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Sommario del 10/09/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa all'udienza generale: l'essenziale del Vangelo è la misericordia

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La via della misericordia, che è la via della vita, è “essenziale per la salvezza”. È il centro della catechesi del Papa all’udienza generale di oggi, dedicata a proseguire la riflessione sul concetto di Chiesa madre. Nei saluti finali, il Pontefice ha ricordato ancora una volta le crisi in Siria e Medio Oriente. Prima dell’arrivo in Piazza San Pietro, il Papa aveva salutato in Aula Paolo VI un gruppo di malati e di bambini albini. Il servizio di Giada Aquilino

Sull’esempio di Gesù, la Chiesa è “maestra di misericordia”, perché affronta “l’odio con l’amore”, sconfigge “la violenza con il perdono”, risponde “alle armi con la preghiera”. In un contesto di molteplici conflitti internazionali, il pensiero di Papa Francesco è andato ancora alle popolazioni di Siria e Medio Oriente:

“Il Signore ricompensi la vostra fedeltà, vi infonda coraggio nella lotta contro le forze del maligno e apra gli occhi di coloro che sono accecati dal male, affinché presto vedano la luce della verità e si pentano degli errori commessi”.

Nella sua riflessione sulle opere di misericordia, essenziali “per la salvezza”, il Pontefice ha infatti ricordato che “non basta amare chi ci ama”, “non basta fare il bene a chi ci fa del bene”:

“Per cambiare il mondo in meglio bisogna fare del bene a chi non è in grado di ricambiarci, come ha fatto il Padre con noi, donandoci Gesù. Ma quanto abbiamo pagato noi per la nostra redenzione? Niente, tutto gratuito! Fare il bene senza aspettare un’altra cosa di ricambio, così di contraccambio. Così ha fatto il Padre con noi e noi dobbiamo fare lo stesso. Fa' il bene e vai avanti”!

E’ stato Gesù stesso a riassumere il proprio insegnamento: secondo il Vangelo, ha spiegato il Santo Padre, l’essenziale “è la misericordia”. La Chiesa, dunque, si comporta come il Signore, educando all’“essenziale”, per trasmettere ai suoi figli “il senso e la gioia di vivere”, perché “il cristiano necessariamente deve essere misericordioso”:

“Non fa lezioni teoriche sull’amore, sulla misericordia. Non diffonde nel mondo una filosofia, una via di saggezza…. Certo, il Cristianesimo è anche tutto questo, ma per conseguenza, di riflesso. La madre Chiesa, come Gesù, insegna con l’esempio, e le parole servono ad illuminare il significato dei suoi gesti”.

E i gesti, le azioni concrete della Chiesa sono “dare da mangiare e da bere a chi ha fame e sete” e “vestire chi è nudo”. Ne sono testimonianza i “tanti santi e sante che - ha aggiunto Papa Francesco - hanno fatto questo in modo esemplare”, ma anche i tantissimi “papà e mamme, che insegnano ai loro figli che ciò che avanza a noi è per chi manca del necessario”. Menzionando una mamma conosciuta tempo addietro, il Pontefice ha pure invitato a insegnare a condividere, a dare “del proprio”:

“Nelle famiglie cristiane più semplici è sempre stata sacra la regola dell’ospitalità: non manca mai un piatto e un letto per chi ne ha bisogno”.

Poi “la madre Chiesa insegna a stare vicino a chi è malato”: così i santi hanno servito Gesù, ma pure - ha proseguito - “semplici uomini e donne, ogni giorno, mettono in pratica quest’opera di misericordia in una stanza di ospedale, o in una casa di riposo, o nella propria casa, assistendo una persona malata”. E “insegna a stare vicino a chi è in carcere”:

“Ognuno di noi è capace di fare lo stesso che ha fatto quell’uomo o quella donna che è in carcere. Tutti abbiamo la capacità di peccare e di fare lo stesso, di sbagliare nella vita. Non è più cattivo di te e di me! La misericordia della madre Chiesa supera ogni muro, ogni barriera, e ti porta a cercare sempre il volto dell’uomo, della persona. Ed è la misericordia che cambia il cuore e la vita, che può rigenerare una persona e permetterle di inserirsi in modo nuovo nella società”.

Ma la madre Chiesa insegna anche “a stare vicino a chi è abbandonato e muore solo”. “La misericordia - ha aggiunto il Pontefice - dona la pace a chi parte e a chi resta, facendoci sentire che Dio è più grande della morte, e che rimanendo in Lui anche l’ultimo distacco è un ‘arrivederci’”. Lo hanno capito “tanti cristiani che non hanno paura di stringere la mano a chi sta per lasciare questo mondo”. Lo ha capito “la beata Teresa per le strade di Calcutta”:

“Trovava gente moribonda sulla strada, gente alla quale incominciavano a mangiare il corpo i topi della strada e lei li portava a casa perché morissero puliti, tranquilli, carezzati, in pace. Lei dava loro l’arrivederci, a tutti questi! E tante uomini e donne come lei hanno fatto questo. Li aspettano, lì, alla porta, per aprire loro la porta del Cielo. Aiutare a morire la gente bene, in pace”.

Nei saluti finali, invitando i fedeli ad essere generosi e a guardarsi intorno perché “c’è sempre qualcuno che ha bisogno di una mano tesa, di un sorriso, di un gesto d’amore”, Papa Francesco ha ricordato tra gli altri le Suore Missionarie della Fede; la diocesi di Treviso, nel centenario della morte di San Pio X, “Pontefice animato da grande zelo pastorale”; quella di Modena e Reggio, in ringraziamento per la beatificazione del seminarista Rolando Rivi, “eroico testimone di fedeltà a Cristo e al Vangelo”; gli ufficiali e marinai della Squadra Navale impegnati nell’operazione “Mare Nostrum”, che il Pontefice ha ringraziato “per l’ammirevole opera in favore di tanti fratelli in cerca di speranza”. Infine ha concluso, rammentando che venerdì prossimo si celebra la memoria del Santissimo Nome di Maria.

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Francesco: unire forze per proteggere Amazzonia

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Il Papa ha inviato un messaggio in occasione dell’Incontro inaugurale della Rete Ecclesiale Pan-amazzonica (REPAM) organizzato dalla Conferenza episcopale brasiliana e dal Consiglio episcopale latinoamericano a Brasilia dal 9 al 12 settembre, sul tema: “Pan-Amazzonia: Polmone del pianeta”. Si tratta di una iniziativa che intende coordinare e rafforzare l’impegno dei tanti organismi ecclesiali operanti per la protezione dell’Amazzonia, ma isolati e dispersi su un territorio vastissimo. Il testo, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, è indirizzato a mons. Pedro Ricardo Barreto Jimeno, arcivescovo di Huancayo e presidente del Dipartimento Giustizia e Pace del Celam. Il servizio di Sergio Centofanti

Papa Francesco esprime la sua gioia nel “vedere accolto il suo appello per la creazione di questa rete innovativa, specificamente orientata alle questioni ecologiche in Amazzonia”. Parlando ai vescovi brasiliani a Rio de Janeiro il 27 luglio 2013, aveva rivolto un “forte richiamo al rispetto e alla custodia dell’intera creazione che Dio ha affidato all’uomo non perché lo sfrutti selvaggiamente, ma perché lo renda un giardino. Nella sfida pastorale che rappresenta l’Amazzonia – aveva detto - non posso non ringraziare ciò che la Chiesa in Brasile sta facendo”, ma “va ulteriormente incentivata e rilanciata l’opera della Chiesa”.

Nel suo messaggio, di fronte alle tante ma isolate iniziative della Chiesa cattolica per l’Amazzonia, invita a rispondere alla grande sfida di “vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene” (Evangelii, Gaudium).

Il Pontefice augura il “pieno successo” di questa iniziativa, “ricordando tuttavia che la rete digitale deve essere un luogo ricco di umanità: non una rete di fili, ma di persone umane. Non basta girare per le ‘strade digitali’, è necessario che la connessione sia accompagnata da un vero incontro: non possiamo vivere da soli, chiusi in noi stessi; abbiamo bisogno di amare e di essere amati, abbiamo bisogno di tenerezza. Solo così la testimonianza cristiana, grazie alla rete, può raggiungere le periferie esistenziali umane, permettendo che il lievito cristiano fecondi e faccia progredire le culture vive del Rio delle Amazzoni e i suoi valori”.

