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Sommario del 22/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco prega a S. Maria Maggiore dopo viaggio in Albania

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Papa Francesco, come sua consuetudine, ha voluto ringraziare la Vergine della sua protezione e della buona riuscita del viaggio in Albania. Questa mattina, intorno alle ore 12 - informa una nota ufficiale - il Papa si è recato alla Basilica di Santa Maria Maggiore sostando "in preghiera silenziosa nella Cappella della Salus Populi Romani", dove "ha presentato in omaggio un bel mazzo di fiori ricevuto ieri sera in Albania durante l’ultimo incontro presso la Casa di accoglienza Betania". I fedeli presenti in quel momento nella Basilica "si sono uniti al canto finale della Salve Regina". Papa Francesco è poi rientrato intorno alle ore 12.30 in Vaticano.

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Papa a leader di altre religioni: mai uccidere o discriminare in nome di Dio!

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Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza o discriminare in nome di Dio: è quanto ha detto Papa Francesco incontrando nel pomeriggio a Tirana i leader di altre religioni e denominazioni cristiane. L'evento si è svolto nell'Università cattolica "Nostra Signora del Buon Consiglio". Il Papa ha spiegato anche quale sia il fondamento di ogni dialogo autentico. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

"Non si può dialogare se non si parte dalla propria identità". Senza identità - ha detto Papa Francesco - non può esistere il dialogo:

"Sarebbe un dialogo fantasma, un dialogo sull’aria: non serve. Ognuno di noi ha la propria identità religiosa, è fedele a quella ... Quello che è più importante è camminare insieme senza tradire la propria identità, senza mascherarla, senza ipocrisia".

Il Papa ha anche ricordato la recente storia dell’Albania, testimone negli anni del regime comunista “di quali drammi possa causare la forzata esclusione di Dio dalla vita personale e comunitaria”. Il Paese ha poi vissuto, a partire dagli anni ’90, cambiamenti che hanno creato “le condizioni per una effettiva libertà di religione”:

“Ciò ha reso possibile ad ogni comunità di ravvivare tradizioni che non si erano mai spente, nonostante le feroci persecuzioni, ed ha permesso a tutti di offrire, anche a partire dalla propria convinzione religiosa, un positivo contributo alla ricostruzione morale, prima che economica, del Paese”.

La religione autentica – ha aggiunto il Santo Padre – è "fonte di pace e non di violenza":

“Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio! Discriminare in nome di Dio è inumano”.

Il Papa ha indicato due atteggiamenti per promuovere la libertà religiosa:

“Il primo è quello di vedere in ogni uomo e donna, anche in quanti non appartengono alla propria tradizione religiosa, non dei rivali, meno ancora dei nemici, bensì dei fratelli e delle sorelle. Ogni tradizione religiosa, dal proprio interno, deve riuscire a dare conto dell’esistenza dell’altro”.

Un secondo atteggiamento è “l’impegno in favore del bene comune”:

“Ogni volta che l’adesione alla propria tradizione religiosa fa germogliare un servizio più convinto, più generoso, più disinteressato all’intera società, vi è autentico esercizio e sviluppo della libertà religiosa. …Più si è a servizio degli altri e più si è liberi!”.

Il Papa ha poi esortato a guardare i molteplici bisogni della società attuale:

“Quanti sono i bisogni dei poveri, quanto le nostre società devono ancora trovare cammini verso una giustizia sociale più diffusa, verso uno sviluppo economico inclusivo! Quanto l’animo umano ha bisogno di non perdere di vista il senso profondo delle esperienze della vita e di recuperare speranza”.

“In questi campi di azione – ha concluso il Pontefice – uomini e donne ispirati dai valori delle proprie tradizioni religiose possono offrire un contributo importante, anzi insostituibile”. “È questo un terreno particolarmente fecondo anche per il dialogo interreligioso”.

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Le lacrime di Francesco davanti ai superstiti della persecuzione comunista

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Secondo appuntamento del pomeriggio a Tirana è stata la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di San Paolo con i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e i movimenti laicali. Il Papa, visibilmente commosso per le toccanti testimonianze di un sacerdote e di una religiosa che hanno vissuto la persecuzione comunista, ha messo da parte il discorso scritto e ha parlato a braccio. Il servizio di Sergio Centofanti

Due testimonianze molto forti: un sacerdote diocesano, don Ernest, racconta i suoi 18 anni di prigione sotto il regime comunista ateo, i 10 anni di lavori forzati, le torture. Suor Maria, religiosa stimmatina, dice: “non so come abbiamo fatto a sopportare tanto, ma Dio ci ha dato forza, pazienza e speranza”. Il Papa si commuove, fino alle lacrime, e li abbraccia con affetto. Commentando la Lettura dei Vespri, afferma: “non sapevo che il vostro popolo avesse sofferto tanto! Un popolo di martiri”: 

“E noi possiamo domandare a loro: ‘Ma come avete fatto a sopravvivere a tanta tribolazione?’. E ci diranno questo che abbiamo sentito in questo brano della Seconda Lettera ai Corinzi: ‘Dio è Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. E’ stato Lui a consolarci!’. Ce lo hanno detto con questa semplicità. Hanno sofferto troppo. Hanno sofferto fisicamente, psichicamente, e anche quell’angoscia dell’incertezza: se sarebbero stati fucilati o no, e vivevano così, con quell’angoscia. E il Signore li consolava”.

Papa Francesco ricorda quando i primi cristiani, tutti insieme, pregavano per Pietro in carcere: “Tutta la Chiesa pregava per lui”. E il Signore ha consolato Pietro, i martiri dell’Albania e di ogni luogo e tempo:

“Il Signore li consolò perché c’era gente nella Chiesa, il popolo di Dio - le vecchiette sante e buone, tante suore di clausura… - che pregavano per loro. E questo è il mistero della Chiesa: quando la Chiesa chiede al Signore di consolare il suo popolo; e il Signore consola umilmente, anche nascostamente. Consola nell’intimità del cuore e consola con la fortezza”.

Si tratta di testimonianze – ha proseguito il Papa – che ancora oggi ci dicono qualcosa:

“Che per noi, che siamo stati chiamati dal Signore per seguirlo da vicino, l’unica consolazione viene da Lui. Guai a noi se cerchiamo un’altra consolazione! Guai ai preti, ai sacerdoti, ai religiosi, alle suore, alle novizie, ai consacrati quando cercano consolazione lontano dal Signore! … sappiate bene: se voi cercate consolazione altrove, non sarete felici! Di più: non potrai consolare nessuno, perché il tuo cuore non è stato aperto alla consolazione del Signore”.

“Non scoraggiatevi!” – è stata l’esortazione conclusiva di Papa Francesco – “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione, con la consolazione con cui siamo stati consolati noi stessi da Dio”.

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Il Papa al Centro Betania: il bene paga più del denaro, donarsi dà gioia

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L’ultima tappa di Francesco nella sua intensa giornata in Albania è stata dedicata ai piccoli bisognosi, ospitati dal Centro di assistenza “Betania”, fondato nel 1999 da Antonietta Vitale, una laica cattolica italiana impegnata in opere caritative. Nel suo discorso, il Papa ha sottolineato che “il bene paga infinitamente più del denaro” e che il “segreto di un’esistenza riuscita” è “amare e donarsi per amore”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Sono stati gli ultimi ad essere visitati in Albania, ma i primi nel cuore di Papa Francesco. I bambini del Centro Betania portano ferite forse invisibili a uno sguardo superficiale, ma profonde: alcuni sono orfani, altri cresciuti in contesti familiari disagiati. Ad accomunarli è l’amore che hanno trovato in questa casa, segno visibile della carità cristiana. E’ l’amore del personale e dei volontari che, come ha detto il Papa, “portano luce e speranza in situazioni di grave disagio”:

“Questa fede che opera nella carità smuove le montagne dell’indifferenza, dell’incredulità e dell’apatia e apre i cuori e le mani a compiere il bene e a diffonderlo. Attraverso gesti umili e semplici di servizio ai piccoli, passa la Buona Notizia che Gesù è risorto e vive in mezzo a noi”.

