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Sommario del 13/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa a Redipuglia: la guerra è follia, affaristi delle armi come Caino

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“La guerra è follia”: dal Sacrario di Redipuglia, in provincia di Gorizia, nel centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, il Papa chiede all’umanità la conversione del cuore, perché oggi si sta combattendo una terza grande guerra, “con crimini, massacri, distruzioni”. Nella Messa celebrata sotto la pioggia davanti ad almeno 15 mila persone, ha pregato per i caduti di tutte le guerre. 320 concelebranti, 60 vescovi, di cui 13 ordinari militari. La liturgia è stata animata dai seminaristi dell’Ordinariato militare e del Friuli. Presenti delegazioni provenienti da Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Austria e Croazia, oltre ad una decina di rappresentanti della comunità islamica in Italia. Ascoltiamo le parole del Papa nel servizio del nostro inviato Luca Collodi

“… la guerra è una follia. Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione…”.

La guerra è una follia. Dal Sacrario di Redipuglia in Friuli Venezia Giulia dove riposano 100 mila vittime della Prima Guerra mondiale, il Papa chiede all’umanità la conversione dei cuori davanti alla violenza dell’uomo. E davanti al cuore corrotto dell’uomo l’umanità deve riconoscere gli errori, chiedere perdono e piangere:

“La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere… sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto. L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: ‘A me che importa del mio fratello?’: a me che importa … . «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà… ‘A me che importa?’.”

Atterrato sotto la pioggia all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, Francesco si è recato, come primo atto di pace, a pregare al cimitero di Fogliano, che ospita oltre 14 mila caduti austro-ungarici, molti ancora senza nome, raccolti dai vari cimiteri di guerra, dismessi, della zona. E nell'omelia al Sacrario il Papa ha detto:

“Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? E’ possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: ‘A me che importa?’. (…) gli affaristi della guerra, forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere. (…) Caino non ha pianto. Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto”.

Al termine della Messa il Papa ha donato ai 13 ordinari militari presenti la lampada francescana della pace, alimentata dall’olio offerto dall’associazione Libera di don Ciotti, prodotto sui terreni confiscati alla mafia. All’offertorio è stato donato al Papa il cappello piumato del bersagliere Giuseppe La Rosa, ultima vittima italiana in Afghanistan. Al termine della Messa, il capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Binelli Mantelli, ha infine consegnato al Papa il foglio matricolare del nonno Giovanni Bergoglio, bersagliere, soldato sul Piave della Prima Guerra Mondiale.

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Benedetto XV contro l'inutile strage. Giovagnoli: Papa profetico

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Benedetto XV, eletto Papa poco dopo l'inizio della Prima Guerra Mondiale, cercò in tutti i modi di fermare il conflitto. Celebre il suo appello del primo agosto 1917, quando definì la guerra come “inutile strage”. Per questo fortissimo impegno per la pace fu molto osteggiato. Luca Collodi ne ha chiesto il motivo allo storico Agostino Giovagnoli, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: 

R. – E’ stato osteggiato perché la sua presa di posizione, nei confronti della guerra e della famosa definizione della “guerra come inutile strage”, ha urtato tutte le cancellerie europee, tutti i governi europei, perché metteva in evidenza l’assurdità della guerra e quindi le responsabilità di tutti gli Stati; e questo ha provocato, contemporaneamente, la reazione negativa di tutti coloro che invece avrebbero voluto tirare il Papa dalla propria parte e invece si sono ritrovati sul banco degli accusati.

D. – Da sottolineare la nota, la famosa nota ai capi dei popoli belligeranti, del primo agosto 1917, dove il Papa non si limitava a un appello generico alla pace ma dava anche proposte concrete ai belligeranti...

R. – Esatto e questo è certamente un elemento che ha urtato i belligeranti. In realtà, questa sua imparzialità, questo suo invito alla pace, è stato di volta in volta sgradito agli uni e agli altri, e alla fine un po’ a tutti. Ma, rimane, invece, validissimo il ruolo che il Papa ha svolto, cioè di essere una voce super partes - quindi con il rischio di essere sgradita, appunto, alle parti – ma proprio perché super partes credibile nel proporre la pace e anche nell’indicare vie concrete attraverso cui raggiungerla.

D. – Benedetto XV può essere definito il Papa “sconosciuto” del ‘900?

R. – E’ stato meno conosciuto di altri, meno valorizzato di altri e questo ci spinge a riconsiderare con attenzione la sua figura che, credo, sia stata appiattita un po’ troppo sul ruolo del diplomatico. In realtà, invece, è stato anche un Papa “profetico” proprio in questa sua nettezza, che non ha riguardato solo gli appelli pubblici per via diplomatica e governi, ma anche tanti atteggiamenti concreti attraverso cui lui ha evitato che la Chiesa – diciamo anche la religione cristiana, più in generale – venisse coinvolta in una guerra che non ha risparmiato mezzi e che quindi ha cercato anche di usare la religione a fini di guerra, di propaganda e di mobilitazione. Lui, nei fatti, è stato il primo Papa che ha rotto con la tradizione della guerra giusta, proprio perché ha intuito che la guerra moderna, la guerra mondiale, globale è una guerra in se stessa, intrinsecamente, sbagliata, qualunque siano i motivi: perché i mezzi sono tali da rendere drammatiche, terribili le conseguenze. Benedetto XV non ha teorizzato la fine della guerra giusta, ma l’ha nei fatti superata e questo resta un elemento di grande interesse, perché da lui parte poi una riflessione concreta: penso anche a figure importanti del cattolicesimo italiano che vanno da don Luigi Sturzo a don Primo Mazzolari - che erano dentro la logica della guerra giusta, durante la Prima Guerra Mondiale – ma, proprio davanti all’esempio del Papa, hanno cominciato una riflessione estremamente interessante che li ha portati entrambi ad assumere posizioni in difesa della pace, motivate proprio da ragioni cristiane, dai motivi della fede.

