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Sommario del 29/05/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Terra Santa: ancora vivo il ricordo della visita di Papa Francesco
  • Terra Santa. Card. Tauran: la forza del Papa è il potere del cuore
  • Creata eparchia di San Basilio Magno di Bucarest dei Romeni
  • Tweet del Papa: "Entriamo in profonda amicizia con Gesù, così potremo seguirlo da vicino"
  • Siria: Cor Unum promuove incontro umanitario
  • Annuario Pontificio: aumentano i cattolici nel mondo
  • Oggi in Primo Piano

  • Slavyansk sotto il fuoco ucraino. Team Osce nelle mani dei filo-russi
  • Centrafrica: attaccata chiesa di Bangui, almeno 15 morti
  • Egitto: al-Sisi stravince le elezioni presidenziali
  • Siria: slitta smaltimento dell'arsenale chimico
  • Mozambico, Hiv: il "modello Dream" di Sant'Egidio
  • Ue respinge "Uno di Noi". "Deficit di democrazia" secondo Movimento Vita
  • Chiusura Ospedali psichiatrici nel 2015, restano disagi per i malati
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Pakistan: “I giudici non vogliono giudicare sul caso di Asia Bibi”
  • Terra Santa. Il card. Raï ai cristiani palestinesi: non vendete le vostre terre
  • Il Papa e la Santa Sede



    Terra Santa: ancora vivo il ricordo della visita di Papa Francesco

    ◊   Non si è ancora spenta la vasta eco della visita di Papa Francesco in Terra Santa. Giornali e tv arabi ed israeliani commentano l’eredità che ha lasciato il suo passaggio a Betlemme e Gerusalemme. Nella Città Santa il nostro inviato Roberto Piermarini ha raccolto alcune testimonianze.

    Momento centrale della visita di Papa Francesco sulle orme dello storico viaggio di Paolo VI nel ’64, l’incontro ecumenico nella Basilica del Santo Sepolcro alla presenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo I ed i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme. Lo commenta il Superiore della Custodia di Terra Santa del Santo Sepolcro, padre Noel Muscat:

    R - È stata certamente una cosa unica! Penso che non sia mai accaduto prima di adesso che nella Basilica del Santo Sepolcro un Pontefice incontri il massimo esponente dell’ortodossia. Penso quindi che sia stata, oltre che una cosa formale, anche spontanea. Per esempio, è stato molto bello vedere il Papa quasi cedere la benedizione in greco al Patriarca ecumenico. Insomma ci sono stati dei momenti neanche previsti. Perciò penso che sia stato un momento veramente di intesa fraterna tra due capi di Chiesa separati da tanti secoli - che ancora lo sono -, ma penso che se dai vertici ci arriva questo messaggio di fraterna intesa - specialmente per noi francescani che viviamo qui insieme ai nostri fratelli greci ortodossi tutti i giorni - abbiamo molto da imparare, per cercare di vivere insieme con più serenità, con più pace.

    D. - Qualche reazione dei francescani, ma anche degli ortodossi …

    R. - Penso che il fatto di vedere qui il Papa e il Patriarca di Costantinopoli - ricordiamoci che la Chiesa ortodossa è autocefala, perciò la chiesa di Gerusalemme non accetterebbe la chiesa di Costantinopoli come noi potremmo accettare il Papa di Roma qui - sia un segno che la Chiesa di Roma con quella di Costantinopoli si trova in buoni rapporti, un segno che allora queste due Chiese qui a Gerusalemme dovrebbero cogliere.

    Dall’entusiasmo dei fedeli di Betlemme, si è passati alla delusione dei cristiani di Gerusalemme per le ingenti misure di sicurezza israeliane, che hanno impedito loro di vedere il Papa tra le vie della Città Santa. Alfredo Raad esprime il rammarico della comunità cattolica:

    R. - Sono molto contento che il Papa sia venuto in Terra Santa ma sono dispiaciuto perché non ho potuto vederlo, perché la sicurezza israeliana ha avuto paura dei cristiani locali.

    D. - Lo avete visto in televisione?

    R. - In televisione, su internet …

    D. - Che cosa l’ha colpita di più di quello che ha fatto il Papa qui in Terra Santa?

    R. – L’incontro a Betlemme, in Palestina, è stato molto più bello che a Gerusalemme.

    D. - Quanti sono i cattolici qui nella Città vecchia di Gerusalemme?

    R. - Su 800 mila abitanti a Gerusalemme, solo cinque o seimila sono cattolici.

    D. - Erano 24 mila nel ’48 …

    R. - Sì, perché la situazione è tragica, c’è la crisi economica, politica, sociale … Siamo molto stanchi, abbiamo problemi, siamo pessimisti e la gente emigra molto facilmente.

    Altro momento significativo della visita papale, il pranzo che il Papa ha voluto condividere a Betlemme con alcune famiglie palestinesi che gli hanno espresso le loro sofferenze legate al dramma dell’occupazione. Tra loro Giuseppe Hazboun:

    R. - Sua Santità è una persona molto amabile, affettuosa. Ha ascoltato tutte le nostre storie con attenzione, con affetto. In ogni momento si poteva vedere la sua reazione sul viso … Ha espresso la sua preoccupazione per la tanta pena, la tanta sofferenza che gli abbiamo raccontato durante il pranzo. Il Patriarca latino di Gerusalemme mons. Twal ci ha invitato più volte a lasciare mangiare il Papa… Ma lui ha detto: No, per favore, io posso mangiare, non c’è problema: ho orecchie per sentire, voglio ascoltare le vostre storie”.

    D. – Cosa ha provato quando ha visto il Papa in preghiera sotto al Muro di separazione?

    R. - Questo è stato veramente un dono speciale da parte di Sua Santità per tutto il popolo palestinese. Durante il pranzo, dopo aver ascoltato tutti i nostri problemi ha detto: “Sono passato davanti al muro: mi sono fermato ed ho pregato affinché questo muro sparisca!”.