Infine, il Papa auspica che la Rete Ecclesiale Pan-amazzonica contribuisca “ad ampliare le opportunità di comprensione e di solidarietà tra gli uomini e tra i popoli, riflettendo costantemente Cristo, quella ‘Luce delle nazioni’ che risplende sul volto della Chiesa universale e delle Chiese locali”.

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Nomine a Commissione Tutela Minori e Dottrina della Fede

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Il Papa ha nominato segretario della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori mons. Robert W. Oliver, del Clero dell’Arcidiocesi di Boston, finora promotore di Giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Ha quindi ha nominato promotore di Giustizia presso la Congregazione per la Dottrina della Fede il padre gesuita statunitense Robert J. Geisinger, procuratore generale della Compagnia di Gesù.

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Mons. Luigi Bianco nuovo nunzio apostolico a Gibuti e delegato in Somalia

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Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico in Gibuti e delegato apostolico in Somalia mons. Luigi Bianco, arcivescovo tit. di Falerone, nunzio apostolico in Etiopia.

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Papa a Redipuglia: lo storico Mondini su Chiesa e I Guerra Mondiale

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I motivi che hanno portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, un secolo fa, sono ancora oggetto di studio degli storici. Tra questi, l'imporsi del concetto di Nazione fino ad esasperati nazionalismi, la crisi sociale dell'impero austro-ungarico, il commercio delle armi, la visione della guerra come "purificazione" dell'umanità. Temi che si ripropongono alla nostra attenzione, in occasione del pellegrinaggio di preghiera del Papa, sabato prossimo, al cimitero austro-ungarico di Fogliano e al Sacrario Militare di Redipuglia, in provincia di Gorizia, per i caduti e le vittime di tutte le guerre. Ma cosa pensava la Chiesa, allora, della guerra? Perchè gli sforzi di Benedetto XV per evitare la guerra non furono ascoltati tra i cattolici? Luca Collodi lo ha chiesto al prof. Marco Mondini, storico, docente di "Storia Contemporanea" presso l'Università di Padova e consulente scientifico della Struttura di missione per il Centenario della Grande Guerra presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: 

 R. – Come è noto, socialisti e cattolici rappresentavano, insieme ai liberali giolittiani, di fatto la maggioranza dell’opinione pubblica di quello che all’epoca di definiva lo “spirito collettivo”: una maggioranza fondamentalmente neutralista, o – per quello che riguardava la gran parte della popolazione delle campagne – fondamentalmente non interessata al discorso sulla guerra, e alle sue motivazioni politiche. E fu una maggioranza largamente bypassata – oggi diremo – travolta, sorpassata, dominata da una minoranza molto più rumorosa, molto più efficace e anche molto più violenta. È abbastanza interessante il fatto che, sia i socialisti, che i cattolici di fatto – una volta che l’Italia entrò in guerra – smisero completamente di lottare, anche da un punto di vista semplicemente delle retoriche pubbliche, contro l’idea che la guerra fosse in definitiva doverosa per il benessere dello stato della comunità nazionale: i socialisti, invocando la famosissima formula del “non aderire, né sabotare”; e i cattolici, in larga parte – nonostante la posizione del Pontefice ancora coerente contro ogni forma di giustificazione della guerra – piegandosi, o allineandosi, meglio ancora, a un dovere patriottico diffuso.

D. – Ci furono atti di pacifismo nella Prima Guerra Mondiale? Penso ai primi tentativi di obiezione di coscienza...

R. – In realtà, fondamentalmente, no. No nel senso che non ci siano state proteste anche in Italia: ci furono atti di protesta clamorosi durante i dieci mesi della neutralità, da parte di chi era convinto che la neutralità fosse solo una parentesi che avrebbe inevitabilmente portato il Paese alla guerra; vennero occupate stazioni per impedire, ad esempio, la partenza delle reclute - che venivano richiamate già prima che il Paese entrasse in guerra – e i comizi, e gli scontri tra interventisti e neutralisti furono molto, molto violenti. Ma, la cosa che caratterizza fondamentalmente l’Italia della Prima Guerra Mondiale è che, in larghissima parte, tutti gli atti di protesta contro la guerra cessarono immediatamente tra il 23 e il 24 maggio del 1915, e fondamentalmente l’Italia si allineò completamente all’idea che - una volta dichiarata - la guerra era diventata necessaria per tutti. Questo non vuol dire che non ci furono casi, anche clamorosi, di rifiuto del dovere: soprattutto in prima linea, disertori, e nelle retrovie, molte e molte migliaia di renitenti testimoniarono che l’appello all’onore e al dovere non era completamente capillare.

D. – Che rapporto c’era tra fede e patriottismo?

R. – Soprattutto negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale, si era tornati a intrecciare un rapporto molto profondo. Non bisogna dimenticare l’ovvia distanza che aveva separato Stato e Chiesa fino ad anni, tutto sommato, molto vicini allo scoppio della Grande Guerra; però, questa distanza era stata progressivamente colmata – tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 – e tutto questo fa parte, ovviamente, del movimento più generale di reintegrazione dei cattolici nell’alveo dello Stato liberale.

D. – Nel tormentato rapporto tra fede e guerra, si registra anche il ruolo dei cappellani militari...

R. – Rappresenta veramente uno dei tornanti più esemplari, uno dei casi più eclatanti di questo riallineamento patriottico degli uomini di Chiesa. I cappellani militari svolsero un ruolo fondamentale; non solo un ruolo istituzionale - quello di conforto, di assistenza religiosa - svolsero un ruolo fondamentale, ad esempio, nella comunicazione con le famiglie: il cappellano militare era la figura a cui il soldato, - spesso semianalfabeta - si rivolgeva per scrivere ai cari lontani e quindi rappresentava una figura fondamentale nel collegamento tra fronte e fronte interno. Una delle tante figure provenienti dal mondo della Chiesa che svolse un ruolo supplente nei confronti delle gerarchie statali e militari. 

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Al Sinodo i coniugi Miano per raccontare la bellezza della famiglia

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Ascolto, responsabilità, testimonianza: sono le tre parole che accompagneranno Franco e Giuseppina Miano al terzo Sinodo straordinario sulla famiglia, in programma in Vaticano dal 5 al 19 ottobre prossimi. I due coniugi, entrambi docenti universitari di Filosofia, parteciperanno all’Assemblea in veste di “esperti”, ovvero collaboratori del Segretario speciale. Altre 13 coppie di sposi faranno parte, invece, degli uditori. Ascoltiamo i coniugi Miano al microfono di Isabella Piro

R. – (Prof. Franco) Questo Sinodo straordinario sulla famiglia è una grande, bellissima occasione di riflessione su un qualcosa che sta particolarmente a cuore a tutti i cristiani, che sta particolarmente a cuore alla Chiesa per l’importanza che la famiglia riveste per la vita della società, per la vita di tutti. Quindi, siamo stati veramente contenti di questa nomina.

R. – (Prof.ssa Giuseppina) Avvertiamo la responsabilità della quale siamo investiti attraverso questa nomina e questa esperienza che andremo a vivere.

D. – Voi siete genitori ed anche docenti universitari, quindi sempre a contatto con i giovani. Quale contributo potrà dare questo vostro ruolo a questo Sinodo?

R. – (Prof. Franco) Un contributo fattivo in una direzione fondamentale, perché mia moglie ed io siamo convinti dell’importanza, oggi, di raccontare che la vita della famiglia è prima di tutto bellezza, amore, gioia; anche fatiche, anche difficoltà, ma affrontate con uno spirito positivo, affrontate con un’attenzione che consente di superare le difficoltà. Prima di tutto, bisogna dire che può esistere una bella vita di famiglia: questo è il racconto che dobbiamo fare, che dobbiamo dare alle nuove generazioni. In un certo senso, è un atto dovuto.

R. – (Prof.ssa Giuseppina) L’apporto che viene da noi è quello della concretezza che deriva dall’essere dentro fino in fondo alla realtà della quale si parlerà durante il Sinodo, perché quando si parla della famiglia non si parla di qualcosa di astratto, ma si parla di una realtà di vita e di relazione nella quale entrano profondamente le esperienze che compongono la nostra vita di persone. La professione che svolgo mi porta non soltanto ad essere impegnata professionalmente come donna, ma è un lavoro anche molto particolare perché è un lavoro fatto di studio, di riflessione, di ricerca, di confronto ed è un lavoro che comporta anche una responsabilità particolare, perché esso si svolge all’interno di una facoltà teologica e quindi implica la formazione di persone che poi avranno una responsabilità particolare nella vita della Chiesa.