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Chiesa e cattolici davanti alla Prima Guerra Mondiale

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In occasione del visita del Papa al Sacrario militare di Redipuglia, si è riaperto il diabattito sul ruolo dei cattolici nella Prima Guerra Mondiale. Le Chiese cristiane e i cattolici dei diversi Paesi europei si trovarono su fronti opposti, nonostante i ripetuti tentativi di evitarlo da parte di due Papi, Pio X e Benedetto XV. Pietro Cocco ne ha parlato con lo storico Daniele Menozzi, professore ordinario di storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa: 

R. – Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, la scena politica era stata dominata dall’esplosione dei nazionalismi e i cattolici che - in seguito al divenire dei processi di unificazione sotto l’insegna del liberalismo - erano stati spesso esclusi dal potere politico, videro nella guerra un’occasione attraverso la quale era possibile cercare di riconquistare quel ruolo da cui erano stati allontanati. Dunque, cominciarono ad avere alcuni intrecci con i nazionalismi, ma soprattutto cercarono di mostrare un atteggiamento di lealtà nei confronti dei rispettivi Stati che li chiamavano alle armi e li avviavano sui fronti.

D. – Diversa fu invece la posizione espressa da Papa Pio X, che oppose un rifiuto alla richiesta dell’imperatore d’Austria, ad esempio, di benedire le armi. Benedetto XV, eletto Papa pochi mesi dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale – il 3 settembre 1914 – rafforzò questa posizione condannando la guerra e le sue origini ideologiche, fin dalla sua prima Enciclica Ad Beatissimi Apostolorum...

R. – Sì, non vi è dubbio che il Papato non manifestò alcuna accondiscendenza verso l’esaltazione della guerra e in particolare verso quella glorificazione del conflitto, che difendeva dall’idolatria della patria. Comincia ad emergere, proprio in questi tempi, una forte denuncia di una religione secolare della nazione che assolutizza questo valore come criterio organizzativo della vita collettiva e ferma fu la denuncia degli enormi mali che il conflitto comportava da parte di Roma; così come instancabile fu l’appello a cercare le vie della pace, anche accompagnato poi da un impegno concreto per lenire sofferenze e dolori. Tuttavia, credo che per dare una visione concreta della posizione romana non si possa dimenticare che arrivò anche dal Papato – almeno in via indiretta – un’approvazione verso quel principio di presunzione che assegnava ai governi il diritto di stabilire se una guerra era necessaria, o meno necessaria per il bene della patria, e che assegnava ai fedeli il dovere di obbedire agli ordini dei governi, almeno inizialmente, almeno nei primi anni.

D. – Eppure, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, e poi il corso del conflitto portò a una maggiore consapevolezza e anche a una revisione – forse - di questa impostazione di fondo. Benedetto XV, nella nota che mandò poi nell’agosto del ’17 a tutte le nazioni belligeranti, definisce il conflitto una “inutile strage”; l’inizio di una “delegittimazione religiosa dei conflitti”, se così possiamo dire...

R. – In effetti, quella frase sulla “inutile strage” è di grande importanza, perché se la guerra è inutile viene a cadere il principio su cui si era basata la teologia della “guerra giusta”, cioè viene a cadere la ricetta morale dell’uso della violenza al fine di precostituire quel corretto ordine della vita collettiva, la cui violazione aveva appunto reso necessario, reso lecito il ricorso alle armi. Quindi, con tutti i limiti di un documento essenzialmente diplomatico, Roma inizia con l’affermazione che se una guerra talmente lunga, talmente prolungata, con disastri non solo rivolti agli eserciti, ma anche rivolti alle popolazioni civili - quindi, se questo tipo di guerra con tale crudeltà, con tale efferatezza, con tanti mali - è una guerra inutile, questo significa mettere in questione la liceità morale della guerra. E in questo modo Roma inizia il percorso di cui oggi vediamo gli esiti: la Chiesa non si presenta più come il giudice, o l’arbitro dei conflitti, né si propone di moralizzarli, ma vuole intervenire nei conflitti come attiva operatrice di pace. Quel documento inizia appunto questo cammino.

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Francesco a RnS: pregare per famiglie in difficoltà e perseguitate per la fede

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Papa Francesco ha inviato un messaggio ai 15 mila partecipanti al settimo Pellegrinaggio Nazionale delle Famiglie per la Famiglia, promosso questo sabato da Scafati a Pompei, dal Rinnovamento nello Spirito Santo sul tema “Maschio e femmina Dio li creò”, in collaborazione con la Prelatura Pontificia di Pompei, il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, l’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Cei, il Forum delle Associazioni Familiari e i Comuni di Scafati e Pompei.

Il Papa, nel messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, “rivolge a tutti i partecipanti il suo cordiale saluto e assicura la sua spirituale vicinanza”. Quindi, “ringrazia per tale gesto di comunione e di intercessione che, nel segno della Parola biblica ‘Maschio e femmina Dio li creò’, testimonia la bellezza di essere famiglia e rinnova l’impegno di affidare alla Vergine Madre tutte le famiglie e l’istituzione matrimoniale, alla vigilia del Sinodo dei vescovi sulla famiglia”. Il Pontefice ha inoltre esortato a pregare “in modo particolare per le famiglie in difficoltà per mancanza di lavoro, per quelle perseguitate a motivo della fede e per ogni famiglia sofferente”.

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Il Papa sposa 20 coppie. Gabriella e Guido: "Una grazia"

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Per la prima volta dall’inizio del suo Pontificato, Papa Francesco questa domenica sposerà 20 coppie della diocesi di Roma, alle 9.00, nella Basilica Vaticana. Si tratta di un momento di grande intensità per i fidanzati che hanno scelto di dire "sì" davanti al Santo Padre. Ce ne parla Benedetta Capelli

Una grazia, un dono, un regalo. Sono queste le parole più usate dalle 20 coppie che avranno la possibilità di ricevere la benedizione della loro unione proprio dal Papa. Tutto è iniziato tra fine aprile inizio maggio, quando Francesco ha chiesto alla sua diocesi di poter celebrare dei matrimoni. Immediatamente ai parroci è stata inviata una lettera nella quale si chiedeva di indicare una coppia; ogni sacerdote ha girato la domanda a chi aveva concluso il corso di preparazione matrimoniale ma c’è anche chi, per pudore della propria storia, non si sentiva pronto a ricevere una grazia simile. Si tratta di Gabriella e Guido, arrivati al “sì” in età adulta, con esperienze passate alle spalle, con figli, e che per anni hanno vissuto il peso di un fallimento ma che oggi guardano con speranza al futuro.