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    Terra Santa. Card. Tauran: la forza del Papa è il potere del cuore

    ◊   Amare è molto più che tollerare ed è ciò che Papa Francesco ha fatto in Terra Santa incontrando i rappresentanti delle altre religioni, così come i presidenti palestinese e israeliano. Lo sostiene il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che parla del “potere del cuore” esercitato dal Papa durante tutto il suo recente pellegrinaggio. L’intervista al porporato è di Antonino Galofaro:

    R. – Ce qui résume le mieux ce voyage, ce sont la photo du Pape avec son ami…
    Quello che riassume al meglio questo viaggio è la foto che ritrae il Papa davanti al Muro del Pianto, assieme al suo amico rabbino e al musulmano. Questa è l’immagine che meglio riassume il pellegrinaggio: l’importanza del dialogo interreligioso. Perché tutto può accadere dove le persone si conoscono, si parlano, si guardano in faccia, si ascoltano, accettano di riconoscere nell’altro aspetti positivi. Questi sono valori di santità e di verità che a modo proprio ciascuna religione ha, anche se noi sappiamo che Gesù è la Verità. Poi, sottolineerei la proposta fatta dal Papa ai due presidenti, israeliano e palestinese – “venite da me, a casa mia” – in maniera molto semplice, con parole che venivano dal cuore. Credo che questo sia un appello rivolto a tutti i cristiani, in particolare ai cattolici: se nella società di oggi e di domani esiste un potere che possiamo esercitare, quello è il “potere del cuore”. E io ho visto nel Papa che parlava con i suoi interlocutori questa forza del potere del cuore e cioè amare e vedere nell’altro veramente un fratello. Non semplicemente tollerare: in una famiglia non ci si tollera, ci si ama. Ha usato parole molto semplici, che non hanno nulla a che vedere con il diritto internazionale o la prassi diplomatica. Il Papa ha aperto un capitolo nuovo. Io credo che il Medio Oriente, il dialogo interreligioso e gli sforzi per la pace non possano rimanere nello stato nel quale sono oggi: inizierà qualcosa di nuovo, grazie a questo potere del cuore.

    D. – Questo viaggio è stato presentato come un pellegrinaggio in Terra Santa, ma è andato molto al di là di questo, come lei ha indicato, in particolare sul fronte politico…

    R. – Tout est politique, ma la politique n’est pas tout de l’homme, évidemment…
    Tutto è politica, ma la politica non è tutto per l’uomo ovviamente. Credo che in una regione come quella del Medio Oriente religione e politica siano molto legate per la semplice ragione che, ad esempio, l’islam non fa distinzione tra religione e politica. Ma bisogna comunque sempre insistere, ne sono convinto, su questo fatto: che le guerre in corso non sono state provocate dalle religioni, mentre la religione fa parte della soluzione. Oggi non si può spiegare il mondo, volendo guardare all’avvenire, senza fare riferimento alla religione, al sacro, alla dimensione trascendente che ciascuno porta in sé.

    D. – In che modo il Papa ha vissuto queste tre giornate così intense?

    R. – Avec beaucoup de courage, de détermination et dans la prière…
    Con molto coraggio, determinazione e nella preghiera. Io credo che la preghiera sia la chiave di tutto perché è la preghiera che gli da quella serenità. Ma ciò che è meraviglioso è vedere la semplicità con la quale egli accoglie le persone, anche quelle con le più alte responsabilità: per lui, veramente ogni uomo è un fratello…

    D. – All’udienza generale di ieri, Francesco ha detto di avere ricevuto una parola di speranza…

    R. – Vous savez, quand on voit à la foi personnes qui ont subi depuis des années…
    Vede, quando si incontrano persone che hanno subito per anni e anni la guerra, le lotte intestine, ci si chiede come si sentano: sperano in un avvenire? Noi sappiamo che abbiamo un futuro… Io sono stato molto colpito, per esempio, dal re di Giordania che ha detto: “I cristiani, qui, sono a casa loro, c’erano prima di noi”: non è la prima volta che l’ho sentito dire e penso sia vero.

    D. – Lei stesso ha ne ha ricavato un messaggio di speranza per i cristiani e per tutta la popolazione locale…

    R. – Bien sur. Je pense que le Pape, enfin, a conquis le monde entier…
    Sicuramente. Credo che il Papa abbia conquistato tutti. Il Papa non propone né soluzioni, né negoziati: semplicemente, apre la sua casa perché chiunque venga da lui si senta a casa propria, possa guardarsi in faccia e ascoltarsi. E’ formidabile, è magnifico!

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    Creata eparchia di San Basilio Magno di Bucarest dei Romeni

    ◊   In Romania, Sua Beatitudine il card. Lucian Mureşan, arcivescovo maggiore di Făgăraş e Alba Iulia dei Romeni, con il consenso del Sinodo della Chiesa Greco-Cattolica Romena e dopo aver consultato la Sede Apostolica, ha eretto a norma del can. 85 §1-2 del Codice Canonico delle Chiese Orientali l’eparchia di San Basilio Magno di Bucarest dei Romeni, con territorio dismembrato dall’attuale Arcieparchia di Făgăraş e Alba Iulia dei Romeni, e ha trasferito mons. Mihai Cătălin Frăţilă, dall’ufficio di ausiliare e protosincello di Făgăraş e Alba Iulia dei Romeni alla nuova sede eparchiale di San Basilio Magno di Bucarest dei Romeni.

    Mons. Mihai Cătălin Frăţilă è nato il 10 dicembre 1970 in Alba Iulia, nell’Arcieparchia di Făgăraş e Alba Iulia. Si è preparato al sacerdozio nel Seminario Maggiore a Blaj e poi a Roma al Pontificio Collegio Pio Romeno, frequentando il Pontificio Istituto Orientale. Ha conseguito la Licenza in Teologia Liturgica all’Istituto Cattolico di Parigi nell’anno 2000. E’ stato ordinato sacerdote l’11 agosto 1996. Nel periodo 1996-1998 ha svolto il ministero di vicario nella Missione Greco-Cattolica Romena a Parigi presso la parrocchia di San Giorgio. Nell’anno 1999 è stato nominato Vice-Rettore del Pontificio Collegio “Pio Romeno” a Roma e nel 2005 Rettore. Il 20 giugno 2007 è stato eletto Vescovo titolare di Nove e Ausiliare dell’Arcieparchia di Făgăraş e Alba Iulia dei Romeni. E’ stato consacrato il 16 dicembre 2007.

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    Tweet del Papa: "Entriamo in profonda amicizia con Gesù, così potremo seguirlo da vicino"

    ◊   “Entriamo in profonda amicizia con Gesù, così potremo seguirlo da vicino e vivere con Lui e per Lui”: è il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex.

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    Siria: Cor Unum promuove incontro umanitario

    ◊   Domani, venerdì 30 maggio, il Pontificio Consiglio “Cor Unum” promuove un incontro di coordinamento tra gli organismi caritativi cattolici che operano nel contesto della crisi siriana. L’incontro, al quale hanno dato la loro adesione 25 organismi operanti in Siria e nell’area del Medio Oriente, si strutturerà in due momenti: nel corso della mattina, dopo l’introduzione del card. Robert Sarah, presidente di “Cor Unum”, che coordinerà i lavori, vi sarà la relazione del segretario di Stato, il card. Pietro Parolin. Interverranno poi l’arcivescovo Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e il vescovo Antoine Audo, presidente di Caritas Siria. Verranno presentate, infine, le attività svolte dall’ufficio informazioni di Beirut, istituito lo scorso anno per raccogliere e distribuire dati sul lavoro degli organismi cattolici. Nel pomeriggio ci si concentrerà sugli aspetti concreti della collaborazione tra i diversi soggetti in Siria e nei Paesi limitrofi.