D. – L’“Instrumentum Laboris” di questo Sinodo si sofferma molto sulla figura del padre, ma evidenza anche lati drammatici della condizione femminile: parla di violenza domestica, ad esempio, in varie parti del mondo. Qual è la vostra riflessione su questo punto?

R. – (Prof. Franco) A proposito del padre, io credo che le sottolineature presenti nell’Instrumentum Laboris pongano all’attenzione di tutti un problema che, specie nelle società occidentali, è particolarmente urgente: cioè, far sì che ciascuno dei due genitori possa recuperare la specificità del suo ruolo, che significa la specificità del suo dono, e quindi che il padre possa essere fino in fondo se stesso, capace di una accompagnamento amorevole, ma anche in grado di esercitare un ruolo di guida, di accompagnamento sicuro ed autorevole. Ecco: l’autorevolezza della figura paterna va recuperata.

R. – (Prof. Giuseppina) Perché la dignità della donna venga riconosciuta fino in fondo e in maniera fattiva, reale, credo che ci sia ancora molta strada da fare. E credo che ci sia molta strada da fare perché anche l’autenticità della relazione diventi qualcosa di possibile, concreto. Il problema della violenza sulle donne è un problema che non riguarda soltanto le donne: riguarda gli uomini e le donne, riguarda il modo in cui viene concepita e vissuta la relazione tra le persone e riguarda il senso, anche, della nostra umanità. La violenza sulle donne è indice di una disumanizzazione crescente o di un cammino di umanizzazione che ha ancora davanti a sé molta strada da percorrere.

D. – Prof. Franco, Lei è stato in passato presidente dell’Azione Cattolica: questa sua esperienza L’aiuterà nel portare avanti anche il suo lavoro sinodale?

R. – (Prof. Franco) Sicuramente mi aiuterà, perché l’esperienza dell’Azione Cattolica è prima di tutto l’esperienza di una grande famiglia: di una grande famiglia al servizio della Chiesa e al servizio della società. La famiglia in cui ci sono i bambini, i giovani, gli adulti, gli anziani, ci sono i singoli e ci sono le coppie di coniugi … E quindi questo senso di famiglia, di un’associazione unitaria, è un altro elemento di cui oggi si ha particolarmente bisogno, perché sempre più la vita della Chiesa va colta come la vita di una famiglia. E l’esperienza dell’Azione Cattolica mi ha fatto incontrare in questi anni tante persone, e quindi venire a contatto con le tante esperienze di bene diffuse sul nostro territorio nazionale – ma in una certa misura, in tutto il mondo – e anche le fatiche che oggi si avvertono e a cui la Chiesa può dare un proprio contributo, anche di impegno e di soluzione dei problemi.

D. – Il Sinodo dura due settimane: i vostri figli, come hanno accolto questa notizia?

R. – (Prof. Giuseppina) I figli sono stati molto contenti! Sono abbastanza grandi, ormai, perché sono tutti e due universitari; sono pienamente partecipi, anche – lo sono sempre stati, lo sono anche questa volta – del nostro impegno. In qualche modo sono coinvolti anche loro in questa esperienza, come nelle tante esperienze di impegno di vita familiare. E questa è una cosa bella perché noi pensiamo al nostro impegno al Sinodo, così particolare e così speciale, nello stile della condivisione ampia all’interno della famiglia. Quindi, pensiamo che ci venga chiesto di offrire non un apporto di tipo teorico, astratto, ma un apporto che nasce dalla vita, dalla concretezza della vita. E dentro questa concretezza della vita, della nostra vita familiare, c’è chiaramente – in maniera molto forte, importante – il rapporto con i figli: il dialogo ed il confronto con loro.

D. – Quindi, quali sono i vostri auspici per questo Sinodo, considerando anche che l’Assemblea del 2014 sarà la prima tappa di percorso che si completerà con il Sinodo generale del 2015, anch’esso dedicato alla famiglia?

R. – (Prof. Franco) Auspichiamo che possa essere una bellissima occasione di riflessione illuminata dallo Spirito, capace di un dialogo vivo e significativo, capace di un ascolto attento della realtà in cui siamo e delle voci di tutti.

R. – (Prof. Giuseppina) L’auspicio è quello di un coinvolgimento ampio, perché la Chiesa diventi sempre più capace di accompagnare la vita delle persone, di accompagnarle all’incontro con l’amore del Signore che trasforma la vita, che la rende bella e luminosa e che libera le migliori potenzialità dell’umano, elevandone la dignità e il senso profondo.

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Card. Sandri: Iraq, fermare aggressore. Petrolio e armi dietro violenze

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Non si può pensare ad un Medio Oriente senza cristiani, le Nazioni Unite difendano la dignità di tutte le minoranze: così, in sintesi, il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, è intervenuto ieri a Washington, al summit inaugurale dell’Associazione “In defense of christians”. Si tratta di un’organizzazione no-profit che riunisce i capi delle Chiese Orientali, cattoliche ed ortodosse, insieme ad altri esponenti della vita sociale e politica mondiale, con l’obiettivo di riflettere sul modi in cui la comunità internazionale può agire in favore delle popolazioni del Medio Oriente. In questa regione, ha detto il porporato, si verifica “il più inaccettabile disprezzo della libertà religiosa e di ogni altro diritto umano” e le minoranze, non solo cristiane, vengono sottoposte a “sofferenze immani”.

Guardando ai “terribili avvenimenti” che si verificano specialmente in Iraq e in Siria, dove infuriano le milizie dello Stato Islamico (Is) – senza dimenticare l’Africa, soprattutto la Nigeria – il card. Sandri ha elencato i drammatici episodi di decapitazione, crocifissione, conversione ed espulsione forzata, infibulazione, distruzione dei luoghi di culto, rapimento, profanazione di Chiese e monasteri. Non solo: a tutto ciò si aggiunge “il barbaro indottrinamento di bambini di dieci anni, costretti ad inneggiare contro i presunti nemici e ad imbracciare le armi”, invece di giocare e andare a scuola, come i loro coetanei. Di qui, l’appello forte del cardinale prefetto affinché “ogni sostegno politico, economico e militare all’Is” ed alla sua “follia omicida” sia “esplicitamente rigettato” e venga interrotta “la complicità di un silenzio diffuso che avvolge il conflitto in Siria”.

“Non condivido e chiedo che non prevalga mai” – ha continuato il card. Sandri - la posizione di chi parla di “scontro di civiltà e di guerra in atto tra Islam e Cristianesimo”, anche se c’è chi tende a distruggere “purtroppo la chiara realtà di una convivenza culturale rispettosa e proficua” e mentre in Occidente “spesso si cade nella trappola di considerare la cultura araba come integralmente musulmana”. Al contrario, ha evidenziato il porporato, “non si può tacere il dubbio” dell’incidenza sul conflitto di “ingenti interessi economici in gioco”: “commercio di armi, controllo dei pozzi di petrolio e dei giacimenti di gas”, il tutto in nome di una “cultura dello scarto”, che lascia spazio “all’interesse economico personale”, annientando o non considerando “l’altro, la sua vita, la sua dignità”.

Quindi, a gran voce, il porporato ha chiesto che le Nazioni Unite “diventino sempre più e in modo trasparente” il luogo in cui “tutti i popoli difendano concretamente con risoluzioni ed azioni adeguate la dignità dei cristiani del Medio Oriente” e di ogni altra minoranza. “Con forza ripetiamo”, ha affermato il porporato, che il ritorno dei cristiani, in particolare a Mosul, “deve essere assicurato, pena la dissoluzione di una società che per secoli è stata capace di convivenza reciproca”. “Va fermato l’aggressore ingiusto – ribadisce il card. Sandri – ma non limitiamo il pensiero al solo uso della forza, in alcuni casi necessaria, e comunque solo entro il quadro di un accordo internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, coinvolgendo i Paesi arabi e musulmani”.

Sempre ieri, inoltre, il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali è stato invitato ad intervenire al Consiglio permanente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Anche in questa occasione, il porporato si è soffermato sul conflitto mediorientale, sulle “barbarie e le atrocità che colpiscono i più deboli, come agli anziani, le donne ed i bambini”. Il card. Sandri ha ricordato, poi, i sacerdoti rapiti in Siria ed i giornalisti “brutalmente uccisi” nel conflitto, pregando che “il loro sacrificio smuova le coscienza del mondo intero”. Non si può restare in silenzio, ha aggiunto il cardinale prefetto, di fronte alle minacce che colpiscono le Chiese di Terra Santa, luogo “culla dell’universale piano di salvezza nell’amore”. Chiedendo, quindi, a tutti i leader spirituali di “prendere posizione contro la violenza cieca e barbara”, il rappresentante vaticano ha sottolineato la responsabilità di “educare i fedeli a non cedere ad una visione del conflitto tra civiltà o religioni”. (A cura di Isabella Piro) 

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Mons. Tomasi: rompere il silenzio sulle schiavitù moderne

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“Dobbiamo rompere il silenzio” sulla piaga vergognosa della schiavitù contemporanea: è quanto ha affermato l'osservatore permanente della Santa Sede presso l'ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, mons. Silvano Maria Tomasi, intervenuto alla 27.ma sessione del Consiglio per i diritti umani in corso nella città elvetica.

