con la parola lavoro ci dice di non entrare più nella logica assistenzialistica che ha devastato molto l’immagine di coraggio, che questa regione deve ritrovare. Però collegato anche con la parola solidarietà, per cui non si può che individuare i luoghi, gli spazi, i tempi e i segni dentro cui creare una catena reciproca di forza per uscire dai problemi che il Molise ha e non solo il Molise.

D. - Sono passati solo poco più di due mesi, ma si vedono già i frutti? Ci sono dei cambiamenti?

R. - Noi riteniamo che, sottili, ci siano. La città è più bella, ha il segno della sua presenza, il profumo della sua presenza. Poi il fatto che la sua visita sia diventata un riferimento: queste parole belle che ci ha lasciato devono trovare lo spazio per diventare esperienza di solidarietà.

D. - Cosa è rimasto nel cuore dei molisani della visita di Papa Francesco?

R. - Quel senso di fierezza che lui ci ha donato. Più dignità c’è, più fierezza c’è, più coraggio c’è, più la terra diventerà bella, più diventerà prospera. Quel guardare la terra e farla fiorire - come lui ci ha detto - con lo sguardo del contadino, non per costrizione ma per vocazione, è il modo in cui noi dobbiamo guardare il Molise. Questo è quello che ci ha lasciato.

D. - E un ricordo personale?

R. - Stare seduto con lui; ascoltarne le parole; dialogare sulla partita dei Mondiali; la spiegazione sul mate; la delicatezza di chi vuol finire tutto quel che ha nel piatto dando sobrietà al suo stile, ma anche dignità in quello che si mangia. Poi la telefonata che ha fatto ad una nostra amica, in carrozzella da 50 anni… Questa relazione fatta anche di cose umane, spicciole dice invece quanto sia stato grande, perché è umile e proprio perché è umile è grande.

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A Imola mostra dedicata a S. Giovanni Paolo II

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“Omaggio a Giovanni Paolo II. I presepi di Piazza San Pietro e le Reliquie del Santo”. E’ il titolo della mostra, presentata stamani nella sede della nostra emittente, che verrà inaugurata ad Imola nei locali dell’Autodromo il 16 ottobre 2014. Sarà visitabile fino al 2 febbraio del 2015. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

La mostra è un omaggio a Giovanni Paolo II. In una cappella, ricreata per l’occasione all’interno di una sala dell’Autodromo, saranno esposte preziose reliquie, tra cui un’ampolla con il sangue del Santo, un suo rosario e la tonaca indossata da Papa Giovanni Paolo II il giorno dell’attentato in Piazza San Pietro. Un’altra sezione della mostra è dedicata ai presepi esposti nei Palazzi Vaticani e ai modelli di quelli allestiti, durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, in Piazza San Pietro. Mons. Luigi Negri, presidente Fondazione Giovanni Paolo II, si è soffermato sulla figura del Pontefice polacco:

“Gabriel Marcel diceva: ‘Ama chi dice all’altro: tu puoi non morire’. Giovanni Paolo II ha proclamato questa verità e questo annunzio a tutti gli uomini che ha incontrato. Io credo che sia stato dunque un grande uomo di fronte agli uomini e un grande cristiano di fronte ai cristiani. E’ questo immenso popolo che non si può neanche restringere alla professione di fede cattolica: è questo che aspetta questa mostra”.

La scelta della sede della mostra, l’Autodromo di Imola, non è casuale: in questo luogo il 9 maggio del 1986 San Giovanni Paolo II ha presieduto la Messa e incontrato migliaia di persone. Don Pierpaolo Pasini, delegato del vescovo di Imola:

“Imola, nonostante abbia una storia molto antica, è nota per altre ragioni. Imola è chiamata anche la 'terra dei motori'. Che in un contesto di questo genere, Giovanni Paolo II abbia celebrato la Messa in questo luogo è un’ulteriore sottolineatura: per questo Papa non c’è stato nessun aspetto della vita umana che non abbia meritato la sua attenzione”.