Gabriella“Anche le coppie che non hanno avuto la fortuna di conoscersi in età giovanissima, quando ci sono le scelte di vita importanti, i figli da giovani … Ma nonostante questo, è importantissimo che il proprio amore venga vissuto nella grazia di Dio, quindi che non si rinunci al Sacramento, a vivere nella grazia di Dio perché non si è giovanissimi. Perché sarebbe una privazione veramente molto dolorosa, quella dei Sacramenti, della Comunione e comunque di una vita benedetta da Dio, di un amore benedetto e viverlo invece come si deve …”.

Guido ha studiato in una scuola cattolica ma poi, come molti, si è allontanato. Il matrimonio in Chiesa per lui è stato come un salto in avanti nel suo percorso spirituale. Un balzo nel quale c’è la presenza di Papa Francesco:

“Sarebbe stato bello avere forse il Papa, se fosse stato possibile … Ma era una cosa per noi così lontana e impossibile che poi ... quando abbiamo scoperto che invece si era realizzata, che non era nemmeno un sogno … la cosa ci ha veramente trasformato. Io personalmente devo dire che ho avuto un cambiamento, per quanto riguarda la mia fede, perché ho letto questa cosa come un segno …”.

Questi giorni, precedenti al loro matrimonio, sono vissuti da entrambi con grande emozione:

Gabriella: “Per me è una gioia talmente indicibile, incredibile che non riesco a trovare le parole. E’ quasi un sogno, al di là di qualunque aspettativa. E’ un uomo di conversione, un uomo di pace; è al di là di quanto potessi sperare per il mio matrimonio”.

Guido“Sentiamo entrambi di dover essere all’altezza di questo dono che ci è stato dato”.

Un matrimonio speciale e allo stesso tempo condiviso con altre coppie. Un "sì" detto – ribadisce Gabriella - mettendo da parte le paure e i timori: 

“Rispetto a questa grazia così grande, a questo privilegio così grande, veramente tutto è scomparso; anche la condivisione è quasi una forma di gioia. Poter condividere con altri sposi questo momento così speciale, mi ha fatto un po’ mettere da parte la mia riservatezza, la mia timidezza che c’è, perché io sono così. Però è superata dalla gioia immensa di poter essere unita in matrimonio a Guido da Papa Francesco”.

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Vescovo del Congo al Papa: senza catechisti non possiamo fare nulla

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I vescovi della Repubblica Democratica del Congo, in questi giorni a Roma in visita ad limina, si sono intrattenuti con il Papa discutendo delle loro realtà locali ma ponendo anche delle domande. Il Pontefice ha esortato i presuli ad offrire il loro servizio alla Chiesa con semplicità, a coltivare uno stile schietto, che consenta di essere più vicini ai fedeli. Al microfono di Tiziana Campisi mons. Gaston Ruvezi Kashala, vescovo di Sakania-Kipushi, racconta nei dettagli l’incontro con Papa Francesco: 

R. - Ha appreso ed ascoltato quelle che sono le nostre problematiche. E poi abbiamo parlato dei catechisti, che per noi sono molto importanti nell’opera di evangelizzazione: senza catechisti, noi non potremmo fare nulla! Ci ha incoraggiato molto. Ha detto che ci penserà molto e ci aiuterà anche a formare i catechisti, perché - ha detto - per voi e per le vostre chiese, la figura del catechista è molto importante: è una figura che dice molto alla gente.

D. - Quale Congo avete presentato a Papa Francesco?

R. - Il Congo che abbiamo presentato a Papa Francesco è il Congo - prima di tutto - dei martiri, dei due martiri, che sono Bakanja e Anuarite. Proprio quest’anno, il 1° dicembre, si celebra il 50.mo anniversario del martirio di Anuarite, che è la prima martire della nostra Chiesa. Poi il Congo che soffre, a causa dell’attuale situazione politica, e che chiede ai cristiani laici di impegnarsi in campo politico: non tocca ai vescovi impegnarsi in questo ambito, ma ai laici. E poi il Congo che soffre - oltre che per la crisi - anche per la povertà. I ragazzi, soprattutto i giovani, dopo la scuola secondaria non sanno cosa fare e anche se vanno all’università non riescono a trovare un lavoro. Il Congo è anche purtroppo quello della stregoneria e c’è la tendenza a ricorrere sempre alle religioni tradizionali. E, infine, abbiamo presentato al Papa il Congo dei sacerdoti, che sono impegnati su tutti i fronti.

D. - Qual è, invece, lo stato di salute delle famiglie congolesi?

R. - Quando parliamo della famiglia in Africa, parliamo di una famiglia larga: non è una famiglia composta solo da padre, madre e figli, ma è tutta la parentela che fa parte della famiglia stessa. Questo c’è ancora, tiene, è forte e la mantiene unita. Purtroppo ci sono anche attacchi dall’estero, soprattutto dall’Occidente. La nostra Conferenza episcopale nazionale ha proclamato - da quest’anno e fino al 2016 – un triennio dedicato alla famiglia: cercheremo in questi tre anni di stare più vicini alla famiglia e di accompagnarla.

D . - Nella sua diocesi, com’è stata vissuta l’elezione di Papa Francesco?

R. - E’ stato un momento molto emozionante per tutti! Nonostante la comunicazione da noi sia molto difficile, quella volta - non so perché… ma grazie a Dio! - la televisione ha funzionato molto bene e quindi abbiamo potuto seguire, anche noi, l’elezione del Papa in diretta. E’ stata bella l’elezione di Papa Francesco, bello che abbia chiesto prima la benedizione della gente e poi sia stato lui a benedire la gente. Quindi è come se avesse detto alla gente: “Anche la vostra preghiera conta!”. Il Papa conta molto sulla collaborazione, sul feedback che c’è tra lui e il suo gregge. Questo è molto importante, anche a livello della comunicazione.

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Tweet del Papa: "Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene"

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“Nonostante i nostri peccati, possiamo ripetere come Pietro: Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 15 milioni di follower.