Il presule ha parlato di “forme scioccanti di schiavitù contemporanea”, una “ferita aperta sul corpo della società”: rapimenti di massa, commercio di giovani ragazze”, come avviene ad opera degli estremisti islamici di Boko Haram in Nigeria o dei miliziani del sedicente Stato Islamico in Iraq. Circa 250.000 bambini – ha detto mons. Tomasi - vengono arruolati forzatamente e perfino usati come ‘scudi umani’ nelle prime linee dei conflitti armati”. Sono 5,7 milioni i bambini “vittime del lavoro forzato” o costretti al matrimonio.

Mons. Tomasi sottolinea la necessità di combattere contro la povertà, la disoccupazione, la mancanza di istruzione e l’analfabetismo per eliminare lo sfruttamento dei minori e la tratta di esseri umani. “La comunità internazionale – ha osservato - ha già sviluppato, e cerca di attuare, numerose convenzioni e accordi internazionali” contro le forme contemporanee di schiavitù”, ma la Santa Sede ritiene “che tali strumenti non soddisfano pienamente i loro obiettivi se non ci ispiriamo allo stesso tempo ad una più ampia volontà politica e coinvolgendo tutti i membri della società”.

Oggi – ha detto – assistiamo ad una “vasta gamma di continui abusi dei diritti umani, in particolare in quelle aree di conflitto civile e politico dove la violenza ha causato l'uccisione di migliaia di persone innocenti e numerosi altri sfollati”. “La comunità internazionale – ha sottolineato - deve agire per rimuovere le cause alla radice, non solo attraverso le parole, ma anche ‘ponendo fine’ a questi conflitti e questi "crimini contro l'umanità".

E’ “compito difficile e grave responsabilità” di tutti gli Stati – ha aggiunto – “difendere e promuovere i diritti umani per tutte le persone”. La Santa Sede afferma inoltre “la necessità di proteggere e difendere il diritto alla libertà religiosa, che è chiaramente sotto attacco in alcune parti del mondo di oggi”. Questo provoca lo spostamento forzato di migliaia di civili appartenenti a minoranze religiose e a numerosi abusi: “C'è il rischio reale che queste persone saranno impossibilitate a tornare nelle loro case da cui sono state sradicate con la forza e che non potranno avere garanzie di protezione e sicurezza per vivere in pace nelle loro città e villaggi, come cittadini con eguali doveri e diritti”. (A cura di Sergio Centofanti)

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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All'udienza generale Papa Francesco parla della Chiesa che educa con l'esempio e i gesti.

Troppe piccole vittime: nel servizio internazionale, il rapporto dell'Onu sui bambini nei conflitti.

Dissacriamo i dissacratori: in cultura, Dario Fertilio sulla possibilità di un nuovo inizio nell'arte contemporanea.

Sotto i cieli del lunfardo: Claudio Ongaro Haelterman sulla figura di Leopoldo Marechal e il nuovo romanzo latinoamericano.

Terra e popolo: Cristiana Dobner sulla polemica tra Gerhard Kittel e Martin Buber durante l’ascesa di Hitler.

Un missionario alla scoperta delle Antille: Giovanni Cerro sull'avventura seicentesca dell’esploratore domenicano Jean-Baptiste Du Tertre.

Ai fratelli cristiani d’Oriente: nel servizio religioso, la dichiarazione comune dei musulmani di Francia a sostegno delle minoranze vittime di persecuzioni.

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Oggi in Primo Piano



L'amore vince tutto: la testimonianza dei cristiani in Burundi

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Dopo l’arresto, ieri, di un uomo di 33 anni che ha confessato di aver ucciso le tre suore italiane in missione a Kamenge, alla periferia della capitale burundese Bujumbura, ci si continua ad interrogare sulle reali motivazioni di tanta violenza. Non regge infatti la sua tesi e cioè che il convento si trovasse su un terreno di sua proprietà. Dubbi permangono anche sul fatto che l’uomo abbia agito da solo. Intanto, mentre proseguono le indagini della polizia, nella Messa celebrata stamattina, la comunità cristiana locale si è stretta intorno alle tre salme in procinto di partire per Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove domani si terranno i funerali. Sentiamo al microfono di Adriana Masotti, il padre saveriano Rubén Macìas, raggiunto telefonicamente a Kamenge: 

R. - In questo momento stiamo uscendo dalla Messa. Quasi tutti i vescovi del Burundi erano presenti. C’erano tante autorità e, soprattutto, c’era un popolo di Dio che soffre di questa violenza, che vuole proclamare che l’amore deve vincere tutto. Abbiamo celebrato la Messa alla presenza di una moltitudine di gente. Ora stanno portano i corpi in Congo. Oggi faranno una sosta nella località di Luvungi, dove le sorelle avevano lavorato per molto tempo. Domani mattina andranno fino a Bukavu dove, nella cattedrale, sarà celebrata una Messa in presenza dell’arcivescovo. Dopo di che saranno sepolte nella comunità delle saveriane a Bukavu.

D. - Sempre accompagnate da persone del Burundi …

R. - Certamente. Stanno partendo tante macchine in questo momento; le accompagneranno fino a Bukavu per partecipare a questa Messa. Ci sono gli ambasciatori del consolato italiano e tante altre autorità. I cristiani, i confratelli, le sorelle e i preti saveriani, faranno questa ultima cerimonia di addio alle nostre amate sorelle.

D. - Qual è il clima, il sentimento più diffuso tra le persone lì presenti?

R. - Ci sono sentimenti contrastanti, perché sono state assassinate con una violenza, con una crudeltà inimmaginabili...  Erano delle sorelle piene d’amore! In questa cerimonia abbiamo voluto proclamare proprio questo: l’amore che vince malgrado tutto. L'arresto di quell’uomo che è stato arrestato ieri ha dato un po’ di sollievo ai nostri cuori, ma quella violenza non può vincere l’amore di queste sorelle che hanno dato la loro vita - più di 40 anni - per l’Africa.

D. - Appunto ieri l’arresto e la confessione di questo giovane. La polizia di Bujumbura non ha dubbi sulla sua colpevolezza: lui stesso ha confessato. Ci sono però perplessità, dubbi in voi che rimangono?

R. – Sì. sapere se ha operato da solo. Lui ha confessato. La polizia è sicura che aveva il numero di telefono della sorella Lucia e anche la chiave della casa. Allora sono tanti, tanti, gli elementi per dire che sia lui l’assassino. Io l’ho visto, sono stato di fronte a lui, occhi negli occhi …  Non è un matto: è un uomo che sapeva quello che faceva. Allora lo ha fatto da solo? È questo il nostro interrogativo. La polizia sta svolgendo le indagini, abbiamo fiducia nel loro lavoro e aspettiamo il risultato dell’inchiesta.

D. - È credibile la motivazione che quell’uomo ha indicato, cioè che le suore stessero in un edificio costruito sopra un terreno appartenente alla sua famiglia?

R. - Quella è una bugia! Le sorelle non hanno proprietà. Vivevano nella proprietà della parrocchia che appartiene alla diocesi. È una bugia grande come il pianeta Terra!

D. - E allora quali potrebbero essere le motivazioni reali del suo gesto?

R. - È quello che ci chiediamo anche noi. Aspettiamo che l’indagine possa dirci qualcosa di più, perché è incomprensibile un fatto del genere; conosceva i movimenti delle suore, sicuramente conosceva la casa … Nulla può spiegare una violenza del genere. Non è umano! Non è umano!

D. - Era una cosa che in qualche modo si poteva prevedere? I missionari sono protetti o comunque indifesi dove si trovano?