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A Roma, una mensa per i poveri grazie a panettieri e commercianti

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Nella chiesa di Sant’Alessio e San Bonifacio a Roma, padre Alberto Monnis ha vinto la sua scommessa: ogni giorno riesce ad offrire un pasto caldo a più di cento persone grazie alla solidarietà di residenti e commercianti, dai panettieri del quartiere Testaccio che donano pane fresco e focacce ai pensionati e agli studenti che dedicano il loro tempo ai più bisognosi. Ma non solo: anche Papa Francesco ha voluto rifornire di scorte alimentari la piccola mensa di padre Alberto. Maria Gabriella Lanza lo ha intervistato. 

R. – Noi distribuiamo circa 120 pasti al giorno a persone senza fissa dimora, che vengono da diverse parti del mondo, soprattutto dall’Est dell’Europa, dall’Africa e a un buon numero di latino-americani.

D. – La mensa si regge sulla solidarietà delle persone comuni...

R. – Abbiamo sicuramente aiuti da parte del Banco Alimentare, ma poi ci sono tante persone che lasciano un pacchetto di roba da mangiare - di fagioli, di biscotti - alla nostra porta. Troviamo, poi, magari quello che andando a lavoro ci porta i piatti di plastica, le forchette. Abbiamo i bambini della scuola qui davanti che ci portano i panini che gli avanzano. Abbiamo i poveri stessi che, a volte, ci danno la frutta che loro hanno ricevuto. La settimana scorsa è venuto un povero, che ci ha dato cinque melanzane. Insomma, abbiamo questo movimento di solidarietà, che coinvolge un po’ tutti e i poveri stessi.

D. – Lei ha ricevuto delle scorte alimentari anche da Papa Francesco?

R. – Sì! Questo è successo recentemente. Nel mese di agosto abbiamo ricevuto una telefonata dalla Segreteria di Stato, che diceva che il Papa aveva sentito parlare della nostra mensa e ci chiedeva se fosse possibile mandarci dei viveri da parte sua. Ci ha colto un po’ di sorpresa all’inizio. Abbiamo detto di sì, ovviamente, e a settembre è venuto l'Elemosiniere del Papa, che ci ha portato pasta, riso e un po’ di scatolame, e noi abbiamo dato ai nostri amici della mensa appunto la pasta del Papa.

D. – Offrite aiuti materiali, ma non solo...

R. – Diciamo che molti di loro vorrebbero anche soltanto poter parlare con qualcuno. La scusa, magari, è la medicina o il vestito che gli serve. Qualcuno ci dice che ha un’amica cui dover portare le scarpe. Quasi tutti, però, hanno bisogno di qualcuno che li ascolti. Infatti, uno degli ospiti della mensa un giorno mi ha detto: “Una pasta con un sorriso vale come un’aragosta”. Ed è veramente così. Quindi per quel poco tempo che abbiamo, cerchiamo di ascoltarli e di far sentire loro che sono nostri amici. Cerchiamo anche di non chiamarli mai poveri, se possibile, se non è necessario, ma di chiamarli come gli amici oppure gli ospiti della mensa. Loro ci vogliono bene e anche noi cerchiamo di volergliene.

D. – Quindi tocca ad ognuno di noi dare una mano all’altro?

R. – Sì, “tocca a me”, in qualche modo è un nostro motto. “Tocca a me” non vuol dire che possiamo risolvere tutti i problemi, ma vuol dire che non dobbiamo tirarci indietro. La mensa va avanti, perché abbiamo delle persone che dicono “tocca a me”, che si mettono in gioco, ognuno come può; perché poi non tutti fanno le stesse cose: c’è chi magari viene soltanto una volta ogni tanto; c’è chi crea le condizioni, perché io possa ad esempio dedicarmi a questo. La cosa più bella è quando vediamo che gli ospiti stessi della mensa ricambiano quel poco che ricevono. Recentemente abbiamo avuto un ospite polacco, cui abbiamo dato qualcosa che lui riteneva essere in più. “Ma questo – diceva – potete usarlo per qualcun altro, non lo voglio per me, perché a me tutto sommato non servirebbe”. Ecco, questi per me sono dei grossi gesti, se pensa che sono persone che abitano per strada e che sono ancora capaci di vedere i bisogni di chi ha più bisogno di loro. Questo è un piccolo miracolo, secondo me.