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Card. Parolin: Papa in Albania per dire a tutti che si può lavorare insieme

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Il Papa visiterà l’Albania domenica 21 settembre "per dire a tutti i popoli del mondo che si può lavorare insieme". Così il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, nel corso di un incontro svoltosi a Roma sulla tolleranza religiosa in Albania. Il servizio di Elvira Ragosta

In un clima internazionale dove in nome della religione si determinano guerre, crisi umanitarie e morti civili, l’esempio della tolleranza religiosa in Albania è un modello di convivenza pacifica. Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha ricordato che "i padri fondatori dell’Albania hanno scommesso sulla possibilità di costruire una società multireligiosa e la Storia ha dato loro ragione":

"Credo che il Papa voglia sottolineare proprio questo con il suo viaggio: l’Albania, un Paese che ha tanto sofferto in un passato recente, appunto, per la soppressione della libertà religiosa e la persecuzione religiosa in nome di un’ideologia atea, oggi si presenta al mondo rinnovato, anche nelle sue istituzioni, nello spirito che lo anima, e soprattutto con questa capacità di far convivere al suo interno gruppi religiosi che contribuiscono insieme, dalle loro diversità, a costruire il bene comune della patria. E’ un grande esempio, davvero, che il Papa vuole sottolineare e che spero sarà recepito in questa situazione tanto difficile che stiamo vivendo".

Nel mosaico interreligioso albanese, fatto di cattolici, ortodossi, musulmani sunniti e  musulmani bektashi, come ha anche ricordato il card. Parolin, la comunità cattolica è una presenza discreta, rappresenta il 15% della popolazione, ma decisiva nell’offrire una testimonianza di amore. E sullo spirito con cui la comunità albanese attende la visita di Papa Francesco, abbiamo raccolto la testimonianza di Edmond Godo, rappresentante degli albanesi in Italia:

"Nonostante i 46 anni di dittatura, la fede religiosa è tornata come prima. Devo dire che è una cosa miracolosa. Noi, come comunità albanese, abbiamo addirittura pensato di inviare al nostro governo un messaggio molto chiaro riguardo a questa cosa: mettere su tutte le locandine, su tutte le mappe, le brochures turistiche la dicitura 'In Albania vige la tolleranza religiosa'. Questo è un messaggio piccolo che viene da un Paese piccolo e speriamo che possa essere positivo e possa aiutare le persone in questo senso".

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Nomina di membri e consultori della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli

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Papa Francesco ha nominato membri della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli i cardinali: George Pell, Prefetto della Segreteria per l'Economia; Timothy Michael Dolan, Arcivescovo di New York (Stati Uniti d'America); Luis Antonio G. Tagle, Arcivescovo di Manila (Filippine); Jean-Pierre Kutwa, Arcivescovo di Abidjan (Costa d'Avorio); Orani João Tempesta, O. Cist., Arcivescovo di São Sebastião do Rio de Janeiro (Brasile); Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi; i monsignori: Agostino Marchetto, Arcivescovo tit. di Astigi; Luigi Travaglino, Arcivescovo tit. di Lettere, Nunzio Apostolico nel Principato di Monaco, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Organizzazioni e Organismi delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura; Claudio Maria Celli, Arcivescovo tit. di Civitanova, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali; Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, Arcivescovo di Jakarta (Indonesia); Patrick Christopher Pinder, Arcivescovo di Nassau (Bahamas); Dieudonné Nzapalainga, C.S.Sp., Arcivescovo di Bangui (Repubblica Centroafricana); Giampiero Gloder, Arcivescovo tit. di Telde, Nunzio Apostolico, Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica; Paul Bùi Văn Ðoc, Arcivescovo di Thành-Phô Hô Chí Minh (Viêt Nam); Tarcisius Isao Kikuchi, S.V.D., Vescovo di Niigata (Giappone); Celmo Lazzari, C.S.I., Vescovo tit. di Muzuca di Proconsolare, Vicario Apostolico di San Miguel de Sucumbíos (Ecuador); e : P. Michael Anthony Perry, O.F.M., Ministro Generale dell'Ordine Francescano Frati Minori; P. Louis Lougen, O.M.I., Superiore Generale dei Missionari Oblati di Maria Immacolata; Socrates Mesiona, Direttore Nazionale delle PP.OO.MM. nelle Filippine; Suor Luzia Premoli, S.M.C., Superiora Generale delle Missionarie Comboniane.

Il Papa ha nominato consultori della stessa Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli: Jorge Carlos Patrón Wong, Arcivescovo-Vescovo emerito di Papantla, Segretario per i Seminari della Congregazione per il Clero; e Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, Vescovo tit. di Civitate, Segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale del direttore dal titolo “Nell'ombra di Caino” sulla visita di Papa Francesco a Redipuglia.

La religione non deve essere pretesto per la violenza: intervento del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, in vista del viaggio papale in Albania.

Kerry lavora alla coalizione contro l'Is: nell'informazione internazionale, in rilievo la crisi in Iraq e Siria.

L'illusione possibile: in cultura, le mostre di Marc Chagall al Palazzo Reale e al Museo diocesano di Milano. Sul tema, un articolo di presentazione di Paolo Biscottini.

Salvate anche le ciabatte: Maria Barbagallo sulla Grande guerra nelle lettere di Francesca Cabrini.

Volontà comune di operare per la pace: nel servizio religioso, i rappresentanti delle Chiese orientali alla Casa Bianca.

«Aliyah» è un futuro migliore: sempre più ebrei emigrano dalla Francia in Israele per la crisi economica e l’antisemitismo.

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Oggi in Primo Piano



Ucraina: Kiev denuncia attacco separatisti all’aeroporto di Donetsk

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Vacilla la tregua in Ucraina. Le forze armate di Kiev denunciano un attacco dei ribelli separatisti contro l’aeroporto di Donetsk avvenuto ieri. Il premier Iatseniuk punta il dito contro Mosca e precisa: siamo ancora in stato di guerra. Il servizio è di Eugenio Bonanata: 

Putin vuole prendersi tutta l’Ucraina. Il premier Iatseniuk accusa il Cremlino di continuare a destabilizzare l’area sudorientale del Paese con l’obiettivo di creare un corridoio verso la Crimea. Ed è per questo motivo – spiega – che l’Ucraina è ancora in stato di guerra, nonostante la tregua con i separatisti in atto dal 5 settembre. Alla base della presa di posizione, la violazione del cessate il fuoco da parte dei miliziani filorussi che, secondo i vertici militari ucraini, ieri sera hanno attaccato l’aeroporto di Donetsk. In attesa di conferme indipendenti, un altro fatto rischia di riaccendere le tensioni: a Lugansk stamani è arrivato il convoglio umanitario partito dalla Russia, composto da 200 camion con a bordo 2 mila tonnellate di aiuti. Un’operazione senza la supervisione della Croce Rossa che non ha ricevuto notifica ufficiale dell’accordo tra Mosca e Kiev. Intanto sul versante occidentale, la Commissione Europea, al termine di un incontro trilaterale con le due parti, ieri ha deciso di rinviare a fine 2015 l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio con l’Ucraina. Infine dagli Stati Uniti arrivano le nuove sanzioni contro la Russia che ripete: in questo modo è a rischio il processo di pace.