Del resto, ha annotato Francesco, il Centro Betania “testimonia che è possibile una convivenza pacifica e fraterna tra persone appartenenti a differenti etnie e a diverse confessioni religiose”.  E questo perché “l’armonia, la gioia e la pace” diventano “occasione per una più profonda conoscenza e comprensione reciproca”. Ogni “comunità religiosa – ha proseguito – si esprime con l’amore e non con la violenza, non ci si vergogna della bontà!”. E ha sottolineato che “il bene è premio a sé stesso e ci avvicina a Dio, Sommo Bene”:

“Il bene paga infinitamente di più del denaro che invece delude, perché siamo stati creati per accogliere l’amore di Dio e donarlo a nostra volta, e non per misurare ogni cosa sulla base del denaro o del potere, che è il pericolo che ci uccide a tutti!”

Riprendendo le parole di un volontario, il Papa ha affermato che è bello sacrificarsi con “gioia per amore di Gesù e amore nostro”. Questo, ha constatato, può sembrare paradossale “a tanta parte del nostro mondo, che ha difficoltà a comprenderle e cerca affannosamente nelle ricchezze terrene, nel possesso e nel divertimento fine a sé stesso la chiave della propria esistenza, trovando invece alienazione e stordimento”:

“Il segreto di un’esistenza riuscita è invece amare e donarsi per amore. Allora, si trova la forza di ‘sacrificarsi con gioia’ e l’impegno più coinvolgente diventa fonte di una gioia più grande. Allora non fanno più paura scelte definitive di vita, ma appaiono nella loro vera luce, come un modo per realizzare pienamente la propria libertà”.

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Il Papa: l'Albania a maggioranza musulmana esempio di convivenza

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“Al nobile popolo albanese, con il mio rispetto e ammirazione per la sua testimonianza e la sua fraternità nel portare avanti il Paese”, Francesco lo ha scritto ieri nel libro d’onore nel Palazzo presidenziale di Tirana e a braccio ne ha spiegato i motivi ai giornalisti, sull’aereo di ritorno a Roma. Il servizio di Roberta Gisotti

Tolleranza e fratellanza, le espressioni in questo viaggio. Non solo l’albanese, con il suo passato di sofferenze indicibili nel regime comunista, è “tollerante” – ha ripetuto Francesco ai giornalisti - ma è “fratello”:

"Ha la capacità della fratellanza: è di più. E questo si vede nel convivere, nel collaborare tra gli islamici, gli ortodossi e i cattolici. E collaborano, ma come fratelli".

Fratelli che hanno avuto imposto l’ateismo di Stato:

“..il livello di crudeltà è stato terribile.”

Ripenso – ha detto il Papa - alle parole rivolte non solo a cattolici, anche a ortodossi e musulmani:

“Tu non devi credere in Dio” – “Io ci credo!” – bum, e lo facevano fuori. Per questo dico che anche tutte e tre le componenti religiose hanno dato testimonianza di Dio e adesso danno testimonianza della fratellanza".

Altra sorpresa il ritrovarsi nel Paese più giovane d’Europa:

"L’Albania ha, si vede proprio, uno sviluppo superiore nella cultura e anche nella governance, per questa fratellanza".

Una visita che Francesco non ha fatto solo per gli albanesi:

"L’Albania ha fatto una strada di pace, di convivenza e di collaborazione che va oltre, va ad altri Paesi che hanno ugualmente radici etniche diverse".

L’Albania – ha sottolineato il Papa – è un Paese a maggioranza musulmano, “non è un Paese musulmano”.

“Per me questa è stata una sorpresa: l’Albania è un Paese europeo, proprio per la cultura, la cultura di convivenza e anche per la cultura storica che ha avuto”.

Un viaggio alla periferia dell’Europa. Dunque, che dire a chi guarda solo all’Europa dei potenti?

"Che è un messaggio, questo mio viaggio, è un segnale: è un segnale che io voglio dare".

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P. Lombardi: l'Albania ha toccato a fondo il cuore del Papa

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Una visita che ha permesso a Papa Francesco di scoprire da vicino la storia e l’anima dell’Albania, accanto a un popolo che non dimentica le sue ferite ma che ha da tempo imboccato la via della riconciliazione. Il direttore della Sala Stampa vaticana, e nostro direttore generale, padre Federico Lombardi, condensa in alcuni punti il quarto viaggio apostolico, partendo dall’abbraccio commosso del Papa ai superstiti della persecuzione comunista. L’intervista è di Alessandro De Carolis

R. – Non mi ha affatto sorpreso, questo momento di profonda commozione, perché il tema del martirio, della testimonianza della fede in situazioni estremamente difficili, è tema che il Papa sente moltissimo e tutti sentiamo con lui. Lo abbiamo già sperimentato anche in Corea, recentemente, anche se era un martirio in gran parte di tempi un po’ più lontani. In Albania, invece, sono tempi molto vicini e abbiamo avuto proprio l’incontro con dei testimoni che se non sono stati martiri essi stessi, nel senso che hanno perso la vita, di fatto hanno vissuto lo stesso tipo di esperienza di coloro che sono stati uccisi nella persecuzione. Ora, in questa giornata la presenza del martirio è stata molto grande, molto forte. Lo si è visto in quella bellissima presentazione che hanno fatto gli albanesi, con le grandi fotografie dei 40 martiri di cui è in corso la Causa di beatificazione, che erano appese lungo il Boulevard che è stato percorso più volte durante la giornata e che sta va proprio davanti alla sede della Messa e davanti al Palazzo presidenziale. E questo è stato un impatto molto grande. Tra l’altro, mi sono reso conto che anche per gli albanesi è stato un impatto molto forte, perché loro sanno bene che hanno avuto questa storia, ma i volti concreti di queste 40 persone di cui c’è la Causa di beatificazione moltissimi non li conoscevano o non li avevano così presenti. Rivederseli davanti nella loro concretezza ha fatto una grandissima impressione anche agli albanesi stessi. Ha ridato loro il senso della presenza di quello che è stato vissuto nei decenni passati del secolo scorso. E il Papa lo ha vissuto in prima persona, molto. E quindi, quando si è trovato di fronte a queste due persone, due testimoni che con grande semplicità hanno raccontato quello che hanno vissuto, la commozione è stata grandissima: la sua e la nostra. Io ricordo che anche durante la comunione, al mattino, c’era un bellissimo canto cantato in albanese, quindi molti non capivano cosa dicesse, ma erano le parole della Lettera ai Romani di San Paolo che diceva: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione? Nulla ci potrà mai separare dall’amore di Cristo”. Ecco, questo canto bellissimo, con davanti tutte le figure dei martiri, mi ha dato un momento di commozione incontenibile, personale, in certo senso simile a ciò che in modo molto più importante ha vissuto il Papa al pomeriggio, incontrando e abbracciando questi due testimoni. E’ stato naturale, nella sensibilità del Papa, che abbia parlato poi a braccio, dicendo dalla pienezza del cuore quello che stava vivendo in quei momenti. E certamente, per noi – che sappiamo un po’ qual è stata la storia recente dell’Albania – non si può andare in Albania senza sentire questa intensità di questa presenza. Il Papa ha avuto anche delle parole molto belle quando ha detto che andava spiritualmente a quel muro del Cimitero di Scutari, dove sono stati fucilati diversi dei martiri che noi ricordavamo ieri. E quindi ha dato anche il senso della presenza ai diversi luoghi, in particolare a Scutari, che è stato un po’ il centro della vita cattolica dell’Albania, e quindi anche del martirio. Credo che il discorso del presidente avesse posto una bella premessa a questo viaggio, ricordando la storia dei rapporti tra l’Albania e la Chiesa e anche ricordando con forza quello che è stato il periodo della persecuzione. Personalmente, sono anche stato grato e colpito del fatto che il presidente abbia voluto ricordare la voce della Radio Vaticana come la voce che giungeva da Roma, portando i messaggi del conforto del Papa agli albanesi perseguitati. E non per niente, anche in passato qui il primo ministro dell’Albania ci ha portato l’onorificenza, che è l’Ordine di Madre Teresa, la più alta onorificenza del Paese, proprio per il servizio svolto in quel tempo dalla Radio Vaticana. Ecco: il martirio e la persecuzione sono, nella storia della Chiesa e nella vita della Chiesa, dei momenti di riferimento assolutamente fondamentali, sono quelli in cui veramente l’amore di Cristo e l’amore per Cristo e l’amore di Cristo per noi si manifesta nel modo più intenso. Non c’è da stupirsi, anzi sarebbe da stupirsi che non fossero i momenti più intensi anche nell’esperienza del Papa durante un viaggio come questo.