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Nella Chiesa e nel mondo



Pakistan: cristiano accusato di blasfemia ucciso in carcere

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Il pastore cristiano Zafar Bhatti, in prigione da due anni con l’accusa di blasfemia, è stato ucciso oggi da un poliziotto nel carcere di Rawalpindi. L’agente ha ucciso Bhatti, in attesa di processo, e ferito un altro uomo, Muhammad Asghar, condannato a morte con la stessa accusa. Bhatti era sotto processo dopo che un leader islamico lo ha accusato nel 2012 di inviare messaggi Sms offesivi verso la madre di Maometto. Secondo la famiglia e i suoi avvocati, qualcuno ha cercato di incastrarlo, usando il suo telefono. Come conferma a Fides Cecil Shane Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione Nazionale “Giustizia e Pace” dei vescovi pakistani, nelle ultime settimane Bhatti aveva ricevuto minacce di morte in carcere da detenuti e guardie e aveva avvisato le autorità carcerarie. Bhatti avrebbe dovuto presentarsi davanti a un tribunale di primo grado domani, 26 settembre. Come riferito a Fides, gli avvocati dell’Ong Claas (“Center for legal aid assistance and settlement”), che seguivano il caso, erano fiduciosi nel suo rilascio.

A nome della Chiesa cattolica, Chaudhry condanna “il gesto terribile” e ricorda che “vi sono molti altri accusati in carcere, in attesa di processo, innocenti. Sono in percolo solo perché vittime di accuse di blasfemia, spesso false: il governo deve tutelare la loro vita. Chiediamo che il colpevole venga assicurato alla giustizia”. Secondo il “Centro per la ricerca e gli studi sulla sicurezza”, think-tank con sede a Islamabad, negli ultimi anni le accuse di blasfemia sono aumentate in modo esponenziale (un caso nel 2001, 80 nel 2011). La legge viene sempre più utilizzata per regolamenti di conti in dispute private, che nulla hanno a che vedere con la religione. Gli accusati sono spesso a rischio di linciaggio, mentre avvocati e giudici spesso rifiutano di aver a che fare con tali casi. Per questo i periodi carcerazione degli accusati spesso si prolungano per anni. Secondo cifre ufficiai, almeno 48 persone accusate di blasfemia sono state vittime di uccisioni extragiudiziali. Tra le vittime recenti, il professore di studi islamici di Karachi, Muhammad Shakil Auj, e l’avvocato musulmano di Multan, Rashid Rehman.

Il vescovo di Faisalabad, Joseph Ashad, afferma: “La legge di blasfemia legge viene abusata, le vittime sono i più deboli, cristiani e musulmani. Oggi è urgente una correzione per evitarne gli abusi”. Anche il noto leader musulmano pakistano Hafiz Tahir Mehmood Ashrafi lamenta “l'uso improprio della legge sulla blasfemia" e ricorda che "i cristiani sono perseguitati a causa del cattivo uso di questa legge". "Come membro del Consiglio islamico del Pakistan – afferma – proporrò al governo severe punizioni per chi accusa falsamente un’altra persona di blasfemia”.