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Malala: arrestati i presunti aggressori. Sono talebani

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A due anni dall'attacco contro la studentessa pakistana Malala Yousafzai, gravemente ferita nel 2012 in un agguato per il suo impegno a favore dell’istruzione femminile, l'esercito di Islamabad ha catturato i presunti attentatori: 10 uomini appartenenti alla principale formazione talebana del Tehrik-e-Taleban Pakistan (Ttp). Il servizio di Giada Aquilino

Gira il mondo per sensibilizzare sull'importanza dell'istruzione contro i fanatismi, ma Malala Yousafzai è soprattutto una diciassettenne pakistana che non si è lasciata intimidire dalle minacce. Era il 9 ottobre 2012 e il minibus su cui viaggiava assieme ad altre compagne di scuola fu attaccato da un gruppo di uomini a Mingora, nella valle di Swat. Due degli aggressori chiamarono per nome Malala - all’epoca già famosa per il suo impegno a favore dell'istruzione femminile e per un blog che teneva dal 2008 - e subito dopo le spararono a bruciapelo diversi proiettili, che la colpirono gravemente alla testa. Ridotta in fin di vita, fu trasferita prima in un ospedale di Rawalpindi e poi a Birmingham, dove fu sottoposta a molteplici delicate operazioni chirurgiche. Da allora vive in Gran Bretagna con la famiglia, a causa delle minacce che ancora riceve in patria dai fondamentalisti. L’esercito pakistano, nell’annunciare gli arresti, ha precisato che si tratta di dieci persone, che avrebbero agito su ordine del potente leader talebano Mullah Fazlullah, divenuto a novembre scorso comandante del Ttp. Il gruppo talebano ha però smentito ogni responsabilità, accusando mujaheddin locali. Ma le incertezze su ciò che successe allora non fermano Malala. Selezionata per il premio Nobel per la pace 2013, insignita del premio Sakharov dell'Unione europea, Malala il 12 luglio dell’anno scorso, in occasione del suo sedicesimo compleanno, ha tenuto un discorso all’Onu in cui ha lanciato un appello all'istruzione dei bambini di tutto il mondo. Ricevuta dal presidente Usa, Barack Obama, nelle scorse settimane si è recata anche in Nigeria per seguire da vicino la vicenda delle 200 ragazze rapite da Boko Haram. Cosa rappresenta dunque oggi Malala, di fronte alla minaccia estremista in vari Paesi del mondo? Risponde Francesca Paci, inviata del quotidiano ‘La Stampa’:

R. – Malala rappresenta moltissimo per la minaccia islamista. Fu aggredita sullo scuolabus che la portava in classe, con le sue compagne, proprio per i suoi blog, per i suoi scritti, nei quali si batteva per il diritto all’educazione delle bambine come lei in Pakistan e non solo. Proprio in questi giorni, ‘The Atlantic’ ha pubblicato un lungo reportage su come in Afghanistan - a quasi dieci anni dalla guerra contro i talebani, che comunque ha portato all’attenzione la condizione delle donne afghane - centinaia di migliaia di bambine siano costrette a vestire gli abiti da maschio, i pantaloni, per poter avere un lavoro e mantenere la propria famiglia, in una società in cui le bambine non possono lavorare.

D. – E la situazione in Pakistan qual è?

R. – Solo tre anni fa il settimanale ‘The Economist’ definì il Pakistan il Paese più pericoloso al mondo. Rispetto all’Afghanistan, è certamente più avanti per molte cose: ci sono donne giudici, donne insegnanti; le città, da Islamabad a Karachi, non hanno nulla a che vedere con Kabul o con i villaggi ancora più piccoli. Però il Pakistan è un Paese estremamente pericoloso non soltanto per la presenza di numerose formazioni estremiste di matrice islamista, quindi i famosi talebani pakistani, ossia i responsabili dell’attentato a Malala, ma ci sono anche formazioni estremiste che si battono - per esempio - al confine con l’India e che quindi di fatto sono tollerate, se non addirittura appoggiate in alcuni casi, dai servizi segreti.

D. – Nei giorni scorsi sono circolati dei video con simpatizzanti del sedicente Stato Islamico (Is). Che pericoli ci sono?

R. – In Pakistan - oltre ai numerosi gruppi e alle numerose sigle filoterroriste o direttamente terroriste che sono attive già da anni e che sono aumentate anche dopo la guerra in Afghanistan - sono comparsi qualche giorno fa dei video sui social network di gruppi vicini ai talebani pakistani che facevano volantinaggio, con le bandiere nere dello Stato Islamico, per il Califfato di Al Baghdadi, che sta in questo momento terrorizzando il mondo dalla regione che di fatto controlla a cavallo tra la Siria e l’Iraq. Questo non è soltanto un salto di qualità per il Califfato islamico che, fino a poco tempo fa, parlava “soltanto” di una espansione a tenaglia nella sfera del Mediterraneo, nella zona del Medio Oriente arabo e il Pakistan non è arabo. Rappresenta anche un’altra minaccia, perché sappiamo che lo Stato Islamico sta di fatto sfidando Al Qaeda con metodi ancora più efferati: nel senso che laddove Al Qaeda era interessata a colpire esclusivamente obiettivi occidentali, il Califfato di Al Baghdadi e quindi lo Stato Islamico hanno esteso la sfida anche all’Islam sciita, ai cristiani, agli yazidi... Quindi questa sfida tra lo Stato Islamico e Al Qaeda si sta spostando anche in Asia. E negli stessi giorni in cui comparivano questi volantini filo Stato Islamico in Pakistan, il successore di Osama Bin Laden, Al Zawahiri, ha “aperto” una nuova filiale di Al Qaeda in India, rischiando quindi di riaccendere ancora di più lo scontro mai sopito tra due potenze, entrambe nucleari.