R. - È troppo dire “indifesi”. Ogni missionario che viene in terra di missione sa che può trovare questo rischio. Non possiamo avere la sicurezza. Noi siamo missionari, non siamo politici o altre persone che hanno bisogno di una sicurezza totale. La nostra sicurezza è Cristo e il Vangelo che proclamiamo: il resto è nulla. La notte, quando suor Bernardetta è stata uccisa, la parrocchia era circondata da un centinaio di poliziotti e nonostante questo sappiamo cosa è accaduto. Questo solo per dire che non è una questione di sicurezza; purtroppo questo cose accadono quando il Vangelo dell’amore si predica in mondo violento come questo.

D. - Quindi prevale la voglia di continuare questo vostro impegno e non quello di cedere ai timori e alla paura …

R. - Certo, la croce di Cristo non è una croce che dobbiamo temere. Dobbiamo portarla perché sappiamo che c’è la risurrezione. Noi saveriani rimaniamo qui. Queste tre martiri si aggiungono agli altri tre martiri precedenti: sono sei i martiri saveriani in questa terra. Questo non ci spinge a partire, ma piuttosto ci incoraggia a rimanere; significa che abbiamo ancora bisogno di proclamare il Vangelo in questa terra, perché il Vangelo non è ancora arrivato nel cuore di tanti burundesi. 

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Chiuso l'incontro di Sant'Egidio. Le religioni: mai più la guerra

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Da una terra che ha subito l’orrore della Grande Guerra, e in memoria dei tanti caduti, i leader delle religioni mondiali lanciano il loro appello di pace a chiusura del 28.mo appuntamento organizzato dalla comunità di Sant’Egidio “Religioni e culture in dialogo”. Tre giorni di incontri ad Anversa, in Belgio, che hanno visto i partecipanti uniti nel ripudiare la guerra e nell’indicare nel dialogo e nelle preghiera le uniche armi per scongiurare la violenza. Dal palco è stato poi lanciato il prossimo incontro tra le religioni: nel 2015 a Tirana, in Albania. La nostra inviata, Francesca Sabatinelli

A cento anni dallo scoppio del primo conflitto mondiale, la guerra è di nuovo tornata sul suolo europeo, travolge convivenze millenarie in altre terre e fa soffrire troppi. Da Anversa si leva il grido delle religioni mondiali: "Mai più la guerra!". Nel loro appello i leader religiosi chiedono al mondo di riparare alle tante occasioni perse e di costruire la pace, di accorciare le distanze, di prevenire i conflitti. “Abbiamo ascoltato  la preghiera di milioni di profughi e fuggiaschi – scrivono – di chi chiede di non morire di fame, di sete e di malattie curabili in altri luoghi. La richiesta di dignità dei poveri, il bisogno di giustizia di popoli, le periferie del mondo”. Ora è quindi il momento della decisione e non della rassegnazione, perché rassegnazione e  divisioni hanno indebolito le comunità religiose, la politica, gli assetti e le istituzioni internazionali. Le religioni, che devono interrogarsi se “sono state catturate in una logica conflittuale”,  possono ancora dare “cuore e anima alla ricerca della pace come destino comune di tutti i popoli”. Ecco quindi che da Anversa l’impegno è di assumersi la responsabilità della pace quando ormai sono in pochi ancora a sognarla, e le religioni lo fanno ribadendo che: “Non c’è guerra santa, che l’eliminazione dell’altro in nome di Dio è sempre blasfema, è solo orrore e terrore”. “Accecati dall’odio, ci si allontana dalla religione pura e si distrugge quella religione che si dice di difendere”. L’impegno è dunque di difendere la vita dei fratelli di religione diversa, di lavorare per il futuro del mondo, perché la guerra è una “grande stoltezza” e la pace è una “cosa troppo seria per lasciarla solo ad alcuni”. La guerra si vince con la pace, il rischio è che rimangano solo macerie e odio. L’appello si chiude con un richiamo ai giovani, a non farsi ingannare “dal realismo triste che dice che dialogo e preghiera non servono”. Perché senza preghiera e senza dialogo il mondo soffoca. E perché tutto è perduto con la guerra.

Il patriarca di Babilonia dei Caldei Louis Raphaël I Sako è intervenuto all’incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio ad Anversa, in Belgio. Ha parlato della fede forte dei cristiani iracheni, che resiste nonostante le persecuzioni. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

R. - Siamo forti, perché per noi la fede, il credere non è una ideologia, non è una speculazione. Credere è amare! E questo è diverso. Qui, purtroppo, la gente pensa che la religione sia fuori tempo. Questo vuoto qui è molto pericoloso per noi. La gente ci dice che il cristianesimo in Occidente è finito: ma non è vero! Sono scandalizzati. Dicono: “Allora il cristianesimo non è una vera religione … E’ l’Islam. Bisogna islamizzare il mondo”. Penso che anche questi giovani fondamentalisti jihadisti che arrivano dall’Occidente per entrare nell’Is e in altri gruppi siano più pericolosi degli arabi, perché loro cercano un ideale, formare uno Stato islamico con una morale e un ideale.

D. - Come si risponde a questo? Con l’invito al dialogo e alla pace, così come si sta indicando qui ad Anversa…

R. - Ci sono due livelli. Quando parliamo della pace capiamo che cosa è la pace e il dialogo. Ma l’altro deve sapere, deve essere cosciente che cosa vuole dire dialogo e pace; deve impegnarsi non solo con le parole, ma nel concreto. Purtroppo, talvolta, alcuni usano un doppio linguaggio: “la nostra religione (musulmana, ndr) – dicono - è la religione della pace e della tolleranza…”. Ma bisogna leggere in maniera simbolica e mettere le cose nel contesto storico: oggi non si possono prendere le cose e attuarle alla lettera, perché il contesto è cambiato. Come noi facciamo con la Bibbia. C’è una interpretazione, un’esegesi, e loro devono fare questo per la formazione nelle scuole e per la formazione di una nuova generazione, altrimenti l’Islam non ha futuro: devono capire dove stanno andando. Dappertutto ci sono problemi, violenza … e i cristiani vanno via. E dopo questi jihadisti andranno ad uccidere i loro fratelli. Già lo fanno. Penso che il mondo musulmano sta vivendo una crisi.

D. - Il mondo musulmano che è qui, però, all’incontro di Sant’Egidio parla con altre parole: chiede l’incontro, ripudia la violenza…

R. - Non sono realisti! Devono avere il coraggio di dire le cose come sono e cercare soluzioni. Loro devono imparare dalla nostra esperienza: se l’Islam vuole essere accettato e avere un avvenire, deve essere aggiornato. Oggi, con questa mentalità, con questa ideologia che combatte la vita e la cultura, il realismo dov’è?

D. - Però oggi l’Islam dell’Is come lo si ferma?

R. - E’ appoggiato da tanti: dunque hanno soldi, tanti soldi; hanno armi sofisticate; hanno molti militari. Da dove vengono? Perché? Cosa vogliono? Cosa hanno fatto i cristiani? I cristiani del Medio Oriente hanno contribuito molto, molto, alla cultura araba e musulmana. Bisognerebbe rieducare la gente a vivere insieme, in convivenza, con responsabilità, con rispetto. La cittadinanza? Non c’è! Quello che adesso gioca di più è la religione! La prima religione, la seconda o la terza religione… E questo non è giusto!

D. - La Stato iracheno come si comporta nel proteggere i suoi cittadini cristiani? Ritiene davvero che ci sia bisogno di una protezione internazionale?

R. - Ci vuole un intervento militare internazionale, prima di tutto. Il governo centrale è incapace, perché adesso non controlla che la metà del Paese: controlla Baghdad e il sud; ma Mosul, Ramadi, il Kurdistan? C’è un esercito di professionisti, ci sono tante milizie… Tutto è settario. L’Is è uno Stato molto forte, ben preparato e hanno le armi… Non possiamo riuscire da soli!

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Obama: raid Usa contro jihadisti anche in Siria

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Il presidente statunitense Barak Obama dovrebbe annunciare questa notte i nuovi raid contro l’Is in Siria e Iraq, mentre prosegue la staffetta diplomatica del segretario di Stato, John Kerry, per ottenere l’appoggio dei Paesi arabi alla coalizione internazionale. Sul terreno si continua a combattere, sia in Siria che in Iraq, dove non cessano le violenze contro le minoranze. La deputata irachena Vian Dakhil denuncia che sono cinquemila le donne yazide attualmente in ostaggio dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Elvira Ragosta

Per John Kerry, prima la visita con il neopremier iracheno al Abadi, poi il trasferimento a Gedda, dove si riunisce il Consiglio di cooperazione del Golfo e i rappresentanti di Egitto Turchia e Giordania. In tarda notte si attende l’annuncio ufficiale della Casa Bianca per possibili nuovi raid aerei su Siria e Iraq, ma il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov esprime il suo timore che l’offensiva aerea in Siria nasconda il pretesto di colpire le forze governative. Abbiamo chiesto un commento a Massimo Campanini, docente di storia di islam contemporaneo all’Università di Trento:

R. – E’ evidente che i Paesi arabi cerchino di trovare in Obama una rispondenza alle loro paure, ai loro timori, così come è evidente che la Russia cerchi di salvaguardare il suo ruolo in Medio Oriente. La Russia deve – quasi per dovere geostrategico – cercare di marcare la sua differenza rispetto agli Stati Uniti, ma poi evidentemente non sarà in grado di rifiutare un eventuale intervento americano.