    “Obiettivo della riunione – riferisce un comunicato di Cor Unum - in continuità con il percorso intrapreso negli ultimi due anni dalla Santa Sede, e a seguito dell’incontro del 4-5 giugno 2013, organizzato dallo stesso Pontificio Consiglio, è quello di tracciare un bilancio del lavoro svolto finora dagli organismi caritativi cattolici nel contesto della crisi, evidenziare le criticità emerse e individuare le priorità per il futuro”.

    “La Siria – prosegue il comunicato - è al centro dell’attenzione della Comunità internazionale per il perdurare della grave crisi umanitaria che si è prodotta a seguito della guerra. La Santa Sede, assieme all’attività diplomatica, attraverso la rete delle Nunziature, i rapporti con le Chiese locali e il lavoro delle agenzie caritative cattoliche, partecipa attivamente ai programmi di aiuto e assistenza umanitaria. Secondo i dati disponibili, la crisi avrebbe provocato finora circa 160 mila vittime, mentre sarebbero più di 2 milioni i siriani rifugiati, la maggior parte nei Paesi dell’area mediorientale e mediterranea, e circa 6 milioni di sfollati interni”.

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    Annuario Pontificio: aumentano i cattolici nel mondo

    ◊   Nell’arco temporale che va dal 2005 al 2012 i fedeli battezzati nel mondo sono passati da 1.115 a 1.229 milioni, con un aumento relativo del 10,2 per cento. E’ quanto rileva l’Annuario Pontificio 2014, la cui redazione è stata curata dall’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa. Confrontando il dato con l’evoluzione della popolazione mondiale nello stesso periodo passata da 6,46 a 7,02 miliardi, si osserva che l’incidenza dei cattolici a livello planetario è lievemente aumentata, da 17,3 per cento a 17,5 per cento. Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo risulta diversificato.

    L’Europa, pur ospitando il 23 per cento della comunità cattolica mondiale nel 2012, si conferma l’area meno dinamica in assoluto, con una crescita del numero dei fedeli battezzati di poco superiore al due per cento, nell’arco di tempo considerato. La presenza dei cattolici sul territorio si stabilizza attorno al 40 per cento.

    Il continente africano rimane senza dubbio quello con la maggiore crescita. Il numero dei cattolici in Africa (pari nel 2012 a quasi 199 milioni), infatti, è aumentato ad un ritmo pari a quasi il doppio di quello dei paesi del continente asiatico (pari al 29 per cento) e di gran lunga superiore alla crescita della popolazione nello stesso intervallo di tempo. Risultano così confermati l’accresciuto peso del continente africano (i cui fedeli salgono dal 13,8 per cento del 2005 al 16,2 per cento del 2012 di quelli mondiali) e il continuo calo, invece, di quello europeo, per il quale la percentuale sul totale mondiale è scesa dal 25,2 per cento del 2005 al 23,3 per cento del 2012. Crescente appare, anche, l’incidenza nel mondo cattolico del continente asiatico che, con un peso di oltre il 60 per cento della popolazione mondiale, si mantiene attorno all’11 per cento in tutto il periodo esaminato. Si consolida la posizione dell’America quale continente a cui appartiene il 49 per cento dei cattolici battezzati del mondo. Stabile rimane, infine, l’incidenza dei cattolici su 100 abitanti in Oceania, anche se con una consistenza che non raggiunge lo 0,8 per cento della popolazione cattolica mondiale.

    Nel periodo 2005-2012 il numero dei vescovi nel mondo è passato da 4.841 a 5.133 con un aumento di 292 presuli, pari al 6 per cento. Tutti i continenti hanno presentato un incremento che percentualmente ha oscillato intorno alla media mondiale per l’America e l’Oceania, l’incremento percentuale più basso (il 3,3 per cento) è stato registrato dal numero dei vescovi europei e quello più alto (l’11 per cento) dai vescovi africani e asiatici. Di conseguenza il peso dei vescovi americani e oceanici non è cambiato nel periodo sotto esame, mentre quello dei vescovi europei ha subito una riduzione di circa un punto che è andato a favore dei continenti africani e asiatici.

    Nel 2012 i sacerdoti nel mondo erano 414.313 di cui 279.561 membri del clero diocesano e 134.752 del clero religioso; nel 2005 erano invece 406.411 suddivisi in 269.762 diocesani e 136.649 religiosi. Il numero complessivo dei sacerdoti nel 2012, rispetto a quello del 2005, ha subito una crescita di circa il 2 per cento, risultante dall’aumento del 3,6 per cento del clero diocesano e dal calo dell’1,4 per cento di quello religioso. L’incremento più alto si è registrato in Africa (24 per cento) e in Asia (20 per cento), a cui seguono l’America (1,6 per cento) e l’Oceania (0,2 per cento); sono invece diminuiti i sacerdoti europei (6 per cento). Tranne che nell’Asia e nell’Africa il clero religioso è ovunque diminuito. La distribuzione del clero tra i continenti è caratterizzata da una forte prevalenza di sacerdoti europei (45 per cento nel 2012) che sono il 52 per cento in più dei preti americani (122.924 contro 186.489); il clero asiatico incide per il 14,5 per cento, quello africano per il 9,7 per cento e quello dell’Oceania per l’1,1 per cento. Tra il 2005 e il 2012 non è variata l’incidenza sul totale mondiale dei sacerdoti dell’America e dell’Oceania; invece è cresciuto il peso sia del clero africano (da 8,0 per cento del 2005 a 9,7 per cento del 2012), sia quello del clero asiatico (da 12,3 a 14,5 per cento), crescita che è andata a scapito del peso del clero europeo che è sceso da 48,8 a 45,0 per cento.

    I diaconi permanenti costituiscono il gruppo degli operatori pastorali in più forte evoluzione nel corso del tempo: da 33.391 nel 2005 hanno raggiunto le 42 mila unità nel 2012, con una variazione relativa di più 26,1 per cento. Se l’aumento si è manifestato ovunque, tuttavia, i ritmi di incremento permangono diversi fra le varie aree continentali: in Europa il loro aumento è stato significativo, essendo passati in sette anni da poco meno di 11 mila a quasi 14 mila. Anche in America la dinamica è stata sostenuta: nel 2005 questo continente ne contava 21.722, mentre nel 2012 il numero è salito a oltre 27.000 unità. Si sottolinea che questa figura religiosa è molto frequente in America (specialmente quella del nord) con il 64,7 per cento di tutti i diaconi del mondo, ed anche in Europa (32,8 per cento). Scarsa è, invece, la presenza dei diaconi in Africa e in Asia: questi continenti rappresentano insieme appena l’1,5 per cento della consistenza globale.