D. – Malala è impegnata a sensibilizzare il mondo sull’importanza dell’istruzione, in particolare dell’istruzione femminile. E’ stata anche in Nigeria per chiedere la liberazione delle 200 ragazze rapite da Boko Haram. E continua a ricevere minacce. Perché? Cosa c’è da attendersi?

R. – Lei purtroppo vive pensando di poter essere uccisa. In realtà, paradossalmente, in questo momento lei rischia meno di tante altre bambine, che sono invece nell’ombra e che quindi possono venire picchiate o uccise senza che ci siano i riflettori. I riflettori sono su Malala - per fortuna - che non soltanto è stata candidata al Nobel per la pace, ma che di fatto è diventata l’ambasciatrice di questo tema nel mondo. E lo è diventata perché pensare che un gruppo così minaccioso per l’ordine globale possa aver paura di una ragazzina al punto di andarle a sparare su un autobus in pieno giorno fa ipotizzare che forse la protesta di Malala fa più paura ancora dei droni americani. Questo lei, di fatto, rappresenta.

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L’Ecofin: “Sostenere gli investimenti per tornare a crescere”

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Le misure concrete di sostegno agli investimenti sia pubblici che privati per rilanciare la crescita. È questo il tema al centro del vertice dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei Paesi europei che si tiene oggi a Milano. Sempre nel capoluogo lombardo ieri è stata la volta dell’Eurogruppo che ha ribadito l'impegno “per ridurre le tasse sul lavoro”. Dopo pochi giorni dal nuovo taglio dei tassi di interesse, ormai al minimo storico, Draghi è tornato a chiedere riforme strutturali ambiziose. Sul nuovo corso intrapreso dall’Europa e l’attuale situazione dell’economia reale, Marco Guerra ha raccolto il commento dell’economista Giacomo Vaciago

R. - Da luglio, quando è partita la nuova commissione con la nomina di Juncker, e nel corso del semestre a governo italiano, l’impostazione è stata quella che accomuna tutti i Paesi dell’Europa: per tornare a crescere bisogna fare riforme utili e soprattutto investimenti. E l’Italia, come il resto d’Europa, ha investito poco negli anni scorsi. La grande frenata della nostra economia e la cresciuta disoccupazione sono perché non abbiamo fatto investimenti, privati e pubblici. Allora, la commissione ha messo sul tavolo l’ipotesi che nei prossimi cinque anni ci siano 300 miliardi di euro in tutta Europa di maggiori investimenti pubblici. In più, il governo italiano, porta all’Ecofin, presieduto dal ministro Pier Carlo Padoan, un documento su come riformare la finanza per favorire la crescita, finanziando gli investimenti con strumenti alternativi a quelli del solo credito bancario - perché sono le banche che hanno chiuso i rubinetti del credito negli anni scorsi - quindi attivando mercati dei capitali efficienti, attingendo al risparmio dei fondi pensione con strumenti appropriati di gestione del rischio… E dunque c’è tutto quel discorso che Draghi ha fatto anche lui, tante volte, di usare meglio il risparmio privato per finanziare la crescita.

D. - Quindi la nuova commissione anche con le nomine di Katainen e Moscovici sembra creare un compromesso tra rigore e flessibilità: questa è la nuova linea?

R. – Il rigore da solo non serve a niente, serve solo a prendere atto che hai fatto degli errori in passato. Il messaggio è quello che c’è un’economia da ricostruire. Pensiamo a quante fabbriche italiane negli ultimi 5 anni hanno chiuso, è chiaro che in parte hanno chiuso perché erano scadenti, in parte hanno chiuso perché le banche non gli hanno dato credito, e in parte perché l’austerità era "tagliare, tagliare, tagliare". Ma un Paese non riparte con l’austerità: bisogna rimboccarsi le maniche e crescere. Questo ormai l’hanno accettato tutti. Attenzione: anche la Germania si rende conto che se noi andiamo male, loro non ci guadagnano, perché ci vogliono vendere i loro prodotti! E quindi dovremmo passare attraverso questa nuova fase dei cosiddetti “accordi contrattuali”, che sono stati evocati ieri dall’Eurogruppo: ogni Paese si impegna con gli altri Paesi a fare le riforme che servono. Questa è la teoria del “controllo reciproco”. Perché siamo sulla stessa barca e quindi siamo tutti interessati che gli altri facciano la loro parte.

D. - Ecco, intanto l’economia reale vede la deflazione, l’aumento della disoccupazione e il debito record, sia in Italia, che in Spagna. Volendo guardare alcuni aspetti positivi qual è la speranza?

R. - L’ottimismo nasce dal fatto che il resto del mondo sta crescendo e che anche da noi stanno incominciando ad arrivare investimenti altrui.

D. - In Europa è di buon auspicio il fatto che prima si parlava solo di rigore e di conti e adesso finalmente si parla di altre cose…

R. – La narrazione è migliorata, il linguaggio. I comunicati che sono usciti da Milano ieri e oggi erano improntati a obiettivi di crescita, di investimenti, di occupazione, perché questa è l’area dove è cresciuta la disoccupazione e non l’occupazione in questi anni. Quindi sicuramente la premessa per una svolta si è posta. Attenzione, che a questo punto, poi, occorre che alle belle parole seguano i fatti.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Questa Domenica la Chiesa celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce. La liturgia ci presenta il passo del Vangelo in cui Gesù dice a Nicodèmo:

“Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.