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Vescovi Usa: pace in Terra Santa è possibile

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La pace tra palestinesi e israeliani “è possibile” e la via giusta per raggiungerla resta la soluzione dei “due Popoli, due Stati”. È quanto afferma la Conferenza episcopale degli Stati Uniti (Usccb) nel comunicato diffuso al termine del recente Pellegrinaggio compiuto in Terra Santa dalla delegazione di vescovi guidata da Richard E. Pates. Una visita di una settimana durante la quale i presuli americani hanno incontrato il personale delle diverse opere caritative cattoliche impegnate negli aiuti alla popolazione colpita dal conflitto, esponenti politici israeliani e palestinesi - tra i quali l’ex presidente d’Israele Shimon Perez e il Primo Ministro della Palestina Rami Hamdallah - e hanno pregato insieme ai leader religiosi ebraici, cristiani e musulmani. “Non esiste alcuna soluzione militare al conflitto. Al contrario la violenza delle due parti mina la fiducia necessaria per raggiungere la pace: la violenza semina sempre altra violenza e terrore”, si legge nella nota, nella quale si sottolinea la “potenza della preghiera”, che è stato il filo conduttore del pellegrinaggio. Nel corso degli incontri e delle visite nelle varie località israeliane e dei Territori Occupati, i presuli statunitensi hanno potuto toccare con mano il dramma vissuto dai due popoli e le conseguenze materiali e morali della guerra, ma anche l’impegno delle tante persone di buona volontà, israeliane e palestinesi, che aspirano alla pace. Nel comunicato i vescovi si dicono colpiti dai tanti “segni di contraddizione” che continuano ad ostacolare l’avvio di un qualsiasi processo di pace in questa terra martoriata: dai muri di separazione tra Israele e i territori palestinesi, all’espansione delle colonie ebraiche, alla divisione di Gerusalemme, alle  pesanti conseguenze economiche dell’occupazione e delle restrizioni alla libertà di movimento. A preoccuparli è soprattutto la situazione dei cristiani palestinesi. Il tasso di emigrazione nella comunità cristiana – rileva il comunicato - ha raggiunto ormai livelli “allarmanti”: la guerra e l’occupazione li stanno costringendo ad emigrare. La nota conclude con una nota di speranza,  anche se - afferma - dopo l’ultima guerra di Gaza essa diventa sempre più sottile: “Ci è stato detto che la Terra Santa è la terra dei miracoli. Il miracolo di cui abbiamo bisogno è la trasformazione dei cuori umani che renda meno sordi alle ragioni dell’altro”. (L.Z.)

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Card. O’Malley: aborto ed eutanasia, minaccia a diritti umani

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“Ognuno di noi è un capolavoro della creazione di Dio”: si apre così il messaggio del card. Seán O’Malley, presidente della ‘Commissione per le attività in favore della vita’ della Conferenza episcopale statunitense, diffuso in vista del mese di ottobre, tradizionalmente dedicato alla difesa della vita. “Vogliamo far parte di una società che fa dell’affermazione e della tutela dei diritti umani la sua priorità ed il suo vanto”, scrive il porporato. “Ancora oggi – nota – alle donne che si trovano ad affrontare una gravidanza inaspettata, l’aborto viene presentato come l’unica scelta possibile”, mentre “ad un’ampia percentuale di feti affetti da sindrome di Down non viene neanche offerta la possibilità di nascere”. Non solo: “Gli anziani temono di diventare un peso per le loro famiglie e cercano il suicidio assistito” e si vedono sempre più persone “spinte ai margini della società”. Ma “questi drammi – scrive il card. O’Malley – vanno direttamente contro il rispetto per la vita e rappresentano una minaccia diretta all’intera cultura dei diritti umani”. “Piuttosto che una società di persone che vivono insieme – sottolinea il porporato – le nostre città rischiano di diventare società di persone emarginate, sradicate ed oppresse”. Cosa fare, dunque?, chiede il cardinale degli Stati Uniti. La risposta sta nel “guardare a se stessi ed agli altri come capolavori della creazione di Dio” e nel “trattare tutte le persone con il dovuto rispetto”. “Comunità e solidarietà – continua il porporato – sono l’antidoto della Chiesa all’individualismo che minaccia il rispetto della dignità umana” e la missione dei credenti è quella di “mostrare a tutti l’amore di Cristo”. “L’amore e la giustizia – conclude il card. O’Malley – devono motivare ciascuno di noi a lavorare per una conversione dei nostri cuori, così che possiamo trasformare il mondo attorno a noi”.(I.P.)

