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Sommario del 28/05/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Francesco chiede perdono per divisioni tra cristiani e invoca pace in Medio Oriente
  • Il Patriarca Twal ricorda il viaggio in Terra Santa del Papa
  • Il Papa: tratta degli esseri umani è crimine che fa orrore
  • Mons. Follo in udienza dal Papa
  • Caso Meriam. Mons. Tomasi serve il rispetto della libertà religiosa e dialogo
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • A Donetsk è guerra, civili in fuga. Kiev lancia l'ultimatum ai filo-russi
  • Sud Sudan. Sfollati oltre 1 milione. Msf: si profila carestia
  • Usa lasciano Afghanistan: atteso accordo su sicurezza
  • Conferenza Fmi in Mozambico. Intervista esclusiva al Direttore Lagarde
  • Oltre 6 milioni i senza lavoro secondo il Rapporto Istat 2014
  • Martinez: grande dono l'incontro del mondo carismatico col Papa
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Camerun: il card. Filoni dai seminaristi di Yaoundé
  • Card. Tumi chiede a Boko Haram di liberare missionari rapiti
  • Il Papa e la Santa Sede



    Francesco chiede perdono per divisioni tra cristiani e invoca pace in Medio Oriente

    ◊   Papa Francesco, all’Udienza generale, rientrato dalla Terra Santa, chiede perdono per le divisioni che ancora oggi affliggono i fratelli in Cristo. E invoca preghiere per la pace in tutto il Medio Oriente e per chi in quella regione spera contro ogni speranza. Il servizio di Roberta Gisotti:

    Promuovere la piena unità dei cristiani e incoraggiare la pace, sono stati gli scopi del mio pellegrinaggio. “Ho voluto portare una parola di speranza ma l’ho ricevuta a mia volta!”, così Francesco raccontando il suo viaggio in Terra Santa alle decine di migliaia di fedeli raccolti in piazza San Pietro. Il Papa ha rievocato il suo abbraccio nel Santo Sepolcro con il Patriarca Bartolomeo, a 50 anni dallo storico incontro a Gerusalemme tra Paolo VI e Atenagora:

    “Abbiamo avvertito tutta l’amarezza e la sofferenza delle divisioni che ancora esistono tra i discepoli di Cristo; e davvero questo fa tanto male, male al cuore. Siamo divisi ancora”.

    Quindi, il proposito:

    “Abbiamo sentito il desiderio di sanare le ferite ancora aperte e proseguire con tenacia il cammino verso la piena comunione”.

    E la richiesta di perdono:

    "Una volta in più, come hanno fatto i Papi precedenti, io chiedo perdono per quello che noi abbiamo fatto per favorire questa divisione e chiedo allo Spirito Santo, ci aiuti a risanare le ferite che noi abbiamo fatto agli altri fratelli".

    Con l’amico e fratello Bartolomeo, ha confidato Francesco,
    abbiamo condiviso la voglia di camminare insieme”:

    “Fare tutto quello che da oggi possiamo fare: pregare insieme, lavorare insieme per il gregge di Dio, cercare la pace, custodire il creato, tante cose che abbiamo in comune. E come fratelli dobbiamo andare avanti".

    Andare avanti anche nel cammino verso la pace in Medio Oriente. Questo incoraggiamento – ha ricordato il Papa – era anche fine del mio viaggio:

    “E l’ho fatto sempre come pellegrino, nel nome di Dio e dell’uomo, portando nel cuore una grande compassione per i figli di quella Terra che da troppo tempo convivono con la guerra e hanno il diritto di conoscere finalmente giorni di pace!”.

    Da qui l’esortazione ai fedeli cristiani a lasciarsi "ungere" con cuore aperto e docile dallo Spirito Santo...

    “...per essere sempre più capaci di gesti di umiltà, di fratellanza e di riconciliazione”.