    I religiosi professi non sacerdoti hanno fatto registrare nel periodo sotto esame una lieve crescita numerica. Nel mondo essi contavano 54.708 unità nel 2005 e hanno raggiunto il numero di 55.314 nel 2012. In netto calo in Europa (10,2 per cento), in Oceania (7 per cento) e in America (3,1 per cento), i religiosi non sacerdoti sono aumentati in Asia (27,5 per cento) e in Africa (8,8 per cento). Nel 2012 il peso dei religiosi non sacerdoti in questi due continenti è arrivato a superare la percentuale presente in America. L’Europa continua a mantenere la quota relativa più elevata (31,8 per cento), ma in netta diminuzione.

    Le religiose professe hanno rappresentato nel 2012 complessivamente un gruppo di 702.529 unità, per il 38 per cento presente in Europa, seguita dall’America che conta oltre 186 mila consacrate e dall’Asia che raggiunge quasi le 170 mila unità. Rispetto al 2005, il gruppo subisce a livello mondiale una flessione del 7,6 per cento. Il calo ha riguardato tre continenti (Europa, America e Oceania) con variazioni anche di rilievo (intorno al 15 per cento). In Africa e in Asia, invece, l’incremento è stato decisamente sostenuto, il 16,7 per cento per il primo e il 10,5 per cento per il secondo. Come risultato finale di queste dinamiche, la frazione delle religiose professe dell’Africa e dell’Asia sul totale mondiale passa dal 27,9 per cento al 33,9 per cento, a scapito dell’Europa e dell’America la cui incidenza nell’insieme si riduce dal 70,8 al 64,9 per cento.

    Il numero di seminaristi è aumentato del 4,9 per cento, passando dai 114.439 del 2005 ai 120.051 del 2012. La crescita maggiore si è avuta in Asia nella quale il numero dei seminaristi nel periodo preso in esame è cresciuto del 18 per cento; all’Asia segue l’Africa con il 17,6 per cento di aumento, seguita a sua volta dal-l’Oceania con il 14,2 per cento; in Europa si è avuto un calo del 13,2 per cento mentre in America si è registrata una diminuzione più contenuta (2,8 per cento). Nel 2012 su 1.000 candidati al sacerdozio di tutto il mondo, 299 erano americani, 296 asiatici, 231 africani, 166 europei e 8 dell’Oceania. Alla variazione numerica rispetto al 2005 si è accompagnata una modifica strutturale all’interno dei continenti. I rapporti di composizione istituiti tra i seminaristi di tali aree e la consistenza mondiale mostrano, infatti, che l’Asia e l’Africa si sono avvantaggiate tra il 2005 e il 2012 ciascuna di circa tre punti percentuali: questo guadagno è andato a detrimento dell’Europa (da 20,1 per cento a 16,6 per cento) e dell’America (da 32,2 per cento a 29,9 per cento).

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    Oggi in Primo Piano



    Slavyansk sotto il fuoco ucraino. Team Osce nelle mani dei filo-russi

    ◊   La regione di Donetsk, nell’Ucraina dell’Est, è sotto il fuoco delle truppe di Kiev mentre i filorussi ammettono di aver arrestato gli osservatori Osce scomparsi. Poroshenko annuncia di voler arrivare al più presto alla firma dell’accordo economico con l’Unione Europea e intanto la prossima settimana incontra Barak Obama. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

    L’offensiva ucraina contro i filorussi si sta concretizzando in modo sempre più massiccio. Slavyansk e Kramatorsk, le città bastione anti-Kiev sono sotto il fuoco dei caccia e dell’artiglieria pesante, mentre i miliziani hanno abbattuto uno o più elicotteri, non è ancora chiaro, delle forze armate ucraine, uccidendo 14 militari, tra loro anche un generale. Gli ucraini sono disponibili ad aprire un corridoio umanitario per evacuare i civili di Slavyansk, dove forse potrebbero trovarsi i quattro osservatori Osce, di nazionalità estone, turca, svizzera e danese, di cui nulla si sa da martedì. L’autoproclamato sindaco della città, Ponomaryov, ha ammesso che sono stati arrestati perché "troppo zelanti", ossia per non aver rispettato l’ordine di non muoversi. I quattro starebbero bene, e potrebbero esseri liberi già domani; è invece rientrato a Donetsk il secondo team Osce di cui ieri si erano perse le tracce.

    Petro Poroshenko, vincitore delle presidenziali ucraine con il 54,7% dato ufficiale, ha intanto iniziato il suo percorso verso Ovest, che vede il primo importante passo il 3 giugno a Varsavia, se dovesse essere confermata la data dell’incontro con Barack Obama. Il neo presidente ha già avvertito che intende firmare la parte economica dell’accordo di Associazione tra Kiev e Bruxelles, subito dopo il suo giuramento, la cui cerimonia è prevista tra il 9 e il 10 giugno. "La firma e l'attuazione dell'accordo, che è di fatto parte del piano di modernizzazione dell'Ucraina – si legge nel comunicato stampa della presidenza – contribuirà a perseguire le misure anti-corruzione e realizzare un pacchetto di riforme in un periodo di tempo molto breve”. E Poroshenko chiede anche l’alleanza di difesa con Usa e Ue, di qui l’intenzione di voler aprire immediatamente i negoziati.

    Sono intanto allineati nell’obitorio di Donetsk i corpi dei russi morti nella battaglia dell’aeroporto. "Li riporteremo a casa, in Russia": così i leader dei ribelli davanti a decine di bare, tra cui anche quelle di diversi cittadini residenti. Ne è testimone il fotoreporter Fabio Bucciarelli, raggiunto telefonicamente a Donetsk da Amedeo Lomonaco:

    R. – Quello che ho visto ieri richiama molto la guerra civile siriana, la guerra civile libica. Sono stato all’obitorio e ho visto circa 30 corpi ammassati di guerriglieri filo russi.

    D. – Questa è un’istantanea, purtroppo, emblematica della situazione a Dontesk. Hai scattato anche foto che fanno intravedere, invece, spiragli di pace?

    R. – Tolti gli ultimi giorni in cui hanno chiuso molti locali e le macchine sono diminuite, fino a due giorni fa c’era il “daily life”. Daily life vuol dire che ci si affaccia alla finestra e si vede la gente in giacca e cravatta andare a lavoro, i ristoranti pieni. Quindi è un po’ un paradosso. Questa situazione sta cambiando e da due giorni è mutata.

    D - Sabato scorso il tuo collega Andrera Rocchelli dopo essere stato colpito da colpi di mortaio. Perché l’esigenza di raccontare, a volte, diventa più forte di qualsiasi rischio?