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La Chiesa della Bolivia chiede solidarietà con i carcerati

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La “Giornata delle persone private della libertà”, celebrata il 24 settembre in Bolivia, è stata ricordata da mons. Eugenio Scarpellini, segretario generale della Conferenza Episcopale locale, con una denuncia della situazione di ingiustizia e corruzione che circonda tutto il sistema penale del Paese. “Nelle nostre carceri – ha affermato il presule - non ci sono solo le persone che hanno commesso dei crimini e che giustamente scontano la loro pena, ma l’ottanta per cento della popolazione carceraria è in attesa di una sentenza, a causa dei ritardi della giustizia”. Mons. Scarpellini ha sottolineato, in particolare, la situazione dei detenuti politici e delle vittime della corruzione del sistema giudiziario, che meritano una maggiore attenzione da parte di tutta la società. “A coloro che sono detenuti va tutta la nostra solidarietà e vicinanza” ha detto segretario generale dell’episcopato. Quanto alle elezioni generali del prossimo 12 ottobre, il vescovo ausiliare di El Alto ha ribadito la preoccupazione della Chiesa per una campagna elettorale caratterizzata da diffamazioni e da insulti. “Si costruiscono falsi nemici, si punta il dito per oltraggiare, si sprecano risorse per distruggere i candidati, a nessuno interessa il bene comune o la costruzione di un futuro migliore per tutti”, ha affermato mons. Scarpellini. Quale futuro si potrebbe costruire con la divisione, l’odio e il rancore?”, ha aggiunto. “Alla fine avremmo vincitori e sconfitti che non avranno rispetto l’uno per l’altro, che non potranno darsi la mano e dialogare per far fronte ai gravi problemi ed alle carenze che affliggono il nostro Paese”.  Da ricordare che già lo scorso 21 agosto, in un comunicato, i vescovi della Bolivia avevano criticato la violenza degli scontri verbali tra i candidati in lizza, la carenza di proposte serie e concrete per rispondere alle aspettative degli elettori e la disparità di mezzi tra le diverse fazioni. (A.T.)

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Vescovi scozzesi: non modificare legge su donazione organi