    E diventare ‘artigiani’ della pace:

    “Eh, la pace si fa artigianalmente. Non ci sono industrie di pace, no. Si fa ogni giorno, artigianalmente e anche col cuore aperto perché venga il dono di Dio”.

    Ripercorrendo le tappe del suo viaggio, Francesco ha sottolineato l’impegno della Giordania nell’accogliere i profughi dalle zone di guerra, specie nella “martoriata Siria”, e l’importanza di ricercare di un’equa soluzione al conflitto israelo-palestinese:

    “Per questo ho invitato il presidente di Israele e il presidente della Palestina, uomini di pace e artefici di pace, a venire in Vaticano a pregare insieme con me per la pace”.

    Il pensiero è andato infine ai cristiani perseguitati in quella zona e in tutto il Medio Oriente, “coraggiosi testimoni di speranza e carità”.

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    Il Patriarca Twal ricorda il viaggio in Terra Santa del Papa

    ◊   Nel ricordare all’udienza generale tutti gli ordinari di Terra Santa che hanno reso possibile la buona riuscita del suo pellegrinaggio, Papa Francesco ha ringraziato in particolare il Patriarca latino, mons. Fouad Twal, che racconta al nostro inviato a Gerusalemme, Roberto Piermarini, cosa l’ha colpito del viaggio papale:

    R. – La verità è che io vedo nella persona stessa del Santo Padre un messaggio per noi capi religiosi: un messaggio di questa semplicità, di questa umiltà. Non è un capo che fa il capo: lui è lì, è al servizio. Mi ha colpito in modo speciale quando eravamo a pranzo con le cinque famiglie palestinesi, che hanno sofferto molto… Ciascuna ha raccontato la sua storia e prima della fine del pranzo, Alberto Gasbarri ha chiesto al Santo Padre se volesse ritirarsi con 20 minuti di anticipo, prima della successiva visita alla Grotta. E qui mi ha toccato il cuore, il Santo Padre! Il Papa ha detto: “Questa gente soffre, non posso lasciarli soli. Non vado via prima: rimango con loro fino alla fine”. Ed è rimasto con loro fino alla fine… Era cosciente della situazione, della difficile situazione che noi viviamo. Spesso rimaneva silenzioso a meditare, a pregare. E’ vero che noi non siamo così ingenui da aspettarci già oggi dei risultati, appena partito. E’ partito stanco, ha dato il massimo di se stesso, del suo tempo, della sua salute… Era francamente stanco. Però certamente ha seminato! Seminato, seminato… E con lui, anche noi abbiamo seminato. Speriamo, dando tempo al tempo nella Provvidenza, affinché quanto lui ha seminato porti frutti, sia per la comunione e l’unità dei cristiani, sia anche per la situazione politica che affligge tutto il mondo. I suoi discorsi – che tutti noi abbiamo sentito e che possiamo e dobbiamo rileggere di nuovo – sia con il presidente Peres che con Netanyahu sono discorsi da leggere, perché lui era cosciente dei nostri problemi. C’è un punto debole però: i nostri fedeli a Gerusalemme non hanno potuto vederlo...

    D. – Eccellenza, ci sono stati due volti della visita: l’entusiasmo di Betlemme e Gerusalemme blindata dalla sicurezza…

    R. – Sì. Abbiamo avuto almeno 4 mila fedeli provenienti dalla Galilea che erano presenti a Betlemme e dalla Galilea sono andati anche in Giordania per partecipare alla Messa. Gerusalemme è sempre stata blindata. E’ anche vero che a Gerusalemme non vi era alcun atto pubblico… Ma lui, nei suoi discorsi, ha detto di sperare di poter tornare per andare in Galilea, a Nazareth. Adesso che abbiamo il Sinodo della famiglia, e visto che Nazareth è il luogo della famiglia, della Sacra Famiglia, speriamo e preghiamo che ritorni in questa occasione. D’altronde, tutti amano il Santo Padre, tutti avrebbero voluto vederlo, ma non tutti possono riuscirci. Pazienza, che dobbiamo fare…

    D. – Come ha vissuto la celebrazione ecumenica nella basilica del Santo Sepolcro?

    R. – E’ un gesto questo! Un gesto, perché non basta la buona volontà di Bartolomeo e del Santo Padre. Abbiamo tanti fedeli, milioni di fedeli; abbiamo la gerarchia greca locale che non dipende da Bartolomeo, ma dipende da altri Patriarchi. Il lavoro deve continuare. Non abbiamo certo finito, abbiamo cominciato, abbiamo seminato… Speriamo bene!