Su questa Festa, ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma: 

È una festa molto antica, sorta a Gerusalemme nel IV secolo. La data del 14 settembre è legata alla dedicazione delle due basiliche ivi costruite da Costantino, per celebrare la Risurrezione e la Morte del Signore (l’Anástasis e il Martyrion). Più tardi si unirà la tradizione del ritrovamento della reliquia della Croce del Signore. Da Gerusalemme la festa si estende in tutto l’Oriente e l’Occidente e il simbolo della Croce, e dopo il VI secolo il crocifisso, riempirà sempre di più la vita dei cristiani e gli spazi liturgici. Oggi fa realmente un certo effetto parlare di esaltazione, quando – anche noi cristiani – abbiamo perso il verso senso del mistero del Croce e forse ce ne vergogniamo: l’abbiamo tolta dai luoghi pubblici e, a volte, anche dalle nostre case. Mentre essa proclama al mondo solo un amore immenso, grande come è grande Dio e la sua capacità di donarsi all’uomo, di perdonarlo, di accoglierlo. La Croce non esalta masochisticamente la sofferenza, ma è la risposta di Dio al male e alla morte, allo scandalo della sofferenza degli innocenti. Dio non condanna il mondo, ma dà il suo Figlio perché chiunque crede in Lui non muoia. Essa strappa la storia dalla condanna al trionfo del potente e del violento, dei vari “mostri” che sfigurano il volto e il corpo dell’uomo. Essa proclama che di fronte a tutto il male che sommerge l’uomo è necessario che “sia innalzato il Figlio dell’uomo”, perché chi è scandalizzato dalla sofferenza possa guardare a Lui e sperimentare la vittoria sul male e sulla morte.

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Nella Chiesa e nel mondo



Turchia: la gioia di mons. Franceschini per la visita del Papa

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“Siamo molto felici di questa notizia. Sapevamo che il Papa avrebbe dovuto ricambiare proprio in questi giorni la visita al patriarca ecumenico Bartolomeo. Il titolo del viaggio doveva essere proprio questo ‘visita al patriarca Bartolomeo’. A questo viaggio erano affidate anche le speranze di un incontro della Chiesa locale con Papa Francesco e la visita ad alcuni nostri luoghi santi come, per esempio, la Casa della Madonna, a Smirne”. Così mons. Ruggero Franceschini, arcivescovo di Smirne e presidente della Conferenza episcopale turca (Cet), commenta all'agenzia Sir l’annuncio del viaggio apostolico di Papa Francesco in Turchia.

Non si conoscono ancora la durata e il programma del viaggio. “Adesso che è stato dato l’annuncio ufficiale del viaggio, previsto per la fine di novembre - il 30 si celebra sant’Andrea apostolo e per tradizione una delegazione della Santa Sede si reca in Turchia per partecipare alle celebrazioni del patriarcato ecumenico - speriamo che nel programma trovino spazio incontri e visite alla nostra piccola Chiesa che è in Turchia”.

Per mons. Franceschini, la presenza di Papa Francesco in Turchia “è di grande incoraggiamento per la vita della comunità ecclesiale locale”: “Tanti fedeli, infatti, stanno lasciando il Paese nonostante una certa tranquillità di cui godono. La nostra speranza è che nel programma si possa trovare anche un tempo per arrivare nel sud della Turchia dove grande è l’affluenza di profughi soprattutto dalla Siria e dove la situazione è preoccupante sia dal lato economico che sociale”. (R.P.)

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Califfato abolisce il siriaco e nomi cristiani delle scuole

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Le scuole di Mosul e della Piana di Ninive che portavano nomi cristiani dovranno cambiarli. E nei programmi di studio di ogni ordine e grado verrà abolito l'insegnamento della lingua e della cultura siriaca e quello dell'educazione religiosa cristiana. Sono queste alcune delle disposizioni imposte dai leader dell'auto-proclamato Califfato Islamico alle istituzioni educative a Mosul e nei territori della Provincia di Ninive caduti sotto il loro controllo.

Lo rivelano alcune fonti locali contattate dal sito d'informazione in arabo ankawa.com. La cancellazione dell'insegnamento della cultura siriaca e di elementi di dottrina cristiana fanno parte delle disposizioni imposte dai militanti del Califfato Islamico per cancellare nel sistema educativo ogni traccia del pluralismo culturale e religioso nelle zone conquistate e trasformare le scuole in strumenti di propaganda dell'ideologia jihadista tra le nuove generazioni.

Tra le indicazioni imposte dai miliziani dello Stato Islamico c'è anche quella di re-intitolare le scuole alla “Battaglia di Mosul” e ad altre formule e figure usate dalla martellante propaganda ideologica di quello che vuole strutturarsi come neo-regime califfale. Alcune delle istituzioni educative legate alle Chiese, come la scuola dedicata a San Tommaso, portavano nomi cristiani fin dal XVIII secolo.

Lo scorso febbraio, il Ministero dell'educazione dell'Iraq aveva disposto che il siriaco e l'insegnamento della religione cristiana fossero introdotti nei currucula di 152 scuole pubbliche nelle province di Baghdad, Ninive e Kirkuk. Il progetto pilota mirava a preservare la lingua madre di tutte le comunità confessionali cristiane autoctone ancora presenti nel Paese, segnate negli ultimi anni da una drastica riduzione numerica a causa dell'impennata dei flussi migratori registrata dopo la caduta del regime baathista.

Le 152 scuole erano state selezionate nelle aree del Paese dove è maggiore la concentrazione di battezzati. Secondo i dati forniti dalla Direzione per lo studio del siriaco, le scuole coinvolte nel progetto sono frequentate da più di 20mila studenti. (R.P.)

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Nigeria: a Maiduguri l’esercito presidia le chiese

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“A Maiduguri non ci sono combattimenti che sono invece concentrati in alcune città vicine” dice all’agenzia Fides padre Patrick Tor Alumuku, direttore delle Comunicazioni Sociali dell’arcidiocesi di Abuja, che è in contatto con un sacerdote che si trova a Maiduguri, la capitale dello Stato del Borno (nel nord-est della Nigeria). 

Qualche giorno fa il Forum degli Anziani dello Stato di Borno aveva lanciato l’allarme sull’imminenza di un attacco di Boko Haram contro la città. “Da quello che sappiamo, a Maiduguri la situazione è relativamente calma. I militari sono dovunque, pattugliano le strade e proteggono chiese e parrocchie” dice padre Patrick.

L’esercito ha annunciato di aver inferto un severo colpo ad un gruppo di Boko Haram che aveva attaccato la città di Konduga, a circa 35 chilometri da Maiduguri. Nel corso della battaglia durata tre ore, secondo un portavoce militare, circa 200 miliziani sono stati uccisi, e diverse armi ed equipaggiamenti militari sono stati recuperati dai soldati governativi. (R.P.)