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“Una proposta intrinsecamente discriminatoria che nega l’integrità della persona”: così la Conferenza episcopale scozzese, in una nota, definisce la proposta normativa che mira a modificare la legge attuale sulla donazione degli organi. Il progetto vorrebbe trasformare il sistema odierno da “opt-in”, ovvero con necessità di consenso da parte del donatore di organi, ad “opt-out”, in cui basterebbe una sorta di silenzio-assenso, là dove il donatore non lasci esplicite indicazioni contrarie. L’obiettivo del progetto normativo è quello di snellire le liste di attesa per i malati bisognosi di trapianto. Ma i vescovi scozzesi mettono in guardia dai rischi legati alla mancata dichiarazione di consenso: “La proposta normativa mira a stabilire un principio legittimo secondo il quale il consenso della persona può essere determinato dall’autorità dello Stato”. E questo “cancella il rispetto dell’integrità di ciascuno”, lasciando il campo libero a “scelte arbitrarie e discriminatorie”. Naturalmente, si legge ancora nella nota, “la Chiesa è una sostenitrice entusiasta della donazione di organi” e raccomanda “mezzi leciti per incoraggiare una maggiore cooperazione e disponibilità da parte dei cittadini” in questo ambito. L’importante è che, “per andare incontro alle richieste di trapianti, non vengano sacrificati principi etici importanti”. Pur riconoscendo, quindi “le nobili intenzioni della proposta di legge”, i presuli di Edimburgo ribadiscono la necessità che essa “assicuri l’adesione rigorosa ai principi che tutelano i cittadini da violazioni ingiustificate dei loro diritti”. Altri punti controversi del disegno di legge affrontano la questione dell’età dei donatori e del coinvolgimento delle famiglie: riguardo al primo punto, i vescovi ricordano che la Convenzione Onu sui Diritti dei minori considera bambino “chi ha meno di 18 anni” e non di 16, come vorrebbe invece la proposta normativa. Quanto al coinvolgimento delle famiglie, i presuli si dicono contrari ad una “limitazione del loro ruolo”, sottolineando che “i familiari di un potenziale donatore devono essere consultati, affinché le volontà del loro congiunto siano rispettate”. “La donazione di organi - affermano i vescovi - non è moralmente accettabile se il donatore non ha dato il suo esplicito consenso”. Infine, la Conferenza episcopale scozzese cita due importanti discorsi pontifici: quello rivolto da Giovanni Paolo II ai partecipanti al 18.mo Congresso internazionale della società dei trapianti, il 29 agosto del 2000, in cui il Pontefice sottolineava che “la medicina dei trapianti si rivela strumento prezioso nel raggiungimento della prima finalità dell'arte medica, il servizio alla vita umana”. Gli faceva eco Benedetto XVI il 7 novembre 2008, incontrando i partecipanti al Congresso internazionale sulla donazione di organi, promosso dalla Pontificia Accademia per la vita: “La donazione di organi è una forma peculiare di testimonianza della carità. Esiste, infatti, una responsabilità dell'amore e della carità che impegna a fare della propria vita un dono per gli altri, se si vuole veramente realizzare se stessi”. (I.P.)

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Vertice clima. Agenzie cattoliche: "Decarbonizzare l'economia"

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Le agenzie cattoliche per lo sviluppo riunite nel Cidse (Coopération Internationale pour le Développement et la Solidarité) un'alleanza di 17 Ong cattoliche europee e nordamericane, esortano i leader politici mondiali ad ascoltare la voce delle centinaia di migliaia di persone che domenica scorsa hanno sfilato in 159 città nel mondo per chiedere interventi urgenti e concreti contro i cambiamenti climatici, in vista della prossima Conferenza sul clima a Parigi nel 2015. Commentando le conclusioni del Summit straordinario sul clima convocato martedì dall’Onu, i delegati del Cidse che hanno partecipato all’evento non nascondono la delusione per i magri risultati del vertice. “Molti governi, compresi quelli dell’Unione Europea - rileva un comunicato - non sono stati in grado di approfittare del vertice per presentare piani di mitigazione e di prendere maggiori impegni finanziari” per una effettiva attuazione all’accordo sul clima che sarà siglato a Parigi l’anno prossimo. Nel comunicato, il Cidse ricorda ai governi che “la lotta ai cambiamenti climatici non si riduce agli impegni presi al vertice Onu. Occorre decarbonizzare l’economia, rinunciare ai combustibili fossili e allontanarsi dalle industrie e da processi estrattivi distruttivi. Dobbiamo orientarci verso un futuro che non sia più centrato sulla produzione e il consumo, ma piuttosto sulla resilienza, la giustizia e una vita in armonia con il Creato”, aggiunge la nota, facendo eco all’intervento al Summit del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Per altro verso, i delegati del Cidse riconoscono che si è finalmente preso atto del fatto che “i cambiamenti climatici non sono solo una questione ambientale, ma una minaccia esistenziale che colpisce il cuore stesso del sistema economico” e dello “stretto legame tra clima e povertà”. “Purtroppo - ha osservato Neil Thorns responsabile della comunicazione della Cafod, la Caritas inglese - per quelli che vivono nella povertà le parole non sono di grande aiuto di fronte alle sfide che devono affrontare adesso e nel futuro”. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 268

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.