    D. – Quali sono state le reazioni che le ha sentito sia da parte israeliana che palestinese a questa visita del Papa?

    R. – Le reazioni sono tutte positive. E’ un momento di festa e in una festa tutti sono allegri… Grazie a Dio! Io so che in Giordania, tante parrocchie ortodosse, greco-ortodosse hanno avuto i biglietti per poter assistere alla Messa ad Amman: lì era un vero ecumenismo! Era bello, almeno per i fedeli, per il popolo. Speriamo bene. Non dobbiamo essere pessimisti, assolutamente, ma non dobbiamo neanche essere troppo ottimisti. Dobbiamo avere i piedi per terra, perché siamo ancora divisi. Però c’è rispetto reciproco, c’è collaborazione, c’è preghiera per questa unità e per questa comunione ecclesiale. Speriamo che i nostri amici, anche dall’Italia e dal resto del mondo ci aiutino pregando per questa pace e per questa comunione.

    D. – Per quanto riguarda la pace e questa convocazione in Vaticano di Abu Mazen e Peres, lei crede che il Papa con questa iniziativa abbia inaugurato una diplomazia della preghiera?

    R. – La preghiera non è certo una cosa nuova: lui ha sempre chiesto di pregare, noi abbiamo sempre chiesto di pregare. Visto che questo incontro non ha potuto aver luogo né a Gerusalemme né a Betlemme, il Santo Padre ha offerto la sua casa: la sua casa in Vaticano. Speriamo! E’ una iniziativa che indica certamente la buona volontà del Santo Padre di raggiungere la pace, di realizzare un po’ di pace ed avere un po’ di calma. Siamo da 66 anni a dialogare, ma non abbiamo ottenuto niente finora. Speriamo che con questa iniziativa qualche cosa si faccia.

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    Il Papa: tratta degli esseri umani è crimine che fa orrore

    ◊   La tratta di esseri umani è “un crimine contro l’intera umanità” ed è giunto il momento di “unire le forze” per liberare le vittime di tali traffici. Lo riafferma Papa Francesco nel suo messaggio inviato all’Organizzazione internazionale del lavoro, riunita a Ginevra per la sua 103.ma sessione. Il Papa esorta i governi a politiche mirate per gli immigrati e i giovani, prime vittime della crisi economica mondiale. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    No al lavoro schiavo. Una bandiera di dignità che Papa Francesco ha già più volte alzato per condannare l’ignobile sfruttamento cui sono sottoposte alcune categorie di persone in molte parti del mondo, specie se immigrate in luoghi dove per loro non esistono tutele. La stessa bandiera il Papa la innalza davanti alle delegazioni che sono da oggi all’Ilo di Ginevra per discutere del lavoro in tutti i suoi aspetti.

    Per Francesco, “la tratta degli esseri umani” è come una ferita al cuore, così come lo sono – scrive nel suo Messaggio – “il lavoro coatto e la riduzione in schiavitù”. Tutti anelli di una catena di soprusi che nasce dove prospera la “globalizzazione dell’indifferenza” e che va spezzata il prima possibile. “È inaccettabile – afferma – che, nel nostro mondo, il lavoro fatto da schiavi sia diventato moneta corrente. Questo non può continuare! La tratta di esseri umani è una piaga, un crimine contro l’intera umanità. È giunto il momento – sostiene – di unire le forze e di lavorare insieme per liberare le vittime di tali traffici e per sradicare questo crimine che colpisce tutti noi, dalle singole famiglie all’intera comunità mondiale”.