D. – L’annuncio della nuova offensiva contro il sedicente Stato Islamico da parte del presidente statunitense Obama è atteso per questa notte. E’ una giornata particolare, perché siamo al 13.mo anniversario dell’11 settembre … 

R. – Sì: indubbiamente, la data scelta è simbolica perché non è che ci siano momenti maggiori e di maggiore utilità o di minore utilità per scatenare l’attacco contro l’Is; e vuole altrettanto evidentemente rimarcare il ruolo protettivo – per dire così – che gli Stati Uniti potrebbero o vorrebbero svolgere in Medio Oriente.

D. – In questi giorni c’è allerta per il terrorismo in Occidente: alcuni Paesi hanno aumentato le loro misure di sicurezza. Pericolo che oggi arriva anche da Libia e Somalia, Paesi dove il caos politico ha creato come una fucina di terroristi …

 R. - … ma è chiaro che la debolezza intrinseca di tutti questi Paesi favorisca l’espansione e il radicamento di forze oscure di tipo jihadista ed estremista al loro interno. Una politica mediorientale che cerchi di sostenere la democrazia e comunque lo status quo può essere estremamente utile per salvaguardare anche l’infiltrazione del jihadismo in Europa.

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Violenza jihadista: commenti di padre Basanese e dell'imam Izzedin

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Dopo l'appello giunto dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, si sono susseguite, nelle ultime settimane, le condanne dei rappresentanti del mondo musulmano ai crimini di guerra commessi in Medio Oriente dai terroristi del sedicente Stato Islamico.  Alle parole è necessario però accompagnare azioni concrete per sradicare la violenza, come sottolinea padre Laurent Basanese, gesuita, docente di Teologia araba cristiana e  Islamistica presso la Pontificia Università Gregoriana. L'intervista è di Fabio Colagrande

R. - Ci sono state delle reazioni abbastanza veloci, ma progressive, da parte del muftì egiziano, del muftì della Mecca … Però, bisogna ascoltare attentamente quello che dicono. Ad esempio, il muftì egiziano un mese fa diceva: “Questo Stato islamico rappresenta un pericolo per l’islam e per i musulmani, danneggiando la sua immagine, uccidendo e diffondendo la corruzione”. Ha detto questo subito dopo la chiamata della Santa Sede ad una reazione. Lo stesso muftì della Mecca ha reagito dicendo: “Dobbiamo combattere lo Stato islamico se questo combatte i musulmani”. Quindi c’è sempre un po’ di ambiguità. Direi che non c’è un islam che condanna ma delle autorità; o meglio, se c’è un islam che condanna lo Stato islamico, sono gli sciiti che non hanno mai voluto un califfato. Grazie a Dio ci sono anche degli "Schindler" musulmani, persone che salvano cristiani, yazidi … Ma il punto è che non basta condannare: bisogna agire alla radice per fermare questa nuova forma di nazismo che promuove l’odio razziale. Reagire: in che modo? Formando alla riconciliazione tra sciiti e sunniti, formando al perdono nelle prediche nelle moschee, all’amore verso i cristiani, verso gli ebrei, verso gli yazidi …

D. - Come giudica la copertura che i mass media occidentali hanno dato alle prese di posizione dei rappresentanti musulmani nei confronti del sedicente Stato islamico?

R. - Non guardo con attenzione i giornali o internet ogni giorno. Direi che anche se prese di posizioni fossero meglio diffuse non cambierebbe di molto. Aspettiamo atti e riforme non solo per il bene dei cristiani o degli yazidi, degli sciiti … L’umanità non vive più nel Medioevo. Quindi c’è bisogno di atti.

D. - Per il bene degli stessi musulmani potremmo dire …

R. - Certo, anche per loro.

"Il rispetto e la protezione della Gente del Libro é un dovere ineludibile di qualunque potere che si richiami all’Islam". L'affermazione è contenuta in un "Appello contro le guerre" pubblicato il 12 agosto scorso sul sito dell'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche d'Italia. Fabio Colagrande ne ha parlato con il presidente Elzir Izzedin, imam di Firenze: 

R. - Tutto il mondo islamico si ribella a questo gruppo criminale che cerca di usare la religione, e compie atti criminali in nome della religione. Credo che sia necessario lavorare per trovare un sistema di libertà, di democrazia in questa parte del mondo - in Siria, in Iraq - e trovare giustizia per non lasciare alibi ad un gruppo, ad una persona di prendere la bandiera della religione come se fosse la violenza o la criminalità che possono far tornare la giustizia sulla terra. Abbiamo bisogno di lavorare su un lato molto importante: il confronto e il dialogo interreligioso. C’è bisogno degli atti veri! Ci sono tanti pregiudizi. Cristiani, yazidi e altri gruppi hanno vissuto con l’islam per 14 secoli; stiamo diventando ostaggi di una piccola minoranza criminale sia nel mondo islamico che cristiano ma direi di tutta l’umanità. Dobbiamo lavorare insieme per uscire da questa trappola.

D. - Come presidente delle comunità islamiche d’Italia, dell’Ucoii, come giudica il fatto che molti musulmani provenienti dall’Italia siano andati a combattere nelle file dei terroristi dell’Is?

R. - Qui bisogna fare una precisazione. Ringraziando Dio quello che abbiamo potuto vedere, leggere nei giornali è che le nostre forze dell’ordine hanno detto che al massimo sono una trentina o una quarantina i musulmani che sono andati in Iraq. Fra l’altro si tratta di persone che hanno deciso di partire - attraverso internet, e non le moschee - e che fino a ieri non erano musulmani; all’improvviso hanno scelto l’islam per andare lì. Noi in Italia siamo tranquilli, vediamo la nostra realtà italiana tranquilla. Dopo l’11 settembre abbiamo usato una strategia politica del tipo “meglio prevenire che curare”. Abbiamo fatto tantissimi corsi di aggiornamento per l’imam, abbiamo aperto la moschea a tutti e questo ha fatto sì che oggi possiamo dire che in Italia siamo tranquilli.

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Ebola: in Liberia misure della Chiesa per evitare il contagio

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Non si arresta l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale. Secondo l’ultimo bilancio fornito dall’Oms, il bilancio delle vittime è salito a circa 2.300 morti. mentre sono 4.293 i casi confermati di contagio. Tra i Paesi più colpiti: Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria e Senegal. Sempre secondo l’Oms “molte migliaia di nuovi casi sono attesi in Liberia nelle prossime settimane”, dove la diffusione del virus sembra ormai fuori controllo. Il servizio di Marco Guerra: 

L’ultimo allarme arriva da uno studio dell'università di Oxford, secondo cui l’emergenza Ebola in Africa potrebbe non essere limitata solo ai cinque Paesi più colpiti fino oggi, ma estendersi ad altri 15. Questa possibilità, molto concreta secondo la ricerca, è legata ai pipistrelli della frutta diffusi nella foresta africana e consumati tra la popolazione. L’allerta segue quella lanciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che prevede migliaia di nuovi casi nelle prossime settimana in Liberia, il Paese finora più colpito con oltre 1.200 decessi. In Liberia, avverte l’Oms, gli interventi convenzionali per il controllo dell'epidemia, “non stanno avendo un impatto adeguato” ed i “Paesi che stanno  supportando la risposta contro Ebola devono prepararsi ad intensificare i loro attuali sforzi di 3-4 volte”. Gli Usa intanto hanno sbloccato altri 10 milioni di dollari portando a 100 milioni lo sforzo complessivo sostenuto finora. Ma sulla situazione in Libera e l’impegno della Chiesa locale per evitare la diffusione del virus sentiamo suor Annarita Brustia, delle Missionarie della Consolata, rientrata da pochi proprio dalla Liberia:  

R. - La popolazione è un po’ nel panico in questo momento perché l’Ebola si sta diffondendo molto velocemente. Inizialmente, gran parte della popolazione pensava che si trattasse di avvelenamenti, … Non di Ebola. Non riuscivano a capire cosa fosse questa “Ebola”. Ma adesso ovunque ci sono cartelli, perché Ebola è una realtà in Liberia. Per questo molta più gente adesso ci crede: prende le misure, prende più coscienza di questa malattia.