D. – Un altro momento intenso, in maniera diversa, è stato quello che è venuto dopo la celebrazione dei Vespri, ovvero l’incontro del Papa con i bambini ospiti in Casa Betania, struttura che accoglie bambini con vari tipi di disagio. E qui, il Papa, nell’abbracciarli, nel parlare ai presenti, ha utilizzato un pensiero che è ricorrente in lui, e cioè che la “bontà non è una debolezza”…

R. – In ogni viaggio del Papa c’è un momento dedicato esplicitamente al tema della carità e dell’impegno della Chiesa nel mondo della carità, dell’assistenza, dei gesti concreti di attenzione per chi è piccolo, per chi è povero, per chi è malato, per chi è in difficoltà. E quindi, la visita al Centro Betania era una parte essenziale di questo itinerario, anche perché effettivamente la Chiesa – in un Paese come l’Albania, come in tanti altri Paesi – dà un contributo sostanziale a queste attività in cui la carità e l’attenzione ai più piccoli si manifesta in modo concreto. E lo fa proprio grazie alla gratuità dell’amore, che è un amore forte, che quindi non fa tanti calcoli ma si dà con generosità e proprio perché, appunto , non dipende da calcoli. Vorrei far notare anche un piccolo riferimento che il Papa ha fatto quasi marginalmente, ma che non era casuale in questo discorso ed è quello al perdono: cioè, l’amore che si manifesta nella carità operativa è anche un amore capace di perdonare e nella società albanese – che ha tantissimi valori e tantissimi pregi che sono stati abbondantemente ricordati ieri –c’è però anche una tradizione, a volte, di vendette locali, di difficoltà di riconciliazione. Anche i nostri missionari, in tanti anni, soprattutto in regioni montagnose o difficili del Paese, hanno lavorato tantissimo per la riconciliazione: riconciliazione tra le famiglie, superamento degli asti tradizionali che inquinano a volte i rapporti tra le persone. E questo riferimento del Papa al superamento di ogni senso di recriminazione legata al passato, a una capacità di perdono e di riconciliazione piena, è un bel messaggio: valeva per gli albanesi, vale – veramente – un po’ per tutti. Quindi, la carità è una carità che va incontro agli ultimi e ai piccoli, ma è anche qualche cosa che ci aiuta ad andare al di là di noi stessi per creare le condizioni di una vera pace, profonda, quotidiana, nei rapporti personali, nei rapporti familiari di cui c’è un estremo bisogno, e di cui c’è bisogno, appunto, anche in Albania, ma ce n’è bisogno dappertutto.

D. – Papa Francesco è tornato in Albania e ha rinnovato un senso di speranza attraverso le sue parole e i suoi gesti. Nel farlo si è inserito nella scia di Giovanni Paolo II, che venne a ricostruire la Chiesa locale dalle macerie, quasi a porre una nuova prima pietra. Da quello che lei ha potuto vedere, che ricordo c’è di Papa Wojtyla tra gli albanesi?

R. –Papa Wojtyla è una persona fondamentale. Diciamo che la figura di Papa Wojtyla non è forse come quella di Madre Teresa, che è albanese lei stessa, ma è a un livello paragonabile perché è stato veramente colui che per primo, dopo il tempo della grande persecuzione – quando il Paese era ancora deserto di speranza e quando molti tendevano a fuggire, ad andare via, a migrare perché non vedevano prospettive nel Paese – ha incominciato a ricostruire concretamente, con la sua presenza, con il suo incoraggiamento, la Chiesa e là ha dato una speranza anche all’intera società albanese. Quindi, Giovanni Paolo II ha un posto fondamentale nella storia della nuova Albania dopo il totalitarismo. Francesco quindi si è messo sulle sue tracce, continuando a portare avanti il Paese che adesso si trova in una situazione profondamente diversa da com’era quando l’ha visitato Giovanni Paolo II, ma con nuove sfide. Sono venute fuori anche queste, le ha indicate bene l’arcivescovo di Tirana nel suo saluto al termine della Messa, ma sono emerse anche dai discorsi del Papa, in particolare da quello ai giovani, all’Angelus: attenzione, non ci sono più le sfide dell’ateismo ideologico comunista del totalitarismo ateo espressamente avversatore di Dio in termini teorici, ma c’è il materialismo con le sue sfide, c’è il consumismo, c’è l’individualismo, ci sono tutte le insidie del materialismo ateo, perché di fatto è ateo, indifferente, porta nuovi idoli…. Ecco, queste sono sfide reali che sono sempre più presenti e che quindi vanno affrontate con decisione. Il viaggio di Francesco proietta appunto un’Albania giovane verso un futuro di inserimento pacifico e costruttivo nell’Europa, ne ha fatto un modello ideale di convivenza tra religioni e confessioni, ma non bisogna dimenticare che ha portato con sé anche il monito dell’attenzione ai rischi del materialismo di oggi.

D. – Nel corso delle ore di ieri, Papa Francesco ha avuto modo di esprimerle qualcosa circa i suoi sentimenti rispetto a quello che stava vivendo?

R. – Non è che abbiamo avuto dei colloqui personali – gli avvenimenti erano così rapidi, uno dopo l’altro, che si passava da uno all’altro, senza interruzioni. Però, il Papa, lo si vede, non è una persona che nasconda i suoi atteggiamenti, le sue reazioni. Quindi, tutti hanno potuto vedere un particolare che vorrei notare: che si è mosso tutta la giornata nell’auto scoperta, attraverso la città di Tirana, e quindi anche le chiacchiere che sono state fatte prima, magari, di preoccupazione, di minacce, di rischi eccetera, si sono manifestate assolutamente infondate nella realtà. Il Papa si è mosso come si muove abitualmente, senza nessun ostacolo e senza nessuna distanza, con tutta la gente che incontrava e che era attorno a lui, e quindi ha vissuto veramente l’incontro con un popolo, anche in questo caso. Questo gli ha fatto piacere. E’ stato un incontro nuovo: non era stato in Albania, ha detto egli stesso di cose che ha scoperto o di cui si è reso conto: il popolo giovane, la convivenza tra le diverse religioni, il ricordo del martirio… Insomma, tante cose belle e importanti che ha scoperto durante questa giornata. Alla sera, certamente, dopo una giornata così intensa, si vedeva che aveva avuto una giornata che non era stata di riposo. Ma la soddisfazione per il servizio compiuto, per tutto quello che aveva ricevuto anche dall’incontro con gli albanesi, era palese e pieno di gioia spirituale.