    Altro punto sensibile, la crisi occupazionale. Nella visione cristiana, ricorda Papa Francesco, il lavoro umano “è parte della creazione e continua il lavoro creativo di Dio”, dunque va considerato sia “un dono che un dovere”. Da ciò deriva che il lavoro “non è meramente una merce, ma possiede la sua propria dignità e valore”. Quindi, asserisce il Papa, ora che “la disoccupazione sta tragicamente espandendo le frontiere della povertà”, chi si occupa di politiche lavorative come l’Ilo deve guardare anzitutto ai giovani disoccupati, perché un’accresciuta offerta di possibilità di impiego possa restituire loro “consapevolezza del loro valore”.

    Ciò, prosegue, richiede “un rinnovato impegno a favore della dignità di ogni persona”, una “più determinata realizzazione degli standard internazionali sul lavoro”, la “pianificazione per uno sviluppo focalizzato sulla persona umana quale protagonista centrale e principale beneficiario, e anche “una nuova valutazione delle responsabilità delle società multinazionali nei Paesi dove esse operano, includendo i settori della gestione del profitto e dell’investimento”. All’Ilo, Papa Francesco chiede “uno sforzo coordinato per incoraggiare i governi a facilitare gli spostamenti dei migranti a beneficio di tutti”, per eliminare la tratta di esseri umani e le pericolose condizioni di viaggio.

    Qui, conclude il Papa, entra in gioco la formulazione dei cosiddetti “obiettivi dello sviluppo sostenibile”, i quali dovrebbero essere pianificati “con generosità e coraggio”, affinché riescano “effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame”, arrivino a conseguire “risultati sostanziali nella protezione.

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    Mons. Follo in udienza dal Papa

    ◊   Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata, in successive udienze, il primo ministro della Bulgaria, Plamen Oreshsrdki, e mons. Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Unesco.

    In Brasile, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Pouso Alegre, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Ricardo Pedro Chaves Pinto Filho, O.Praem. Al suo posto, il Pontefice ha nominato mons. José Luiz Majella Delgado, dei Padri Redentoristi, trasferendolo dalla diocesi di Jataí. Mons. Majella è nato il 19 ottobre 1953 a Juiz de Fora (Minas Gerais) e ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 14 marzo 1981. Ha frequentato il corso di Filosofia a Lorena e il corso di Teologia presso l’ITESP – Instituto Teológico São Paulo. Ha ottenuto la Specializzazione in Teologia Liturgica presso la Pontificia Facoltà “Nossa Senhora da Assunção” a São Paulo. Nel corso del ministero sacerdotale, ha ricoperto quindi diversi incarichi: Vicario Parrocchiale, Rettore dei Seminari Redentoristi a Minas Gerais, Tietê e ad Aparecida; Superiore della Comunità Alfonsianum (juniorato) a São Paulo; Collaboratore del Maestro dei Novizi e poi Maestro dei Novizi a Tietê, São Paulo. Membro del Consiglio Provinciale della Provincia Redentorista di São Paulo; del Segretariato Interprovincial de Espiritualidade Redentorista; del Segretariato Provinciale di Formazione Redentorista di São Paulo; della Coordenação dos Mestres de Noviços Redentoristas do Cone Sul da América Latina; Segretario dell’OSIB – Organizzazione dei Seminari e Istituti del Brasile del Regionale “Leste 2” della Conferenza dei Vescovi del Brasile; dell’ASLI – Associação dos Liturgistas do Brasil; Membro della Coordenação dos Religiosos do Núcleo de Itapetininga Regionale di São Paulo; del Grupo de Reflexão para a Formação della Conferenza dei Religiosi del Brasile, Regionale São Paulo; Assessore Esecutivo della Conferenza Nazionale dei Religiosi del Brasile. Professore di Teologia Liturgica in diverse istituzioni: Instituto de Teologia Moral, Instituto Educacional Seminário Paulopolitano, Instituto São Paulo de Estudos Superiores e Pontificia Facoltà di Teologia di Nossa Senhora da Assunção di São Paulo. Tra il 2007 e il 2009 è stato Sottosegretario Aggiunto della CNBB – Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile. Il 16 dicembre 2009 è stato eletto Vescovo di Jataí, ricevendo l’ordinazione episcopale il 27 febbraio 2010. All’interno della CNBB, ricopre l’incarico di Membro del Consiglio Permanente e della Commissione Pastorale per la Campagna di Evangelizzazione e Presidente della Commissione per la Pastorale Giovanile della Regione Centro-Ovest.