    R. – E’ un’ossessione il fotogiornalismo. Un’ossessione con un connotato positivo. E’ una missione. Un qualcosa che uno fa considerando i danni. Quei danni che può creare a se stesso e alle persone care. Quindi quello che è successo ad "Andy" è una grande tragedia per tutto il mondo, per tutti noi colleghi e i suoi amici. Ma è un qualcosa che tutti noi mettiamo in conto. E io stesso metto in conto questo nel momento in cui lavoro. Nel momento in cui si cerca di documentare una realtà per renderla visibile agli occhi del mondo.

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    Centrafrica: attaccata chiesa di Bangui, almeno 15 morti

    ◊   In Centrafrica torna la paura. Dopo un periodo di relativa tranquillità, ieri pomeriggio uomini armati, forse appartenenti agli ex ribelli musulmani Selèka, hanno attaccato con granate la Chiesa di Nostra Signora di Fatima, nella periferia di Bangui, la capitale, uccidendo almeno 15 persone, tra cui anche un sacerdote. Sarebbero stati presi anche degli ostaggi. Della situazione abbiamo parlato con un sacerdote centrafricano, don Mathieu Bondobo, attualmente a Roma. L’intervista è di Sergio Centofanti:

    R. – Questa notizia è davvero triste e grave. All’inizio ci siamo sempre impegnati a dire che questo conflitto è politico, non è interreligioso; ma il fatto di attaccare così una parrocchia, in modo voluto, ci fa paura, perché è un dato forte per dire che il conflitto sta diventando sempre più interreligioso. E questo ci aiuta anche a dire che noi confessioni religiose dobbiamo aprire gli occhi per non essere manipolati dai politici, perché basta poco per cadere in questa trappola! Questo popolo ha sempre coabitato, con le varie confessioni religiose presenti, e quindi non è oggi che possiamo incominciare a farci la guerra. Però, dobbiamo essere pronti e vigili per evitare queste trappole. Ripeto, con quello che è successo, basta poco perché nasca di nuovo la vendetta nel cuore delle persone …

    D. – Perché questo attacco?

    R. – Non ho un’idea chiara sulle motivazioni, sulle cause esatte di questo attacco. Ma bisogna dire che questa parrocchia – Nostra Signora di Fatima – si trova in una zona molto vicina ad un quartiere dove già girava voce che alcuni dei ribelli si fossero infiltrati, si fossero concentrati in quella zona. E quindi una parrocchia molto periferica è una zona un po’ di fuoco e quindi basta poco che ci siano attacchi di questo genere.

    D. – Qual è il ruolo della Chiesa in questa situazione e cosa fanno le parrocchie a Bangui, in particolare?

    R. – Diciamo che da quando questo conflitto è iniziato, la Chiesa cattolica ha sempre fatto moltissimo: la Chiesa cattolica è a favore della pace … E quindi, questa parrocchia di Nostra Signora di Fatima, come tutte le parrocchie della capitale, di Bangui, è diventata un sito di accoglienza. Quindi, tutte le persone che non si sentono più in sicurezza hanno trovato rifugio dentro la chiesa: questo è il fatto grave. E quindi, questa chiesa – come tutte le altre parrocchie della capitale – accoglie tante persone, ma le chiese non sono protette! E qui voglio fare un appello alle istituzioni internazionali, affinché aprano gli occhi: una parrocchia a favore della pace che accoglie tante persone e che non viene protetta … non è normale! E così tra le vittime ci sono tante persone – nella maggioranza cristiane, senz’altro, ma anche tutte le altre persone – che nel loro quartiere non hanno trovato sicurezza e che si sono rifugiate all’interno.

    D. – Sembrava che la situazione fosse più tranquilla, in Centrafrica …

    R. – Le ultime notizie ci dicevano questo. In Centrafrica in generale, no; ma la capitale, ultimamente era un po’ sotto controllo, nel senso che le attività sono riprese, cioè la vita stava incominciando a riprendersi, nella capitale Bangui: queste erano le ultime notizie. Però, questo fatto ci fa capire che c’è ancora molto da fare.

    D. – La popolazione di Bangui ha perso la speranza?

    R. – Non ha perso totalmente la speranza, ma un po’ di dubbio, nel senso umano, c’è. E’ chiaro che la paura rinasce nel cuore delle persone; credo che oggi sia difficile girare in questi quartieri oppure uscire di casa: la gente sicuramente ha paura. Ma la speranza l’abbiamo sempre, perché non abbiamo alternativa: dobbiamo arrivare alla pace.

    D. – Le truppe internazionali che cosa hanno fatto e che cosa avrebbero potuto fare, in questa situazione?

    R. – A dire la verità, sarebbero potute intervenire il più presto possibile. Dalle notizie che ho ricevuto, queste truppe si trovavano a meno di un chilometro da dove è accaduto questo fatto. Sono stati contattati: ci hanno messo ore, ore e ore per intervenire! Se lo avessero fatto prima, credo che il peggio avrebbe potuto essere evitato …

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    Egitto: al-Sisi stravince le elezioni presidenziali

    ◊   A spoglio quasi completato, il generale al-Sisi si avvia verso una schiacciante vittoria alle presidenziali egiziane con circa il 96% dei consensi. Il progressista Hamdeen Sabahi ha raccolto invece solo il 3% dei voti. Bassa l’affluenza alle urne che si è attestata al 47%. Gli osservatori internazionali hanno confermato che “si è trattato di un voto libero e regolare”. Appello a nuove manifestazioni dalla coalizione pro-Morsi, mentre il portavoce della Chiesa cattolica, padre Rafic Greiche, ha espresso soddisfazione per la vittoria di al-Sisi. Per un’analisi del risultato elettorale, Marco Guerra ha raggiunto telefonicamente al Cairo la giornalista ed esperta dell’area, Francesca Paci:

    R. – La vittoria era scontata, oltre il 96%, ed è una sorpresa casomai che abbia preso pochi voti il candidato dell’opposizione, Hamdine Sabahi, che nel 2012 arrivò terzo a sorpresa, ottenendo circa 5 milioni di voti, ne ha persi quindi parecchi. Questo è il primo dato. Altro dato importante è, per quanto Al-Sisi abbia vinto, l’astensione. Lui contava su 40 milioni di elettori e su 54 milioni di registrati al voto, ma in realtà la cifra è stata molto più bassa: si parla di 25-26 milioni. Il Paese non l’ha seguito come lui pensava. Non l’hanno seguito i giovani, che però non hanno seguito neanche Sabahi e molti altri.