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15.ma Giornata europea della cultura ebraica

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Centinaia di eventi tra visite guidate, spettacoli, concerti, mostre d’arte, conferenze, degustazioni, escursioni e attività per bambini: domenica 14 settembre torna la Giornata europea della cultura ebraica, la manifestazione coordinata e promossa in Italia dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che “apre le porte” di sinagoghe, musei e quartieri ebraici, invitando a scoprire i luoghi, la storia e la cultura ebraica di ieri e di oggi.

Un tema, “Donna Sapiens. La figura femminile nell’ebraismo”, unirà idealmente le centinaia di iniziative, fornendo lo spunto per parlare del femminile nel mondo ebraico e nella società, tra emancipazione e tradizione: una tematica attuale, che si intreccia alla cosiddetta questione “di genere”, cui l’esperienza ebraica può fornire interessanti spunti di riflessione.

Si tratta — scrive il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna in un editoriale pubblicato sul numero di settembre di «Pagine Ebraiche», il mensile diretto da Guido Vitale — di «un momento di condivisione e conoscenza, al quale aderiscono in Italia ben settantasette località, che dal piccolo borgo alle grandi città, si animano di tante iniziative. Con leggerezza, perché riteniamo che la cultura debba essere innanzitutto un piacere fruibile e accessibile».  

Alla manifestazione, giunta alla quindicesima edizione - riferisce l'agenzia Sir - partecipano trenta Paesi europei e settantasette località in Italia, dove risiede la più antica Comunità della diaspora. Presenti nella penisola da oltre due millenni, gli ebrei hanno lasciato tracce nella cultura, nell’architettura e nell’assetto urbanistico di alcuni quartieri, nel linguaggio, nella musica, nella letteratura, nella gastronomia. 

Sono percorsi tutti da scoprire. Come quelli nella città di Ferrara, scelta quest’anno quale Città Capofila della manifestazione in Italia, dove prenderà simbolicamente il via l’appuntamento. Tra le varie iniziative figura anche «Jewish and the City», organizzata a Milano e giunta alla seconda edizione, al via oggi con una performance che unisce musica, teatro e narrazione, inspirandosi liberamente alla tradizione del Seder di Pesach, la cena rituale che apre la Pasqua ebraica. 

Con circa duecentomila visitatori, quasi cinquantamila nella sola Italia, dove si realizza una delle edizioni più importanti e riuscite del continente, la Giornata europea della cultura ebraica è un invito a scoprire le Comunità ebraiche, una parte della vita e della storia del nostro Paese e d’Europa. Da nord a sud, da est a ovest, un giorno intero di appuntamenti per far conoscere cos’è la Torah, visitare un’antica “giudecca”, parlare di libri, di arte, di cinema, di teatro, di idee.

L’iniziativa - spiega l’Ucei - parte dalla “convinzione che la conoscenza sia lo strumento più utile e profondo per imparare a convivere in una società complessa e fatta di tante ‘diversità’, e per contribuire a contrastare pregiudizi ancora oggi esistenti”. (R.P.)

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Diocesi di Roma: chiusura del convegno pastorale

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Sarà la fase finale del Convegno diocesano ad aprire, lunedì 15 settembre, il nuovo anno di attività pastorali della diocesi di Roma. Alle 9.30, nella basilica di San Giovanni, è previsto l’incontro di tutto il clero romano con il cardinale vicario Agostino Vallini, mentre alle 19 dello stesso giorno si terrà la sessione per i catechisti a cui sarà conferito il mandato per il nuovo anno pastorale.

I primi due incontri del Convegno, aperto il 16 giugno scorso da Papa Francesco in aula Paolo VI, sono stati «una bella e ricca esperienza ecclesiale», scrive il cardinale vicario in una lettera inviata ai parroci e ai responsabili di comunità, in cui invita «caldamente a partecipare tutti e ad incoraggiare i catechisti, insieme a quanti vorranno intraprendere questo importante servizio ecclesiale, ad intervenire alla sessione a loro dedicata». E saranno più di 3mila i partecipanti attesi nella basilica lateranense la sera di lunedì.

Al cardinale Vallini spetterà la relazione conclusiva del Convegno diocesano su “Comunità e famiglia nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana”, a poche settimane dall’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi, in programma dal 5 al 19 ottobre, incentrata su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Durante l’intervento il porporato presenterà gli orientamenti e le indicazioni pastorali emersi dai dibattiti tenutisi nei vari gruppi di lavoro che, a giugno scorso, videro impegnati 6mila partecipanti.

In quell’occasione, lo ricordiamo, il Santo Padre dedicò il suo pensiero alle famiglie e ai giovani di Roma che «soffrono di “orfananza” di una speranza sicura, di un maestro di cui fidarsi, di ideali che scaldano il cuore». Inoltre il Pontefice parlò dei problemi delle grandi metropoli che affliggono anche la Capitale: la disoccupazione in primis che lascia a casa il 40% dei giovani, considerati «materiali di scarto», disse Papa Francesco, da una società che «rinnega i suoi figli», lasciandoli «orfani di gratuità». Con la conseguente necessità di una «Chiesa che sappia essere madre, che sappia accogliere sempre tutti con cuore grande, vivendo la compassione di Gesù», affermò il Papa rivolgendosi ai sacerdoti, ai laici, alle religiose e ai religiosi presenti.

Il 17 giugno, i lavori del Convegno proseguirono nelle sedi della Pontificia Università Lateranense, del Pontificio Seminario Maggiore e del Palazzo del Vicariato. Attraverso tredici laboratori in cui furono affrontate varie tematiche da “Il mondo della scuola” agli “Altri ambienti di vita reale e virtuali”, da “La catechesi fa il posto ai poveri?” a “Gioiosi messaggeri? I catechisti e la loro formazione”.

Quella di lunedì 15 settembre, nella basilica di San Giovanni in Laterano, sarà la parte conclusiva della stessa grande assise apertasi prima dell’estate. «La formula della terza serata non consecutiva alle prime due - spiega il direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma, mons. Andrea Lonardo - è stata pensata per garantire una più approfondita riflessione su quanto emerso dai laboratori, per recepire in maniera organica quanto emerso nelle varie giornate, per poi da qui ripartire con le attività del nuovo anno pastorale, che quest’anno registrerà anche una novità: le scuole di formazione della diocesi di Roma per i catechisti e per gli animatori della pastorale in almeno un terzo delle prefetture». (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 256

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.