    Papa Francesco ha nominato membri della Congregazione per la Dottrina della Fede il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, insieme con l’arcivescovo di Poznan (Polonia) Stanisław Gadecki, e il vescovo di Regensburg (Germania), Rudolf Voderholzer.

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    Caso Meriam. Mons. Tomasi serve il rispetto della libertà religiosa e dialogo

    ◊   Il mondo continua a commuoversi e la comunità internazionale a lavorare affinché le autorità del Sudan lascino libera Meriam Yahya Ibrahim Ishaq. La donna, condannata a morte, con l’accusa di apostasia, ieri ha dato alla luce la bimba che portava in grembo. Massimiliano Menichetti:

    Si chiama Maya, la bambina di Meriam Ibrahim Yahya Ishaq, la 27.enne condannata all’impiccagione, per apostasia. La piccola è nata nell’infermeria del carcere di Khartoum, e sta bene. Per ora non ci sono possibilità che Meriam esca dal centro di detenzione. In cella, in catene, ha aspettato la nascita della piccola in compagnia del figlio di 20 mesi. Il marito lotta per liberarla dallo scorso 17 febbraio, quando è stata arrestata dopo la denuncia di un parente. Numerosi gli appelli per la scarcerazione da parte della Chiesa locale, ong e diplomatici. Su di lei pesa l’accusa di essersi convertita al cristianesimo. In realtà, è figlia di una donna cristiana ortodossa e di un musulmano che ha abbandonato la casa quando era piccola, quindi cresciuta con valori cristiani. Per la legge coranica però, che prevede la trasmissione della fede in linea paterna, rimane musulmana. E’ accusata anche di adulterio per aver sposato un cristiano e condannata per questo a cento frustate. Il patibolo è stato sospeso per due anni, per la nascita della figlia, previsto anche un nuovo processo che potrebbe escludere la pena capitale, ma nei giorni scorsi, secondo fonti locali, ha ricevuto ancora pressioni, respinte da Meriam, per abiurare la propria fede.

    “Bisogna rispettare il diritto fondamentale della libertà religiosa”. Così mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso gli Uffici Onu di Ginevra, sul caso di Meriam:

    R. – E un caso sintomatico e lo dobbiamo mettere nel più largo contesto dei casi come quello di Asia Bibi in Pakistan o di altre persone accusate o in prigione per blasfemia o per altri tipi di violazioni o presunte violazioni della legge della
    sharia. Il problema di fondo è: come rispettiamo i diritti umani fondamentali di queste persone, davanti a certe tradizioni o situazioni politiche, dove è difficile, per ragioni storiche e di cultura pubblica, rispettare questi diritti fondamentali?

    D. – E come si declina questa risposta, proprio nel caso concreto del Sudan?

    R. – Prima di tutto, mi pare ci sia da rispettare il principio della libertà religiosa, che è un diritto fondamentale: non solo di praticare una religione, ma anche di cambiare religione. E questo è riconosciuto anche dalla Costituzione del Sudan del 2005. E’ una Costituzione provvisoria, ma è la Costituzione che è in vigore. Questo ci dice che, nel caso di Meriam Ibrahim, il sistema giudiziario funziona un po’ sotto pressioni di circostanze locali, più che in linea con una giurisprudenza che dovrebbe, appunto, rispettare il diritto internazionale, riconosciuto anche dal Sudan, della libertà di culto e la libertà di coscienza e di religione. Poi, si tratta di vedere come nella società le donne sono trattate.