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Udienze di Papa Francesco

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Nel pomeriggio di sabato 20 settembre, il Papa ha ricevuto in udienza il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Lluís Martínez Sistach, arcivescovo di Barcellona e mons. Alcides Jorge Pedro Casaretto, vescovo emerito di San Isidro (Argentina).

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Al via riunione della Commissione sui media vaticani

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E' iniziata oggi, a Casa Santa Marta in Vaticano, la prima riunione della Commissione sui media vaticani, presieduta da Lord Chris Patten, che si concluderà mercoledì prossimo 24 settembre. Come sottolineato nei giorni scorsi da padre Federico Lombardi, “la riunione sarà dedicata fondamentalmente a fare il quadro della base comune di informazione necessaria per il lavoro dei membri (diversi dei quali sono esterni al mondo vaticano), alla programmazione del lavoro da compiere nei prossimi mesi e al metodo da seguire”.

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Vaticano, plenaria in vista del Congresso eucaristico Cebu 2016

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Un incontro per preparare il prossimo Congresso eucaristico internazionale che si terrà nella città di Cebu, nelle Filippine, dal 24 al 31 gennaio 2016. Con questo obiettivo si radunerà in Vaticano, dal 25 a al 27 settembre prossimi, la Plenaria del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali. A prendervi parte saranno in particolare i membri del Pontificio Comitato, i delegati nazionali, il Comitato locale filippino. I delegati nazionali, nominati dalle rispettive Conferenze episcopali, sono 73 e provengono dai cinque continenti: 18 dall’Africa; 16 dall’America (Nord, Centro e Sud); 10 dall’Asia; 2 dall’Australia e dall’Oceania; 26 dall’Europa.

La località di Cebu, teatro del Congresso eucaristico del 2016, sorge nel cuore delle Filippine, nella regione del Vìsayas Centrale, territorio che fu raggiunto dall’esploratore Ferdinando Magellano nel 1521. Secondo il racconto di Pigafetta, Magellano venne accolto con calore dal re indigeno Humabon che, poco più tardi si convertì al cristianesimo insieme con la regina e i suoi sudditi. Per commemorare l'evento Magellano donò alla regina Juana una statuetta del bambino Gesù (Santo Niño) ed innalzò una croce nel luogo della conversione. Anche oggi la festa del Santo Niño (terza domenica di gennaio), rappresenta l’evento principale della regione.

La scelta di tenere un Congresso eucaristico internazionale a Cebu è stata adottata – spiega una nota ufficiale, con la finalità “di approfondire la devozione all’Eucaristia, rinvigorire l’impegno missionario, avviare le celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della evangelizzazione del Paese (1521-2021)”.

Il tema che guiderà la preparazione e i lavori del Congresso è tratto da un versetto della lettera di Paolo ai Colossesi:  «Cristo in voi, speranza della gloria» (Colossesi 1,27). Il Cristo risorto abita ormai la storia con il suo mistero pasquale e la Chiesa – edificata dall’Eucaristia come sacramento di comunione e di pace – manifesta il progetto di salvezza di Dio attraverso l’annuncio missionario del Vangelo della misericordia. Al centro del Congresso che si terrà a Cebu ci sarà così il rapporto tra l’Eucaristia e la missione: missione evangelizzatrice sviluppata in Asia soprattutto attraverso il dialogo con le culture, con le religioni, con i poveri e con i giovani. Tutto ciò per raggiungere quelle periferie geografiche e quelle marginalità sociali in cui la presenza del Signore Gesù è altrettanto visibile che nella celebrazione dei sacramenti.

Il Congresso Eucaristico del 2016 è il 51° di una lunga serie che, iniziata nel 1881 a Lille in Francia, ha percorso tutto il mondo. Pellegrinando da un continente all’altro, i Congressi Eucaristici hanno segnato la storia moderna della Chiesa universale modellando la fede, il volto, l’impegno sociale e le scelte pubbliche  delle Chiese particolari in cui hanno fatto tappa. Espressione del “magistero itinerante” della Chiesa, hanno accompagnato la crescita del popolo di Dio e preparato, insieme con il movimento liturgico, biblico, teologico ed ecumenico, la nuova stagione del Concilio Vaticano II.

Alla Plenaria presieduta dal Presidente S.E. Mons. Piero Marini, interverranno l’arcivescovo di Dublino S.E. Mons. Diarmuid Martin con una relazione sul Congresso Eucaristico del 2012; il priore di Bose fr. Enzo Bianchi con una conferenza sul tema del Congresso; il Cardinal Luis Antonio Tagle, Arcivescovo di Manila, con una discorso su «L’Eucaristia e l’Evangelizzazione dell’Asia». L’Arcivescovo di Cebu, mons. Jose S. Palma illustrerà il testo base preparato per il Congresso e, con la collaborazione di una rappresentanza del Comitato locale filippino, presenterà ai Delegati  il cammino di preparazione del Congresso.

Sabato 27 infine, dopo la Celebrazione eucaristica nella Basilica Vaticana, i partecipanti alla Plenaria saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Oggi abbiamo toccato i martiri: la visita del Papa in Albania con un editoriale del direttore su Testimonianza e fraternità.

Contro ogni tentativo di marginalizzare le popolazioni autoctone: intervento della Santa Sede a Ginevra.

Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo "Il presidente afghano sa già da dove cominciare".

Non si ferma l'offensiva dell'Is: anche la Russia potrebbe partecipare alla lotta contro i miliziani.

Il Governo e i ribelli sciiti siglano un accordo di pace nello Yemen.

La guerra non è la risposta: all'Angelus il Papa ricorda la visita di sabato a Redipuglia e lancia un appello per la Repubblica Centroafricana.

A Bangui pace difficile: Pierluigi Natalia sull'avvio della missione delle Nazioni Unite.

Dopo lo sdegno: a Parigi la conferenza internazionale per dare concretezza alla coalizione anti-Is.

Sant'Ambrogio nello zaino: Lucio Coco illustra la lezione dei Padri della Chiesa.

Fili riannodati: Francesco Amarelli sul giurista e politico Gabrio Lombardi e la ricerca sulle origini della libertà.

Anticipazione dell'incipit dell'introduzione del libro intervista di Stefano Lorenzetto con lo stampatore Fabio Franceschi "L'Italia che vorrei. Il manifesto civile dell'uomo che fa i libri".

Lente deformante e acuta: nel centenario della nascita, Emilio Ranzato ricorda il regista Pietro Germi.

Ogni creatura ama le sue catene: Marcello Filotei sulla lectio magistralis del cardinale Gianfranco Ravasi alla Sagra Musicale Umbra.

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Oggi in Primo Piano



Nuova offensiva dello Stato islamico nel Kurdistan siriano

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Nuovo delirante messaggio sul web del sedicente Stato Islamico. In un tweet, si esorta a uccidere “i miscredenti in qualunque modo" e “ad attaccare i civili". Parole rivolte soprattutto ai Paesi che sostengono operazioni di Stati Uniti e Francia in Iraq. Intanto, dall'Onu si apprende che almeno 100 mila curdi sono in fuga dalla Siria verso la Turchia proprio sotto la minaccia dell'Is, che ha cinto d’assedio la città di Kobane e ha messo a ferro e fuoco 60 villaggi della regione curda. Sui motivi dell’offensiva dei jihadisti, Giancarlo La Vella ha intervistato Domenico Chirico, direttore di “Un ponte per…”, rientrato da poco dalla zona: 

R. – E’ un’area a maggioranza curda, ma ci sono anche moltissimi cristiani. Nell’area del nord della Siria, infatti, ci sono molti cristiani che avevano avviato un’esperienza di convivenza anche con i curdi siriani, creando un’area autonoma. L’attacco dell’Is è una conseguenza dell’offensiva in Iraq. I jihadisti si stanno concentrando, cioè, molto di più in questi giorni sulla Siria, perché sono alle strette in Iraq, dove l’offensiva internazionale sta puntando a farli uscire dal Paese. Peraltro, va detto che l’area di Kobane, da cui pare siano fuggite 130 mila persone nelle ultime ore, è a 100 km da Raqqa, quartier generale dei miliziani, ed è strategico per l’Is conquistarla.