    D. – Questa bassa affluenza può minare la legittimità di Al-Sisi, la sua autorità?

    R. – La legittimità, assolutamente no. Queste persone, che si tratti di un 40%, di un 35%, di un 30%, sono comunque andate a votare, da quello che si è visto in questi giorni, non mobilitate dalla vecchia macchina dei consensi, quelli che qua chiamano i supporter di Mubarak, che non hanno aiutato Morsi. Non c’è stata neanche una mobilitazione delle tradizionali famiglie tribali, quelle che di solito spostano parecchi consensi. Chi è andato a votare è andato a votare, perché si fida e si è fidato di questo candidato. Da questo punto di vista, è chiaramente un dato significativo che dà legittimità. Il problema è che Al-Sisi prende in mano un Paese che è molto malmesso da un punto di vista economico, ma anche da un punto di vista sociale, essendo estremamente diviso.

    D. – A tal proposito, quali sono le sfide che attendono Al-Sisi? Si prospetta un periodo di stabilità, di possibilità di portare avanti queste riforme?

    R. – L’Egitto dice in questi giorni che chiunque faccia previsioni sbaglia. L’Egitto ha votato sette volte in tre anni, ha cambiato quattro presidenti dal 2011 ad oggi. Lo stesso numero di presidenti che aveva cambiato tra il 1952 e il 2011. La maggioranza degli elettori, degli egiziani era assolutamente a proprio agio con Mubarak, nonostante lo contestasse, e l’ha tenuto per 30 anni. Ma la maggioranza degli egiziani è anche scesa in piazza a festeggiare quando è stato cacciato. La maggioranza degli egiziani ha votato per Al-Sisi e la maggioranza degli egiziani è scesa in piazza per cacciare al-Sisi. Mi sembra sia cominciata una fase in cui non siamo punto e a capo. Quello che sta succedendo non è un ritorno indietro all’era di Mubarak tout-court. Chiaramente, la sfida più importante è l’economia, ma non è l’unica, perché – come dicevo – la coesione sociale del Paese è una condizione sine qua non per avviare riforme.

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    Siria: slitta smaltimento dell'arsenale chimico

    ◊   In una lettera al Consiglio di Stato, il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, ha comunicato che lo smaltimento dell’arsenale chimico siriano non sarà completato entro la data prevista del 30 giugno. Il rinvio delle operazioni si è reso necessario per motivi di sicurezza. Quanto pesa il conflitto in Siria sul trasporto delle armi? Gianmichele Laino lo ha chiesto a Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo:

    R. – Sicuramente, trasportare armi chimiche in zone di guerra è un problema, anche per chi le volesse usare - è sempre stato uno dei problemi tradizionali di queste armi - e in una zona di conflitto così a macchia di leopardo com’è la Siria evidentemente è uno dei più grossi problemi.

    D. – Ban Ki-moon specifica che il 92% dell’arsenale chimico ha già lasciato il Paese. Che peso ha il restante 8%, che è in attesa di essere evacuato?

    R. – Sono prodotti estremamente delicati. In parte, il materiale è stato prima preso in consegna dal personale della Convenzione per l’eliminazione delle armi chimiche. Certamente, le tonnellate di armi chimiche in possesso del regime siriano erano tantissime e pertanto anche quel poco che è rimasto è effettivamente tanto. E’ un materiale, quindi, estremamente pericoloso, che può cadere in mani sbagliate. Capiamo bene che si tratta di armi ancora estremamente minacciose. La piccola percentuale, che apparentemente rimane ancora in territorio siriano, è una percentuale estremamente significativa e pericolosa.

    D. – Che significato ha questo slittamento negli equilibri della comunità internazionale, in un momento così delicato per la Siria che, tra l’altro, si prepara al voto per le presidenziali?

    R. – La questione siriana, purtroppo, è passata fuori dall’agenda internazionale, dopo la vicenda dell’Ucraina. Rrimane però una guerra che si prolunga ormai da tre anni e che si pone all’interno di un groviglio geopolitico importantissimo, perché è una guerra tra il governo, forze ribelli di tipo integralista islamico e forze ribelli di tipo democratico. I tentativi sinora fatti di arrivare a un accordo, almeno a un cessate-il-fuoco, purtroppo sembra non riescano a sortire alcun effetto.


    D. – Quali sono ora gli scenari possibili per lo smaltimento dell’arsenale chimico siriano?

    R. – Un impegno che l’Italia si era assunto recentemente era quello di ospitare presso il porto di Gioia Tauro questa nave che doveva partire dal porto siriano, arrivare qui in Italia e trasbordare materiali su una nave ad hoc, che attualmente sta aspettando in un porto spagnolo, per lavorare poi il carico in mare aperto, essere reso meno pericoloso e poi nuovamente essere consegnato alle ditte specializzate. Il quadro, certamente, è ancora molto incerto, ma ancora una volta mi sembra importante ricordare che quello delle armi chimiche non è l’aspetto più preoccupante: le oltre 100 mila vittime del conflitto siriano sono state fatte nella stragrande maggioranza, al 99,9%, utilizzando armi convenzionali. Il nodo fondamentale potrebbe essere che le Nazioni Unite cercassero di imporre un embargo agli armamenti nei confronti dei due contendenti, cercando di bloccare questa carneficina, che ormai si prolunga da tre anni.

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    Mozambico, Hiv: il "modello Dream" di Sant'Egidio

    ◊   E’ da poco tornata dal Mozambico una missione di imprenditori italiani con l’obiettivo di approfondire le opportunità d’investimento che ci sono in questo Paese. La delegazione ha visitato il Centro" Dream" a Maputo, della comunità di Sant’Egidio, che dal 2001 si occupa di combattere la malnutrizione e l’Aids nei Paesi dell’Africa subsahariana. Paola Germano, coordinatrice generale del progetto in Africa, ha spiegato al microfono di Maria Cristina Montagnaro a che punto è la lotta all’ Hiv in questo Paese:

    R. - In Mozambico, abbiamo in cura 32 mila e 300 malati, ma la popolazione colpita naturalmente è molto più alta. Non si riesce ad arrivare a tutti. Oggi, si ipotizza che in Mozambico il 14% della popolazione sia colpita dall’Aids: una percentuale purtroppo ancora abbastanza alta, nonostante i progressi fatti in questi anni nella cura e nell’espansione della terapia.

    D. - Voi vi rivolgete in particolar modo alle donne: per quale motivo?

    R. - Il nostro obiettivo è soprattutto quello di lavorare per la prevenzione della trasmissione verticale, dalle madri ai bambini, per riuscire così a far nascere una generazione sana, curando al tempo stesso anche queste madri.

    D. - In concreto che cosa fate?

    R. - Noi prendiamo in cura i bambini, partendo dalle madri, e chiaramente quando sono malati anche i partner e i mariti: ci prendiamo cura di tutta la famiglia. La grande novità nella cura dell’Aids in Africa è entrata con quello che oggi viene definito il modello Dream: non si tratta però soltanto della mera distribuzione di farmaci, ma rappresenta un tipo di modello che ha un approccio olistico. Quindi, non diamo solo farmaci e quanto necessario nel percorso dell’iter terapeutico - quindi visite mediche, prelievi… - ma insistiamo molto sull’educazione alla salute di queste donne e quindi di tutto il nucleo familiare. Educazione alla salute non vuole dire soltanto cura dell’Aids: educazione alla salute vuol dire anche insegnare loro la prevenzione della malaria, le misure di igiene, come nutrire i loro bambini in modo corretto e in modo che i bambini non siano sottopeso e non si ammalino.