D. - Può dirmi quello che state facendo voi? Ha visto casi? La gente è preoccupata?

R. - Sì, ho visto casi. Ad esempio a Dolo Town, nel mese scorso, in una chiesa c’è stata una conferenza alla quale tanta gente ha partecipato - circa duecento persone -. Tra queste persone c’era qualche persona infetta, forse perché avevano partecipato al funerale di qualche persona morta di Ebola. Comunque queste persone a loro volta, hanno infettato tante altre persone.

D. - Quindi anche la Chiesa sta sensibilizzando? Si stanno evitando contatti per quanto è possibile?

R. - Sì questo si fa, tutti lo fanno. In tutte le chiese nessuno dà il segno di pace, non ci si ammassa, si mantengono le distanze di almeno un metro tra una persona e l’altra, ci si lava le mani sempre con una soluzione di conegrina. In tutte le chiese, in tutti gli ambienti pubblici dove entra la gente, persino in casa nostra, c’è un secchio con un tappo rubinetto in cui ci si lava le mani prima di entrare in qualsiasi posto, perché la conegrina uccide questo virus. Altra precauzione: raccomandano tanto di non prendere parte ai funerali perché ci posso essere dei riti funebri dove si tocca il corpo del defunto. Anche il nostro arcivescovo è apparso in televisione insieme all’imam della Liberia e la Presidente raccomandando appunto di stare lontano, di non toccare mai il morto, perché c’è alto rischio di contagio. Persino le offerte! Una volta si andava in processione per portare le offerte davanti all’altare: adesso no, passa un cestino tra i banchi.

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Il nuovo primate d'Irlanda: una Chiesa con il coraggio di rialzarsi

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È mons. Eamon Martin il nuovo arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda. Lunedì scorso infatti Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della stessa arcidiocesi presentata dal cardinale Seán Brady, per sopraggiunti limiti d'età. Mons. Martin, 52 anni, è originario di Derry, in Irlanda del Nord. Al microfono di Susy Hodges, racconta le emozioni di questi giorni:

R. – Well, as you can imagine, I’m a bit overwhelmed by it all …
Come può immaginare, tutto questo mi ha un po’ scombussolato. Sono qui ad Armagh dall’aprile 2013, in veste di arcivescovo coadiutore, e in realtà aspettavo questo momento da quando il cardinale Brady aveva presentato le sue dimissioni, qualche settimana fa. Sono un po’ frastornato e preoccupato per il futuro, ma spero di essere supportato dalle preghiere a dal sostegno di tante persone. E poi ho fiducia in Dio: mi aiuterà nella strada che ho davanti.

D. – Qual è la maggiore sfida che la Chiesa si trova ad affrontare nella sua arcidiocesi?

R. – I really feel motivated by Pope Francis to think of pastoral ministry …
Papa Francesco mi ha dato un grande spunto di riflessione, quando ha parlato di ministero pastorale in chiave missionaria: mi piace molto questa sua espressione. Mi sembra che veramente il Pontefice ci abbia lanciato la sfida a pensare l’evangelizzazione in termini di missione: bisogna andare fuori, verso le periferie, a portare la Buona Novella di Gesù Cristo a chiunque incontriamo. Per quanto mi riguarda, è la mia priorità maggiore e anche la mia sfida maggiore. In qualche modo, negli ultimi decenni, ma soprattutto negli ultimi anni, noi – la Chiesa in Irlanda – ci siamo un po’ chiusi su noi stessi, perché abbiamo attraversato un periodo molto difficile, soprattutto per quanto riguarda gli scandali degli abusi, ma anche per la crescente secolarizzazione e la diminuzione delle vocazioni. Quindi, bisogna avere il coraggio di rialzarsi e “uscire”: ecco, questa è quella che considero la mia sfida. Ma anche la grande avventura che è l’evangelizzazione: questo significa essere un credente nel mondo di oggi.

D. – Lei ha parlato del terribile trauma causato dagli abusi da parte di esponenti del clero. Quale certezza lei può avere che questo non accada più, grazie alle misure di sicurezza che sono state prese?

R. – Well, very sadly we can never say “never”, that there won’t be someone there …
Con grande rammarico, non possiamo mai dire “mai”: non possiamo sapere che non ci sia qualcuno che si faccia forte della sua posizione nella Chiesa per perpetrare questo crimine, che è tra i più odiosi. Quello che dobbiamo fare, è essere vigili, dobbiamo mettere in atto procedure di salvaguardia dei minori e linee guida molto severe in seno alla Chiesa, perché la Chiesa non dovrà mai più essere un posto sicuro per chiunque voglia fare del male ai bambini.

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Nella Chiesa e nel mondo



Onu: migliaia di bambini vittime dei conflitti

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“La moltiplicazione delle crisi che colpiscono i bambini dall’inizio del 2014 sta creando delle sfide senza precedenti che mettono in secondo piano i progressi fatti finora per proteggerli dagli effetti della guerra” ha detto al Consiglio di sicurezza, durante la presentazione del suo ultimo rapporto, Leila Zerrougui, rappresentante speciale per i bambini e i conflitti armati. “Sono inorridita – ha detto Zerrougui – dal totale disprezzo per la vita umana dimostrato dai gruppi estremisti armati, come lo Stato Islamico e Boko Haram”.

Secondo il monitoraggio delle Nazioni Unite - riporta l'agenzia Misna - fino a 700 bambini sono stati uccisi o mutilati in Iraq dall’inizio dell’anno, anche in esecuzioni sommarie. Nel frattempo, Boko Haram ha attaccato scuole causando la morte di almeno 100 studenti e 70 insegnanti nel 2013. Oltre 200 ragazze rapite da Boko Haram nel mese di aprile sono ancora disperse, mentre il gruppo armato continua ad attaccare e rapire altri bambini.

“A Gaza, oltre 500 bambini sono stati uccisi e più di 1.300 feriti” ha detto Zerrougui chiedendo un’indagine approfondita sull’impatto che la guerra di quest’anno ha avuto sui bambini. Migliaia di famiglie sfollate vivono ancora nelle scuole e per i bambini di Gaza l’accesso all’istruzione rimarrà limitato. Almeno 244 scuole sono state danneggiate o distrutte dalle Forze armate israeliane durante i recenti combattimenti. L’instabilità e le crescenti tensioni in Libia, Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Mali e Sud Sudan continuano a minacciare i bambini.

La relazione dei rappresentanti speciali è avvenuta sei mesi dopo il lancio del Childrens Fund delle Nazioni Unite (Unicef), la campagna “Bambini, non soldati” che ha l’obiettivo di porre fine all’arruolamento di bambini e ragazzi nelle forze governative entro la fine del 2016.

“Una pace duratura non potrà mai essere raggiunta senza dare ai bambini i mezzi, le competenze e l’istruzione per ricostruire società e istituzioni lacerate da conflitti armati” ha detto Zerrougui, sottolineando che occorre fare di più per includere negli accordi di pace disposizioni speciali per i bambini colpiti dai conflitti. (R.P.)

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Pakistan: allarme alluvioni. La Caritas invia volontari

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A causa delle forti inondazioni che hanno sconvolto la vita della popolazione nelle province pakistane di Punjab, Sindh e Jammu e Kashmir, la Caritas Pakistan si è mobilitata per rispondere all’emergenza. Secondo dati inviati all'agenzia Fides da Caritas Pakistan, oltre 230 sono i morti e 400mila gli sfollati, mentre l’esercito e la protezione civile continuano a mettere in salvo migliaia di persone.

In Punjab oltre 700 villaggi sono stati inondati e le colture su migliaia di ettari di terreno sono completamente distrutte. Distretti come Hafizabad, Sialkot e Gujranwala sono tagliati fuori dal resto del Paese. Lo stesso per dieci distretti in Jammu e Kashmir, gravemente colpiti.

La Caritas lancia un appello umanitario: “Migliaia di famiglie sono in attesa di cibo, rifugi temporanei, servizi sanitari, acqua potabile, mentre sono già stati segnalati 26 casi di dengue. Non c'è stato alcun avviso dalle autorità e nessuna prevenzione o preparazione alle alluvioni”.