D. – La Turchia stessa sembra stia trovandosi in difficoltà di fronte all’arrivo di questa ondata imponente di profughi...

R. – Nelle aree curde della Siria, c’erano già tantissime persone sfollate da altre aree. Già era quindi una situazione di estrema fragilità. Queste persone hanno cercato di andare ora verso la Turchia e Ankara ha aperto inizialmente le frontiere, ma poi le ha richiuse. E c’è l’Iraq, l’altra area dove potrebbero in teoria fuggire, ma anche lì le frontiere sono chiuse. Queste persone quindi sono in trappola. E’ una situazione pazzesca e non si capisce bene se ci sia la possibilità di aiutarle, anche perché va detto che l’area nord della Siria è una zona difficilissima da raggiungere, anche per gli aiuti umanitari, ed è stata anche un’area molto negletta, in termini di interventi.

D. – Questa volta, tra l’altro, si fugge non solo per andare a trovare situazioni migliori rispetto ai luoghi di partenza, ma forse anche per salvare la vita, dato che le offensive dello Stato islamico si rivolgono spesso anche contro i civili...

R. – Quello che noi abbiamo visto ad agosto in Iraq è stato terribile, nel senso che i metodi dell’Is sono medievali: sono quelli dell’assedio, del togliere l’acqua, la luce, del rapire donne e bambini. In alcune comunità cristiane, dove lavoriamo da tempo, hanno rapito anche giovanissimi senza una reale ragione, se non quella del terrore, cioè terrorizzare le persone e la popolazione: insomma la crudeltà, proprio, come strumento scientifico di guerra. I profughi fanno fatica a tornare, anche quando questi luoghi vengono progressivamente liberati. Il trauma, infatti, è enorme di fronte ad un nemico di una forza oscura.

D. – E’ immaginabile una via d’uscita da questa situazione?

R. – Sarà necessario nel domani lavorare, come è stato 20 anni fa in Bosnia, con alterni successi, sulla convivenza. Molto spesso, infatti, questo nemico crudele non è una forza venuta dall’esterno, ma può essere anche la persona del villaggio vicino, che è semplicemente di un’altra religione. Quindi c’è paura, soprattutto tra gli appartenenti alle minoranze cristiane e yazide, che dicono: io come faccio domani a tornare nel mio villaggio, quando le persone del villaggio vicino sono state i miei aguzzini?

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Sei mesi fa la comparsa di Ebola. L'impegno di Medici Senza Frontiere

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Sono trascorsi sei mesi dall’inizio dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale, la più grave mai registrata. A ricordarlo è Medici Senza Frontiere (Msf) che dal 22 marzo, quando il virus ha fatto la propria comparsa nella foresta pluviale della Guinea, è in prima linea nei soccorsi alle popolazioni colpite appunto in Guinea, ma anche in Liberia, Sierra Leone, Nigeria e Senegal. Oltre 2.600 le vittime finora. Nei Paesi interessati dall’emergenza “non esiste una zona che non sia a rischio”, spiegano gli operatori di Msf. L’organizzazione ora lancia la campagna #STOP EBOLA, fino al 4 ottobre, per sensibilizzare e raccogliere fondi a favore della lotta contro la malattia. Giada Aquilino ha raccolto la testimonianza di Roberta Petrucci, pediatra di Msf, appena rientrata da Foya, nel nord della Liberia: 

R. – Per Ebola, la situazione è veramente catastrofica. Interi villaggi sono stati colpiti, con metà della popolazione deceduta a causa del virus. Quindi la paura nella popolazione è palpabile. L’accesso alle cure è estremamente limitato o quasi nullo: quando siamo arrivati a Foya era presente un Centro di trattamento per l’Ebola di 10 posti letto, che nel giro di pochissimo è esploso e ci siamo ritrovati con 140 pazienti, anche nella necessità di chiudere gli accessi. Vanno considerate poi altre patologie che sono normalmente presenti nella comunità: anche in questi casi l’accesso alle cure è difficile, perché buona parte dei Centri di salute degli ospedali sono chiusi, non sono più funzionanti. Parliamo di patologie come malaria, infezioni batteriche, polmoniti, infezioni respiratorie, gastroenteriti; ma anche per un ‘banale’ parto, la donna che deve dare alla luce il proprio bambino non ha più accesso a un parto sicuro all’interno della struttura sanitaria.

D. – Cosa rappresenta un paziente infetto per l’emergenza?

R. – Ogni paziente infetto rappresenta un rischio per la sua famiglia e per la sua comunità. La contagiosità del paziente dipende molto da quanto la comunità conosce la malattia, perché in realtà la modalità per proteggersi c’è ed è anche relativamente semplice. Per esempio, nel progetto al quale ho lavorato io, ogni paziente entrava in contatto con circa 8-10 persone della propria comunità. Facendo educazione, abbiamo visto che alla fine ogni paziente era a contatto con due-tre persone, cioè i familiari più prossimi che se ne prendevano cura, e gli altri avevano capito che bisognava mantenere una certa distanza. Quindi, questo lavoro di educazione è possibile e può avere un impatto fondamentale.

D. – Per la prevenzione cosa consigliate?

R. – E’ un lavoro capillare che viene fatto all’interno delle comunità, che si svolge su diversi livelli. Innanzi tutto, il sistema di allerta: quindi un numero di telefono che la comunità può chiamare nel caso ci sia un paziente sintomatico, con la possibilità che un’ambulanza vada a prenderlo e lo trasporti al Centro medico in maniera sicura. Poi cercare di isolare il più possibile questo paziente all’interno della propria abitazione, quindi limitare i contatti, lavare le mani, lavare gli oggetti della persona con - se è possibile - acqua clorinata, ma anche acqua e sapone sono sufficienti. Infine l’altro aspetto fondamentale è la gestione delle cerimonie dei funerali, perché queste rappresentano un grosso momento di trasmissione dell’infezione: spesso c’è la tradizione di toccare il corpo del defunto e questo è un grosso rischio di contagio.

D. – La Liberia è uno dei Paesi in cui è morto il maggior numero di operatori sanitari. Perché?

R. – In generale, la Liberia è il Paese in cui ci sono stati, in assoluto, il più alto numero di casi e il più alto numero di decessi. E’ ovvio che in generale gli operatori sanitari sono ad alto rischio perché sono i primi che vedono i pazienti che accedono ai Centri di salute, sperando di potere avere accesso alle cure. Quindi nel momento in cui anche gli operatori sanitari non sono preparati ad affrontare l’infezione, perché - appunto - si tratta di un’infezione che non era presente nel Paese, non la riconoscono e non sanno come proteggersi o sanno come proteggersi ma non hanno gli strumenti: sono la parte della popolazione più a rischio.