    D. - Quali sono le novità della collaborazione con gli imprenditori italiani?

    R. - La visita è stata importante. Dream cerca di espandere il più possibile la terapia, ma ha un problema di risorse, perché Dream si finanzia con risorse di privati. Quindi, questi imprenditori che vorrebbero lavorare in Mozambico e che hanno visto e hanno toccato con mano come sono spese quelle poche risorse, possono rappresentare una partnership importante. In Mozambico, noi siamo considerati con il modello Dream un’eccellenza italiana. Io credo allora che anche creare dei legami con l’imprenditoria italiana, che si è recata in Mozambico e che rappresenta - anch’essa - un’eccellenza, sia un modo per creare una partnership con un marchio italiano molto importante per il Mozambico e per l’Italia. C’è stata espressa la volontà di poter contribuire quanto meno a coprire la realizzazione di un progetto che noi abbiamo di un nuovo centro a Maputo per le donne, non soltanto sieropositive, ma per la prevenzione dei tumori femminili.

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    Ue respinge "Uno di Noi". "Deficit di democrazia" secondo Movimento Vita

    ◊   Un deficit di democrazia. Il Movimento per la Vita italiano definisce così la decisione della Commissione Europea di non dare seguito alla richiesta, avanzata con 1,7 milioni di firme dall'iniziativa popolare “Uno di noi”, di presentare all’Europarlamento una proposta legislativa per bloccare i finanziamenti alle ricerche che prevedano la distruzione di embrioni umani. Secondo la Commissione, “l'esistente quadro di finanziamento è appropriato”. Delusione ma anche determinazione a proseguire nell’impegno per il riconoscimento giuridico dell'essere umano concepito e non nato vengono espresse da Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, al microfono di Paolo Ondarza:

    R. - Purtroppo, è avvenuto quello che si temeva. Temevamo che la Commissione non si pronunciasse prima delle elezioni, perché era timorosa di aumentare la sfiducia verso l’Europa, rigettando uno strumento che ha proprio lo scopo di aumentare la democrazia in Europa. A elezioni concluse ha provveduto a dire: “Io non farò nulla. E non farò nulla perché tutto va già bene!”. Ora, in realtà queste sono parole false, ipocrite, che ancora una volta sono un mezzo con cui si evita il dialogo. Il problema della difesa della vita oggi è quello di riuscire a parlare e dialogare con chi la pensa diversamente, mentre invece si può impedire di affrontare la questione o con l’invito, l’insulto o con l’artifizio di parole che non dicono la verità.

    D. - Secondo la Commissione europea, “la ricerca sulle cellule staminali e embrionali è unica e può portare alla scoperta di cure fondamentali per salvare delle vite”, per questo - sostiene - non si procederà con l’iter legislativo, ma si continuerà ad "applicare le regole etiche fin qui usate nella difesa dell’uomo e degli embrioni”. Questo recita il testo ufficiale…

    R. - Questa è un’arrogante menzogna, perché noi abbiamo dimostrato e lo ha dimostrato la scienza. Pensiamo al premio Nobel di Yamanaka, uno studioso giapponese che ha scoperto il ringiovanimento delle cellule staminali adulte: è stato accertato che le cellule staminali embrionali non servono a nulla. Sono soldi buttati e dunque c’è una offesa non solo alla verità, ma anche a un sano criterio economico che dice che i soldi devono essere utilizzati bene, non per cose inutili.

    D. - 1. 730.000 firme. di fatto sono anche di più, ma quelle convalidate si attestano attorno a questa cifra, valgono qualcosa…

    R. - Bisognerebbe riavviare immediatamente una seconda iniziativa e vedere che cosa succede, perché io non mi rassegno.

    D. - Come Movimento per la vita e anche come Comitato "Uno di noi", come vi muoverete a questo punto? Quali sono le vostre richieste al nuovo parlamento europeo?

    R. - Noi insisteremo, cercheremo la pronuncia del parlamento in cui si chiedano le cose che noi abbiamo inserito nella richiesta. Certo, è molto difficile. Bisognerà vedere come sarà composto questo parlamento. E' un lavoro lungo, molto più lungo di quello che sarebbe stato se la Commissione avesse deciso di presentare una sua iniziativa. Comunque, l’iniziativa è stata un momento di riflessione, di ripensamento su questa domanda, che poi è quella centrale: l’uomo è uomo fin dal concepimento, oppure no? Questa è la grande questione. In sostanza, la Commissione come al solito ha evitato di rispondere, non ha detto: “Noi non accogliamo le vostre richieste perché dicono stupidaggini: l’embrione non è uno di noi”. Non ha detto questo. Ha detto: “No, non ce n’è bisogno, perché già lo facciamo, è già così, che cosa volete…”. Queste sono risposte oblique, evasive, che impediscono di proporre la domanda fondamentale che è quella che già se venisse accolta, farebbe presagire la vittoria della vita, perché non si può rispondere che non è uno di noi. Nel dubbio, vale il principio per la vita.

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    Chiusura Ospedali psichiatrici nel 2015, restano disagi per i malati

    ◊   Slitta al 31 marzo 2015 la chiusura definitiva degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Gli ex manicomi criminali dovranno essere sostituiti da strutture residenziali sanitarie, le Rems. La legge approvata dalla Camera mette anche la parola fine agli ergastoli bianchi: i ricoveri, infatti, non potranno durare piu' del massimo della pena prevista per il reato. Maria Gabriella Lanza ha intervistato Stefano Cecconi, del Comitato stop Opg:

    R. - La proroga della chiusura degli Opg è sempre un atto doloroso, perché si mantiene una situazione di sofferenza per molte persone. Sono ancora circa un migliaio le donne e gli uomini internati nei manicomi giudiziari. Però, questa volta il Parlamento ha fatto un atto importante, perché la proroga contiene anche degli elementi positivi: intanto, stabilisce che il giudice, nel disporre una misura nei confronti di una persona malata di mente, che dovesse commettere un reato, privilegia l’adozione di misure alternative all’internamento; infine, è molto importante aver fissato un limite oltre il quale non si può andare per la durata delle misure di sicurezza. Fino a oggi, invece, in condizioni di disagio della persona, di mantenimento della sua malattia c'erano proroghe su proroghe all’internamento in manicomio giudiziario fino a situazioni assurde: un reato che avrebbe avuto una pena di due o tre anni ha visto persone internate per 20 -25 anni.