Data la situazione critica, Caritas Pakistan ha già inviato squadre di volontari nelle zone colpite per accertare il da farsi. La Caritas ha ricevuto numerose richieste di aiuto da parrocchie e comunità cristiane locali. Le aree colpite sono densamente popolate e la maggioranza delle comunità cristiane vivono, infatti, proprio nelle aree interessate dalle inondazioni.

A Lahore - riferisce l'agenzia AsiaNews - è di almeno 24 morti e di sette feriti il bilancio aggiornato delle vittime del crollo di una moschea a causa delle forti piogge di questi giorni. Il luogo di culto sorge nel quartiere di Daroghawala, una delle zone più povere della metropoli, considerata la capitale culturale del Paese. Per Bilal Yasin, ministro del governo provinciale, i forti rovesci hanno contribuito a indebolire la struttura della moschea, che ha ceduto di schianto.

Le autorità di Islamabad hanno diramato l'allerta per 700mila cittadini, costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di crolli e inondazioni.

In India in queste ore centinaia di persone stanno cercando di lasciare Srinagar, la più importante città del Kashmir indiano; molti i turisti ammassati all'aeroporto, in attesa del primo volo utile per partire, assieme a lavoratori migranti in cerca di un viaggio gratuito perché impossibilitati a pagare il biglietto.

In Pakistan è previsto un ulteriore peggioramento della situazione; i muri provvisori di contenimento eretti accanto a fiumi e torrenti stanno cedendo, riversando altra acqua nei villaggi e sulle campagne. Il premier Nawaz Sharif parla di "momento triste" per la storia del Paese. Si è trattato di un evento "improvviso" e "nessuno poteva prevederne la portata". 

La Federazione internazionale della Croce Rossa (Ifrc) - riporta l'agenzia Misna - ha detto che si sta preparando per lanciare un appello anche per aiutare le vittime delle inondazioni in Bangladesh. L’alluvione, che ha colpito più di tre milioni di persone in tutto il Paese causando oltre 300.000 sfollati, è descritta come la peggiore dal 2007, quando più di 10 milioni di persone sono state colpite. (R.P.)

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Terra Santa: pellegrinaggio per la pace dei vescovi Usa

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Inizia domani, giovedì 11 settembre il pellegrinaggio che 18 vescovi degli Stati Uniti d’America realizzeranno nei luoghi della vita terrena di Gesù con l'espressa intenzione di pregare per la pace in Terra Santa.

“Il nostro pellegrinaggio - ha dichiarato il vescovo di Des Moines, mons. Richard E. Pates, presidente del Committee on International Justice and Peace dei vescovi Usa e promotore dell'iniziativa - non poteva arrivare in un momento più critico. Il conflitto tra Israele e Hamas, l'ultimo dei troppi cicli di violenza, ha seriamente intaccato la speranza per la pace in Terra Santa. Ora più che mai c'è bisogno di pregare per la pace”.

I 18 Vescovi partecipanti al pellegrinaggio visiteranno Gerusalemme, Nazareth e Betlemme. Durante la loro permanenza di 7 giorni in Terra Santa – riferiscono fonti locali all'agenzia Fides – è previsto anche un incontro con il parroco cattolico di Gaza, Jorge Hernandez, il religioso dell'Istituto del Verbo Incarnato ricevuto in udienza da Papa Francesco lo scorso 29 agosto. (R.P.)

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Colombia: la Chiesa celebra la “Settimana per la Pace”

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La Chiesa cattolica colombiana sta celebrando da domenica 7 settembre, la “Settimana per la Pace”, con l’obiettivo di rendere consapevoli i colombiani sull’importanza di trasformarsi in “costruttori di pace”. L’arcivescovo di Bogotà, il card. Rubén Salazar Gómez - riporta l'agenzia Fides - ha lanciato un appello alla popolazione sull’importanza di essere costruttori di pace, precisando che la firma di un accordo di pace tra il Governo e i ribelli delle Farc non implica un immediato stato di riconciliazione.

“Occorreranno molti anni prima che si possa parlare di una pace stabile nel Paese e questo dipende da ognuno di noi, dal nostro cuore, dalla nostra volontà di perdonare, riconciliarci, accettare e rispettare gli altri e lavorare insieme per la pace” ha detto il cardinale. L’arcivescovo ha spiegato che la “Settimana per la Pace” è una iniziativa promossa ogni anno dalla Chiesa cattolica insieme ad altre istituzioni in memoria del grande difensore dei Diritti Umani, San Pedro Claver, il primo nel Paese che difese gli schiavi provenienti dall’Africa sbarcati nel porto di Cartagena de Indias.

La Conferenza episcopale colombiana (Cec) ha intanto annunciato la sua adesione alla campagna “Soy Capaz de vivir en armonía” proposta dalla società civile con il proposito di sensibilizzare la cittadinanza sempre sul tema della riconciliazione. “Soy capaz” è centrata sulla riconciliazione di tutti i colombiani, come ha sottolineato mons. José Daniel Falla Robles, segretario generale della Cec. Il sito web della Cec riporta una immagine di Papa Francesco che abbraccia i leader di comunità musulmane ed ebraiche, a dimostrazione che si può vivere in armonia rispettando le differenze. (R.P.)

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Algeria: nuove indagini sui 7 monaci di Tibhirine uccisi nel '96

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A 18 anni dalla morte dei 7 monaci francesi di Tibhirine, in Algeria, il magistrato francese Marc Trévidic è stato autorizzato, in seguito ad una rogatoria internazionale indirizzata alle autorità algerine, a raggiungere il nord Africa per interrogare 22 testimoni ed assistere all’autopsia dei crani dei religiosi trappisti i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Il giudice esperto di antiterrorismo sarà ad Algeri il 12 e 13 ottobre per proseguire le sue indagini sull’uccisione di Christian de Chergé, Luc Dochier, Christophe Lebreton, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Paul Fravre-Miville rapiti nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 da un commando di una ventina di uomini armati che irruppero nel monastero di Notre-Dame dell’Atlante dell’ordine dei cistercensi della stretta osservanza, a Tibhirine. A rivendicare il sequestro, un mese dopo, fu il Gruppo Islamico Armato che per il rilascio dei 7 religiosi propose alla Francia uno scambio di prigionieri. Le trattative non si conclusero e il 21 maggio i terroristi annunciarono l’uccisione dei monaci le cui teste furono ritrovate 9 giorni dopo.

Le circostanze della morte dei monaci francesi - avvenuta durante la sanguinosa guerra civile algerina – non sono ancora venute alla luce ed oltre alla versione ufficiale che addossa tutte le responsabilità ai fondamentalisti islamici, sono state proposte diverse teorie. Le analisi che verranno effettuate sui crani dovrebbero permettere di stabilire se i 7 trappisti siano stati decapitati prima o dopo il loro assassinio, e ciò al fine di avvalorare la versione ufficiale algerina – l’esecuzione da parte dei rapitori – o di sviluppare l’ipotesi che vedrebbe in gioco anche l’esercito algerino. (T.C.)

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Polonia: i vescovi contro la 'dittatura del relativismo'

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“Il mondo di oggi tenta di imporre la convinzione che non vi è alcuna verità oggettiva”, affermano i vescovi polacchi nella lettera per la quarta Settimana dell’educazione promossa dal 14 al 20 settembre e dedicata al ruolo della verità. “Una persona che decide di vivere in conformità alla verità oggettiva viene guardata con sospetto o con disprezzo”, osservano i presuli mettendo in guardia contro “la dittatura del relativismo”.

L’educazione alla verità, spiegano, presuppone che sia genitori che insegnanti “nel processo formativo mostrino il valore della verità sul mondo, sull’uomo e su Dio”, indicando “come scoprirla e farsi da essa guidare nel quotidiano”. “Solo allora potremo con fiducia guardare la futura società di uomini distinti da onestà interiore, rettitudine e scrupolosità”, sottolineano ancora i vescovi, che consigliano - riferisce l'agenzia Sir - di “acquisire la capacità di stare nella verità” attraverso “un regolare accostamento al sacramento di penitenza e riconciliazione”.

Il responsabile per l’educazione dell’episcopato, mons. Marek Mendyk, rileva che l’insegnamento della religione nelle scuole (introdotto dopo la caduta del comunismo) è “relativo all’educazione morale” e “riguarda la pienezza dell’umano”, mentre il presidente dei vescovi, mons. Stanislaw Gadecki, rammenta che la scuola ha “l’obbligo di trasmettere valori spirituali e religiosi”. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 253

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