D. – Ogni guarigione, lei ha detto, “è una festa”. C’è un episodio particolare, come pediatra, che porta con sé?

R. – Sì. Purtroppo, l’Ebola è una malattia che non risparmia nessuno; quindi, abbiamo ricoverato anche diversi bambini. Sicuramente, la parte più difficile riguarda i più piccoli perché spesso entrano con la loro mamma, da cui nella maggior parte dei casi hanno preso l’infezione, e capita a volte che la mamma non ce la faccia a sopravvivere e il bambino sì. Quindi ci ritroviamo con bambini di pochi mesi che rimangono da soli all’interno del Centro sanitario. Ricordo il caso di un bimbo di tre mesi, Elijah, la cui mamma purtroppo non ce l’ha fatta: noi eravamo molto preoccupati perché era rimasto da solo e non sapevamo come prendercene cura. Per fortuna, c’era una signora che era in fase di convalescenza, quindi che stava sostanzialmente bene, a cui abbiamo chiesto di occuparsi del bimbo. E in effetti, lei è diventata la mamma adottiva di Elijah. Sono felicemente usciti assieme quando entrambi sono guariti e poi Elijah è tornato alla sua famiglia.

 

La diffusione dell’epidemia di Ebola purtroppo “procede molto più rapidamente degli sforzi internazionali per contenerla”, ha detto Loris De Filippi, presidente di Msf Italia. Giada Aquilino l’ha intervistato: 

R. – La situazione è veramente drammatica. Ha toccato finora 5 mila casi; i tre Paesi più colpiti sono sicuramente Liberia, Guinea e Sierra Leone. Sono passati sei mesi, ma l’intervento internazionale rimane scarso e insufficiente.

D. – Da subito, Medici Senza Frontiere ha dichiarato che la portata dell’epidemia era senza precedenti. Cosa è mancato nei sistemi di risposta al virus?

R. – E’ un’epidemia senza precedenti, quindi molto probabilmente i Paesi non erano pronti a fronteggiarla. Però, quello che è mancato è stato un intervento internazionale rapido. Per esempio: noi abbiamo messo in piedi cinque Centri globali della gestione di Ebola nei tre Paesi più colpiti; questi dovrebbero moltiplicarsi. Noi non siamo in grado di farlo, perché siamo allo stremo delle forze: abbiamo 2.400 persone impiegate sul terreno. Quello che chiediamo agli Stati, appunto, è di aumentare le loro capacità di risposta, soprattutto concentrandosi sulla cura e sul controllo dell’epidemia.

D. – Perché poi, di fatto, si è diffusa così tanto?

R. – Prima di tutto perché l’Africa, esattamente come noi, vive una sua globalità. Le persone si muovono all’interno di un contesto e in particolare in questo contesto, in cui per molti anni ci sono state delle guerre; adesso da dieci anni non ce ne sono più, ma ci sono profughi: liberiani in Guinea, sierraleonesi in Liberia e in Guinea… E, soprattutto, la mancanza di protezione e di informazione nei primi mesi dell’epidemia ha provocato questa facilità di diffusione.

D. – C’è il rischio che proprio questi Paesi tornino in una situazione di guerra, di conflitto o comunque di emergenza anche dal punto di vista politico?

R. – Sicuramente. Basti pensare che Paesi come la Liberia stanno collassando non solo dal punto di vista dei Centri per l’Ebola e dell’incapacità di gestire questa situazione, ma anche i Centri sanitari non funzionano più: parti dello Stato entrano in crisi perché tutto il sistema entra in crisi.

D. – L’impegno di Medici Senza Frontiere nei vari Paesi e la campagna appena lanciata …

R. – Lavoriamo nei nostri Centri, abbiamo la capacità di prendere in carico pazienti per circa 540 posti letto; va ricordato che noi non siamo in grado di dare risposte a tutti: per la prima volta, dobbiamo mandare a casa i pazienti, sapendo che sono malati e potenzialmente potrebbero infettarne altri. Il nostro impegno continuerà, ovviamente; quello che chiediamo oggi con la nostra campagna è di essere aiutati: chiediamo al governo italiano e a tutti i governi, per esempio, di poter partecipare attivamente, non tanto aspettando qui le eventuali persone che tornino magari con il problema, ma andando là, nell’Africa Occidentale, a portare un sostegno fattivo. E, soprattutto, quello che chiediamo agli italiani è che ci aiutino, inviando al numero 45507 un sms solidale per dare un contributo fattivo, chiaro per combattere una patologia come quella dell’Ebola.

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Ad Hong Kong proteste per chiedere maggiore democrazia

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A Hong Kong è iniziata oggi una settimana di proteste da parte di studenti e insegnanti, che chiedono maggiore democrazia nell’ex colonia britannica. Il prossimo primo ottobre è prevista inoltre una protesta promossa dal movimento autonomista “Occupy Central”. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Gli abitanti di Hong Hong, nelle prossime elezioni del 2017, potranno eleggere direttamente il loro governatore. Ma i candidati saranno nominati da un comitato del Congresso nazionale cinese. Questa decisione ha innescato la nuova protesta: gli studenti di 24 istituti, tra università e scuole superiori, diserteranno le lezioni. Oltre 100 insegnanti hanno accettato di tenere i corsi nelle piazze e nei parchi. Dalla Cina, ultimamente, sono comunque arrivate delle concessioni, come sottolinea Francesco Sisci, corrispondete del quotidiano “Il Sole 24 Ore” a Pechino:

“Queste elezioni, comunque limitate, sono già una concessione rispetto al passato. In passato, il governo aveva proposto delle elezioni indirette. Queste saranno elezioni dirette, a suffragio universale, anche se i candidati saranno scrutinati prima. Il governo di Pechino ha poi annunciato che, dopo le elezioni del 2017, le riforme politiche ad Hong Kong andranno avanti”.

Ma quale sarà la reazione del governo di Pechino alle proteste ad Hong Kong?

“Pechino, finora, ha reagito in maniera molto composta alle proteste di Hong Kong. Bisogna però vedere come si sviluppano queste proteste. Date le ultime concessioni di Pechino, il movimento democratico di Hong Kong si è diviso e ha fatto passi indietro. Adesso, il movimento riparte e bisogna vedere però come andrà avanti. Non è detto che abbia un successo di massa. Seppure Hong Kong voglia, in qualche modo giustamente, maggiore democrazia, d’altra parte non è pensabile ragionevolmente che Hong Kong diventi il punto di leva di sovversione dell’intera Cina. Gli stessi cittadini di Hong Kong sanno che in tal modo il benessere e la vita politica, sociale e, soprattutto economica, di Hong Kong sarebbero molto a rischio. Si svincolerebbero dal resto della Cina”.

Il territorio di Hong Kong, dal 1997 sotto la sovranità cinese ma con uno statuto di Regione amministrativa speciale, è stato a lungo considerato, quando era una colonia britannica, un centro commerciale strategico e un punto di incontro tra Oriente e Occidente. Oggi, il ruolo di Hong Kong è profondamente mutato. Ancora Francesco Sisci:

“Hong Kong, prima di ritornare alla Cina, era la 'porta' della Cina. Oggi, naturalmente, non è più così: il passato ruolo di Hong Kong è finito, adesso si tratta di trovarne un altro, cosa non semplicissima. Per mille motivi, ci sono tante città - come Shanghai, Shenzhen e Canton - che possono essere come, e meglio, di Hong Kong. Questo è parte del problema”.

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Tratta. Consiglio d'Europa boccia l'Italia: poca attenzione

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In Italia c'è "insufficiente attenzione" alla tratta di esseri umani. La denuncia arriva dal Consiglio d’Europa secondo cui il fenomeno non è adeguatamente monitorato. L’organizzazione europea per la difesa dei diritti umani inoltre punta il dito contro la lentezza della giustizia italiana: sono migliaia infatti i mercanti di schiavi andati sotto processo tra il 2009 e il 2011, ma le condanne sono state solo 14 nel 2010 e 9 nel 2011. Il servizio è di Paolo Ondarza

Tratta di esseri umani. Il Consiglio d’Europa boccia l’Italia. Tra il 2011 e il 2013, sono state assistite 4.530 persone, ma  si tratta solo della punta di un iceberg. I dati infatti non rivelano la vera ampiezza del fenomeno del commercio di nuovi schiavi che Papa Francesco non ha esitato a definire “una piaga, nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo”, “un delitto contro l’umanità”. In Italia mancano meccanismi adeguati ad individuare le vittime così come manca un piano d’azione nazionale. Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale dell’associazione Comunità Giovanni XXIII

“Bisogna veramente fare un piano organico anti-tratta, che noi abbiamo chiesto già da diverso tempo con urgenza ai precedenti governi e adesso al governo Renzi.”