    D. - Nel 2015 gli Opg saranno sostituiti dalle strutture residenziali sanitarie. Le regioni ce la faranno entro quella data?

    R. - Io lo dico francamente: spero di no, perché le Rems, queste strutture residenziali del territorio in realtà riproducono la logica dell’Opg. E' sufficiente una quantità limitata di queste strutture. Oggi sono immaginate per circa un migliaio di posti letto, quasi più degli attuali internati. Invece, la legge nuova approvata ieri in Parlamento dà un segno importante, perché sollecita le regioni a rivedere i programmi di costruzione delle Rems, riducendo i posti letto e privilegiando invece i percorsi di cure e di riabilitazione nel territorio che sono - come insegnato dalla riforma Basaglia con la chiusura dei manicomi - i percorsi migliori per garantire efficacia, anche terapeutica, alla persone.

    D. - Perché gli Opg sono delle strutture non adatte al recupero dei detenuti?

    R. - La cosa assurda, che fa male e che davvero rende orribile quei luoghi, come li ha definiti il presidente della Repubblica Napolitano, è l’insensatezza! Aver creato dei luoghi artificiali, una sorta di luoghi sospesi dalla cittadinanza, dalla comunità, in cui internare, rinchiudere delle perosne. Anche l’Opg migliore, ristrutturato, sistemato, ridipinto è comunque un luogo estraneo alla logica di civiltà. E questo è quello che ci raccontano gli internati, nei viaggi che abbiamo fatto in tutti i manicomi … Tutti! Ma anche lì, si avverte questa assurdità, questo orrore - appunto - dell’insensatezza. Qualcuno ci diceva: “Capisco che ho commesso una pena, voglio affrontare la mia responsabilità, ma qui non capisco dove sono, non mi curano e non so quando uscirò. Non ho capito bene cosa succederà della mia vita!” C’è una richiesta di chiarezza. Almeno chiarezza.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Pakistan: “I giudici non vogliono giudicare sul caso di Asia Bibi”

    ◊   I magistrati “non vogliono giudicare sul caso di Asia Bibi: evitano di decidere cosa fare su un caso così delicato, anche per timori di ritorsioni e vendette da parte degli integralisti: questo è il motivo dei continui rinvii nel processo di appello”. Lo dice all’agenzia Fides l’avvocato cristiano Sardar Mushtaq Gill, responsabile dell’Ong Lead (“Legal Evangelical Association Development”), che sta seguendo la vicenda di Asia Bibi e di altre vittime di blasfemia.

    “Siamo preoccupati perche, di fronte a questa inerzia, molte vittime innocenti languono nelle carceri solo a causa della loro fede: fra loro Asia Bibi e Sawan Masih. Intanto la folla di estremisti che ha bruciato case e chiese di cristiani resta impunita” rimarca.

    Il clima di intimidazione è ancora forte: “Recentemente – riferisce Gill – un imputato di blasfemia, Khalil Ahmed, è stato ucciso mentre si trovava nella stazione di polizia, da un adolescente. Vittima è anche l’avvocato e attivista per i diritti umani Rashid Rehman, ucciso perché aveva deciso di difendere un presunto blasfemo. I suoi assassini sono ancora a piede libero. Un giudice è dovuto fuggire all'estero dopo aver condannato il killer, reo confesso, del governatore Salmaan Taseer”.

    “La legge sulla blasfemia è diventata uno strumento di persecuzione anche contro coloro che difendono gli accusati. Il Pakistan è divenuto un paese molto pericoloso per le minoranze” rimarca, informando che Lead proseguirà una massiccia campagna per l'abrogazione della legge sulla blasfemia.

    Gill prosegue: “Stiamo vivendo uno dei momenti peggiori nella storia del paese: vediamo livelli senza precedenti di emarginazione e violenza contro le minoranze religiose. Come possiamo parlare di libertà religiosa, libertà di pensiero e di espressione, se la legge non è garanzia per tutti, se non esiste un equo processo e se è diffusa una ingiusta detenzione solo a causa della differenza di fede? Siamo tutti liberi e uguali solo sulla carta, ma la realtà è ben diversa”. “Chiediamo uno stato laico in cui tutti possiamo godere di pari diritti e di essere trattati allo stesso modo davanti alla legge. Le minoranze desiderano promuovere la pace e l'armonia religiosa in Pakistan” conclude l’avvocato. (R.P.)

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    Terra Santa. Il card. Raï ai cristiani palestinesi: non vendete le vostre terre

    ◊   Un invito a non vendere le proprie terre e a non emigrare dalla Terra Santa è stato rivolto ai cristiani palestinesi dal Patriarca di Antiochia dei maroniti, Bechara Boutros Raï, che in questi giorni prolunga la sua permanenza in Palestina e in Israele dopo aver preso parte ad alcuni momenti salienti del pellegrinaggio di Papa Francesco. L'appello ai cristiani arabi di Palestina è stato rivolto dal Patriarca Rai durante la Messa da lui celebrata martedì scorso, nella parrocchia cattolica di Nostra Signora di Fatima a Beit Sahour, nei pressi di Betlemme. “Rimanete nelle vostre terre, e affronteremo insieme le sfide” ha detto il Patriarca invitando tutti a non vendere le proprie terre e a custodire “questa preziosa eredità, a costo di sacrifici”.

    Domenica scorsa il Patriarca Raï aveva incontrato il Presidente palestinese Mahmud Abbas, che nel palazzo presidenziale di Ramallah gli ha conferito la “Stella di Gerusalemme” (la più alta onorificenza conferita dall'Autorità palestinese) “per il coraggio della sua visita in Terra Santa”, come recita un comunicato emesso dalla rappresentanza palestinese in Libano. “Chi non vuole la pace in Palestina” ha dichiarato il Patriarca Rai in occasione del suo incontro con il Presidente palestinese, “non vuole la pace in Medio Oriente”.

    Il Patriarca Rai è il primo capo religioso libanese a entrare in Israele dal 1948, anno di creazione dello Stato ebraico. In Libano sono state espresse critiche alla decisione del Patriarca di fare ingresso in un Paese con cui non sono mai stati firmati accordi di pace dopo i conflitti dei decenni passati. Il card. Raï ha difeso le ragioni della sua scelta, dichiarando di voler visitare la Terra Santa come regione in cui affondano le radici del cristianesimo. Il Patriarca – che ha ricevuto dalle autorità civili libanesi le autorizzazioni necessarie al viaggio - ha visitato la parrocchia maronita di Jaffa, il monastero di Latrun a Gerusalemme Est e, fino alla fine della settimana, incontrerà le comunità libanesi presenti in Galilea. In Israele vivono circa 11mila cristiani maroniti. (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 149

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.