    D. – In che senso dice questo?

    R. – Per esempio, una donna ha libertà di contrarre matrimonio se è musulmana con un’altra persona musulmana, ma non con una persona di un’altra religione, mentre l’uomo musulmano può sposare una donna anche di un’altra religione, senza essere penalizzato attraverso la
    sharia
    o altri strumenti giuridici. Quindi, dobbiamo riflettere su questa situazione un po’ più in generale, vedere come aiutare e promuovere questi diritti fondamentali: la libertà di religione, di coscienza, la libertà di cambiare religione, una oggettività del sistema giudiziario, il rispetto della donna come uguale all’uomo nei diritti del matrimonio, dell’eredità, o della partecipazione nella vita pubblica… Partire da questi dati, cercare di creare un clima di dialogo, di comprensione, di educazione, soprattutto per far capire che la strada verso il futuro è quella di un rispetto della dignità di ogni persona.

    D. – Tanti sono stati gli appelli della Chiesa locale, anche molte Ong e diplomatici nel mondo sono impegnati nella liberazione di questa ragazza che ha 27 anni. Quanto conta la mobilitazione internazionale?

    R. – Creare un’opinione pubblica internazionale che faccia presente il diritto internazionale al governo e al sistema giudiziario del Sudan serve certamente molto, perché questa attenzione a queste situazioni possono indurre a dialogare e a riflettere sulla prevalenza del diritto internazionale su quello locale e, soprattutto, di questi diritti umani fondamentali che devono essere rispettati da tutti. E’ la strada per il futuro della convivenza umana. Dobbiamo lavorare tutti insieme nel mondo di oggi globalizzato, dove le differenze si moltiplicano, dove dappertutto viviamo in un pluralismo di religioni, di culture, di stili di vita che ci inducono a trovare una maniera di convivere pacificamente, partendo dal rispetto fondamentale della persona umana e della sua dignità.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   La voglia di camminare insieme: all'udienza generale il Papa parla del pellegrinaggio in Terra Santa e chiede perdono per le colpe nella divisione fra i cristiani.

    Lo spirito di Gerusalemme: il direttore su due libri scritti da ortodossi e cattolici, pubblicati negli Stati Uniti e in Francia.

    Jorge Milia sul "tempo di segni".

    L'editoriale di Francesco M. Valiante, nel "Giornale di Brescia", sul realismo di Francesco.

    Christopher J. Hale, in un articolo apparso sul "Time", parla degli artigiani di pace.

    Le nuove frontiere della povertà: nel messaggio alla conferenza dell'Ilo il Papa sottolinea le tragiche conseguenze della disoccupazione.

    Uomo per noi ha riempito l'universo: in prima pagina, Manuel Nin sull'Ascensione nelle omelie di Severo patriarca di Antiochia.

    Prima di tutto umiltà: Andrea Manto riguardo al dibattito sul fine vita.

    A lezione da uno sguardo: Francois Boespflug sull'immagine del Pantokràtor nell'arte cristiana.

    L'Europa auspica il dialogo fra Mosca e Kiev.

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    Oggi in Primo Piano



    A Donetsk è guerra, civili in fuga. Kiev lancia l'ultimatum ai filo-russi

    ◊   A Donetsk, nell’est dell’Ucraina, infuria la battaglia. Decine di civili tentano di salvarsi fuggendo verso la parte ovest della città, il cui centro è sotto il fuoco incrociato dei militari ucraini e dei miliziani. E le autorità di Kiev lanciano un ultimatum ai separatisti filorussi. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