I mercanti della tratta restano impuniti e questo preoccupa il Consiglio d’Europa. Solo 14 le condanne nel 2010, a fronte di migliaia di processi in corso tra il 2009 e il 2012, colpa della lentezza della giustizia. Carente la cooperazione giudiziaria con i Paesi di provenienza della tratta, al di fuori dell'Unione Europea:

“Tutto questo è molto vero. Noi, addirittura quando ancora era presente don Benzi, che camminava sulle strade d’Italia, avevamo attuato proprio delle denunce molto forti, al punto che lui aveva ricevuto minacce di morte, proprio contro questi mercanti. Noi ci teniamo a dire, però, che il vero problema è la domanda: i clienti. I clienti devono sapere, e di conseguenza i legislatori, che la Costituzione non va modificata. Non è un problema sanitario, per cui bisogna dare delle prestazioni attraverso la distribuzione di preservativi per la riduzione del danno: la prostituzione va abolita, va proibita, perché è contro la dignità della donna. Allora è un grande lavoro, anche educativo, quello che va fatto nei confronti dei clienti: questa è anche la visione antropologica cristiana. Noi dobbiamo educare le persone a un uso adeguato della sessualità, va ridotta la domanda. E sono stati proprio i Paesi nordici, tra l’altro laici, che hanno recepito, anche nelle loro normative, questa estrema fermezza nei confronti dei clienti. Il vero problema, infatti, è ridurre la domanda”.

Non è quindi legalizzando la prostituzione che può essere risolto il problema della tratta di tante donne sfruttate sessualmente:

“Proprio i bordelli olandesi e tedeschi legalizzati ci fanno dire che non viene assolutamente risolto il problema. Anzi, proprio queste legislazioni, questi Paesi stanno facendo una seria riflessione. La regolamentazione, infatti, è uno schiaffo alla dignità della donna e poi non risolve il problema”.

Per il Consiglio d’Europa, infine, in Italia si presta scarsa attenzione alle tratte che non hanno come scopo lo sfruttamento sessuale: il caporalato agricolo, le badanti, i minori avviati all’accattonaggo. Anche per queste situazioni si chiede con urgenza maggiore attenzione.

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Ad Artelibro di Bologna anche il libro “più bello del mondo”

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Parole scritte e dipinte che diventano capolavori. Di questo si occupa “Artelibro”, il Festival del Libro e della Storia dell’Arte in scena in questi giorni a Bologna. Conferenze, esposizioni e dibatti raccontano quest’anno “L’Italia terra di tesori” per riscoprire meraviglie artistiche e culturali del Belpaese. Una mostra all’Archiginnasio cittadino propone tre gioielli librari di inestimabile valore artistico e culturale. Luca Tentori ha visitato per noi l’esposizione aperta al pubblico fino al 25 settembre: 

“E’ come parlare davanti alla Gioconda di Leonardo portata fuori dal Louvre”. Azzarda, a ragione, questo esempio Ricardo Franco Levi, presidente di Artelibro, presentando al pubblico il pezzo forte della mostra “La Scrittura splendente”, aperta ieri mattina nella Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio di Bologna. Si tratta della famosa “Bibbia di Bolso d’Este”, di proprietà della Biblioteca estense di Modena e definito da molti critici e storici dell’arte “il libro più bello del mondo”:

“E’ un codice della fine del XV secolo prodotto per essere già allora una meraviglia. E’ un’occasione eccezionale poterlo vedere perché uscì dalla biblioteca estense soltanto due volte nella propria storia: una volta per tornare a casa a Ferrara e una volta in occasione della visita del Pontefice a Modena”.

E l’opera brilla veramente di luce propria, capolavoro assoluto della miniatura rinascimentale realizzato da grandi artisti dell’epoca che dipinsero ogni carta del manoscritto creando una eccezionale galleria d’arte biblica senza pari tra le opere coeve e anche successive. A completare la mostra anche la cosiddetta “Bibbia di Marco Polo”, un piccolo libricino del 1200 che i missionari francescani portarono in Cina per diffondere il Vangelo. E poi “La Vita Christi” di Rodolfo di Sassonia, di proprietà della Biblioteca dell’Archiginnasio:

“La Bibbia è il libro per eccellenza, purtroppo oggi non letto troppo in Italia. Sarebbe bene che tutti ricominciassero a leggerlo. E’ stato una pietra miliare sempre nella storia dell’editoria, del libro, dell’arte. Siamo in un momento di crisi economica, questo lo sappiamo, e tutti i libri ne soffrono. Ma tra i settori del libro non in crisi ne spiccano due: i libri per i bambini - ed è una grande consolazione - e l’esportazione dei testi che riproducono grandi codici e grandi capolavori”.

Accanto agli originali, un grande tavolo interattivo multi-touch prodotto da Franco Cosimo Panini consente di navigare digitalmente i preziosi volumi. La Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna ha messo a disposizione invece una serie di pannelli didattici sulla “Bibbia di Marco Polo”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Filippine: “Misericordia e compassione” tema della visita del Papa

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Il tema che segnerà la visita di Papa Francesco nelle Filippine - dal 15 al 19 gennaio 2015 prossimi - è “Misericordia e compassione”: lo annuncia, in una nota inviata all’agenzia Fides, la Conferenza episcopale delle Filippine. La Chiesa filippina ha lanciato anche un sito web (www.papalvisit.ph) dedicato interamente all’evento, che contiene tutte le informazioni necessarie e seguirà in tutti gli aspetti la visita del Papa.

“Con la presenza del Papa, il Dio di misericordia e compassione si fa vicino a noi” afferma in un messaggio inviato a Fides, mons. Mylo Vergara, vescovo di Pasig e presidente della Commissione episcopale per le Comunicazione sociali e i mass media. “Questa è una grande benedizione per la Chiesa filippina. La visita di Papa Francesco può essere considerata una visita di Dio al popolo filippino, bisognoso della Sua misericordia e compassione”.

I vescovi esortano i fedeli a prepararsi attraverso le stesse parole di Francesco, e a farsi apostoli attraverso i mass media: “Cerchiamo di rendere nostri messaggi, citazioni, esortazioni apostoliche di Papa Francesco sul tema della misericordia e della compassione. Attraverso i social media – aggiunge mons. Vergara – possiamo raccogliere e condividerli con gli altri”. In secondo luogo, si invitano i fedeli a “utilizzare quanto raccogliamo e riceviamo sull'insegnamento di Papa Francesco come materia di riflessione, preghiera e azione”.

In tal modo “i mass media e i social network – conclude il vescovo – possono diventare un potente strumento per farci praticare opere di misericordia come visitare i prigionieri, i malati e gli anziani, mostrando compassione soprattutto verso i più poveri”. (P.A.)

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Leader religiosi all'Onu: azioni concrete per il clima

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30 leader religiosi in rappresentanza di 9 religioni hanno unito la loro voce alle migliaia di persone in marcia a New York ed hanno firmato una dichiarazione comune per chiedere agli Stati e ai governi del mondo una serie di azioni concrete per ridurre gli effetti del riscaldamento climatico sul Pianeta.

La dichiarazione - riferisce l'agenzia Sir - è stata al centro di un convegno interreligioso (“Interfaith summit on climate change”) che su iniziativa congiunta del Consiglio Mondiale delle Chiese (Wcc) e Religion for peace, che si è conclusa ieri a New York. Sarà consegnata al vice-segretario generale delle Nazioni Unite, Jan Eliasson, prima del vertice Onu sul clima che si aprirà domani. A firmare il documento ci sono anche i cardinali Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, di Caritas Internationalis e John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria.

“Siamo consapevoli - scrivono i leader religiosi - che il cambiamento climatico si presenta oggi come uno dei principali ostacoli allo sradicamento della povertà. Eventi atmosferici gravi aggravano la fame, provocano insicurezza economica, emigrazione forzata e impediscono uno sviluppo sostenibile. La crisi climatica prova la sopravvivenza dell‘umanità sul pianeta Terra, e questi fatti devono con urgenza riflettersi in azioni”.

“Come persone di fede, chiediamo a tutti i governi di esprimere il loro impegno a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto i 2° Celsius. Sottolineiamo che tutti gli Stati condividono la responsabilità di formulare e attuare strategie di sviluppo a basso carbonio così da giungere alla de-carbonizzazione e alla completa eliminazione dei combustibili fossili entro la metà del secolo”. (R.P.)

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Siria: l'Is distrugge chiesa-memoriale dell'eccidio armeno a Deir el-Zor

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I jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is) hanno distrutto una chiesa armena a Deir el Zor, la città a maggioranza curda da loro conquistata negli ultimi giorni. La notizia, diffusa da testimoni locali, è stata confermata dal Ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian, che ha condannato come “orribile barbarie” la distruzione della chiesa dove erano custoditi i resti delle vittime dell'eccidio armeno.

La chiesa - riferisce l'agenzia Sir - era stata consacrata nel 1991 come memoriale dell'eccidio e comprendeva nella propria area anche un museo con i resti delle vittime dei massacri subiti un secolo fa dagli armeni in territorio ottomano, che avevano registrato una particolare concentrazione proprio nell'area desertica intorno a Deir el-Zor.

Nel governatorato di Deir el- Zor i jihadisti dell'Is lo scorso agosto hanno ucciso centinaia di appartenenti a clan tribali locali e nei mesi scorsi hanno combattuto anche con i miliziani islamisti della concorrente fazione al-Nusra per assicurarsi il controllo dell'area, ricca di petrolio. (R.P.)

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Terra Santa: la qualifica “arameo” punta a dividere i cristiani

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La decisione del Ministero degli Interni israeliano di consentire l'aggiunta della qualificazione “arameo” a quella di “cristiano”, per sostituire il termine “arabo” nelle carte di identità dei cristiani palestinesi cittadini d'Israele, viene denunciata come “un tentativo di separare i cristiani palestinesi dagli altri palestinesi” dai vescovi cattolici di Terra Santa, che in un documento emesso dalla Commissione Giustizia e Pace del Consiglio dell'episcopato cattolico, denunciano come pretestuose e ideologiche le motivazioni delle misure prese in tale direzione dal governo d'Israele.

Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, lo scorso 16 settembre il ministro degli Interni israeliano ha firmato un provvedimento per riconoscere l'identità “aramea” come identità nazionale distinta, da aggiungere nel registro delle nazionalità presenti nel Paese. La decisione è stata presa esplicitamente per permettere a 200 famiglie cristiane di identificarsi come appartenenti all'antica nazionalità, e così registrarsi come “aramei” piuttosto che come arabi nei documenti di identità.

Nel documento redatto lo stesso 16 settembre dalla Commissione Giustizia e Pace dei vescovi cattolici di Terra Santa, si denuncia come operazione artificiale e politicamente orientata quella che spinge a recuperare nel passato remoto dei popoli del Medio Oriente una identità nazionale separata, da attribuire ai cristiani presenti in Israele: “La lingua aramaica - si legge nel documento, pervenuto all'agenzia Fides - è stata la lingua degli ebrei per secoli. Questo fino alla reintroduzione dell’ebraico, solamente alla fine del 19esimo secolo. Gli arabi, nei Paesi del Levante, hanno parlato attraverso la storia e nei secoli, l’aramaico, il greco e l’arabo fino alla diffusione definitiva dell’arabo.

Oggi in Israele siamo palestinesi arabi. Se questo tentativo di separare i cristiani palestinesi dagli altri palestinesi ha come scopo quello di difendere i cristiani o proteggerli, come affermano alcune autorità israeliane - e il comunicato si rivolge al governo israeliano - noi dichiariamo: restituiteci come prima cosa le nostre case, le nostre terre e i nostri villaggi che avete confiscato. Seconda cosa: la migliore protezione per noi sarà di lasciarci con il nostro popolo. Terza: la migliore protezione per noi è che voi entriate seriamente sulla via della pace”.

Il pronunciamento episcopale contiene anche un appello ad “alcuni cristiani palestinesi in Israele che sostengono questa idea”, e sono pronti a rivendicare la propria identità nazionale “aramea” per congedarsi dalla propria arabità e poter così vedere garantito il proprio accesso al servizio militare nell'esercito israeliano: “non è possibile” si legge nel documento “che facciate del male al vostro popolo per soddisfare i vostri interessi personali del momento. Con questa inclinazione, non fate del bene né a voi stessi né a Israele. Israele ha bisogno di cristiani a cui il Cristo ha detto: 'Beati gli operatori di pace' e non beato chi sfigura la propria identità”. (R.P.)

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Usa-immigrazione: in attesa della riforma, famiglie di migranti divise

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Il vescovo della diocesi statunitense di Laredo in Texas, mons. James Anthony Tamayo, si è lamentato che la prevista riforma dell'immigrazione non è ancora arrivata e le autorità federali continuano quindi a separare molte famiglie per mancanza di documenti. La nota inviata all’agenzia Fides da una fonte locale riporta le parole del vescovo: "A Laredo continuiamo ad aiutare le famiglie di centroamericani che arrivano per cercare di ricongiungersi con i loro parenti negli Stati Uniti. Forse non tutti sanno che la migrazione si è ridotta in modo significativo e ora arrivano solo da 5 a 10 famiglie al giorno e non come prima che erano oltre 100 al giorno".

Mons. Tamayo ha improvvisato una conferenza stampa ieri, dopo la Messa domenicale, informando che questi migranti vengono assistiti procurando loro cibo, vestiti e un posto dove lavarsi e poter cercare di contattare le loro famiglie negli Stati Uniti. Ha aggiunto che si sta lavorando con il governo americano e con le altre Chiese per cercare di trovare una soluzione definitiva al problema dell'immigrazione clandestina.

"Noi, come Chiesa, dobbiamo rispondere a questa situazione di emergenza e cercare di aiutare il prossimo, ma ciò richiede anche un cambiamento nelle leggi degli Stati Uniti, perché la riunificazione delle famiglie non diventi una cosa lunga - ha detto mons. Tamayo -. Attualmente le famiglie hanno bisogno di circa 10 anni per poter rispondere ai requisiti richiesti e finalmente riunirsi, e sappiamo che i requisiti di ammissibilità sono troppo rigidi. La soluzione più pratica che vediamo è l'adozione di una riforma dell'immigrazione; questo Paese ha bisogno di molti lavoratori nella campagna, negli alberghi e ristoranti, nella costruzione edile e queste persone vogliono solo lavorare".

Il 27 giugno 2013 il Senato ha approvato il disegno di legge S. 744 che prevede la cittadinanza per gli immigrati privi di documenti arrivati negli Stati Uniti prima del 31 dicembre 2011 e che non hanno precedenti penali. Tuttavia, a causa dei disaccordi tra Democratici e Repubblicani, la Camera non ha ancora fissato una data per la sua discussione in vista dell’approvazione definitiva. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 265

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.