    Arrendersi o morire. E’ l’ultimatum che Kiev ha lanciato ai filo-russi di Donetsk. Nella città, sorvolata dai caccia, è stato imposto il coprifuoco, e si spara in quasi tutte le zone. I civili tentano di mettersi in salvo fuggendo verso la parte ovest, mentre le forze ucraine stanno intensificando l’offensiva contro i miliziani. E’ battaglia di cifre sulle vittime delle ultime ore, a seconda delle fonti si parla di una quarantina, ma anche di un centinaio. La Croce Rossa chiede urgentemente medicinali e materiali per soccorrere il sempre più alto numero di feriti, mentre l’Osce annuncia il possibile ritiro degli osservatori. E' stato intanto liberato il sacerdote cattolico polacco che da ieri si trovava nelle mani dei miliziani filorussi. Ne ha dato notizia il ministero degli Esteri polacco.

    Ieri, mentre dall’Ue arrivava la richiesta a Mosca di collaborare con il nuovo presidente ucraino, quest’ultimo, Petro Poroshenko, incassava il sostegno del presidente Usa, Barack Obama, e soprattutto stupiva lanciando ai filorussi un secco ultimatum. Che periodo si apre con Poroshenko? Emanuela Campanile lo ha chiesto a Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano:

    R. – E’ un periodo in cui gli ucraini tentavano di chiudere questa partita, perché sanno che se la lasciano decantare l’inizio sarà una secessione di fatto. Pensiamo all’Abkhazia, pensate all’Ossezia, alla Transnistria: tutti territori esterni alla Federazione russa che hanno fatto secessione dalle rispettive Repubbliche con l’aiuto russo. Ogni volta che si lascia decantare una situazione del genere vuol dire dover rinunciare a un territorio. Sembra che sia un po’ difficile chiedere agli ucraini di procedere in questa direzione, anche se evidentemente siamo tutti preoccupati per il possibile acuirsi della crisi e siamo chiaramente molto rattristati per il sacrificio di vite umane. Ma quando le armi cominciano a parlare questo è inevitabile.

    D. – Molti analisti parlano del ruolo dagli oligarchi anche in Ucraina. Secondo lei, è fondamentale in questo scacchiere che ci ha appena presentata?

    R. – E’ molto importante in due direzioni. Da un lato, perché hanno interessi che potrebbero non essere più così facilmente tutelabili se l’Ucraina, nel lungo periodo, si avvicinasse progressivamente all’Unione Europea e diventasse quindi un territorio, uno Stato, governato dalla legge. Il ruolo degli oligarchi si è creato, è stato alimentato, da una situazione istituzionale molto lasca, soggetta alle pressioni dei più potenti. L’altro elemento è che bisogna sempre ricordare che questi oligarchi sono legati a filo doppio con Putin e la sua Russia. Putin non è solo il presidente della Russia, non è solo un presidente tendenzialmente autoritario di un sistema che si sta sempre più spersonalizzando, ma è anche l’uomo più ricco della Russia. La Russia è sempre più simile a un emirato arabo, nel senso che vive di grandi risorse naturali, di finanza, ed è un Paese in cui chi governa il Paese ne possiede la ricchezza economica in senso stretto. Quindi, questa cosa spiega molto delle mosse di Putin.

    D. – Di fronte a questi enormi interessi economici, che poi coinvolgono non solo nello specifico lo Stato dell’Ucraina ma l’intera Europa e non solo, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno le mani legate?

    R. – Non possiamo fare molto, nel senso che da un punto di vista militare, chiaramente, al momento la situazione non può prevedere nessun tipo di intervento a sostegno del governo. Dico al momento perché già si vede come con l’aumento dei morti, il quadro cambia e cambiano anche le opzioni e il costo politico delle opzioni. Per essere molto chiari: se la Russia non interviene è un discorso, se la Russia interviene come in Crimea è un discorso diverso ancora. Ma, se la Russia dovesse intervenire massicciamente e le forze ucraine fossero in grado di offrire una resistenza importante e il numero dei morti dovesse crescere notevolmente, a quel punto, per essere chiari, tutti gli scenari potrebbero cambiare. Il nostro intento è quello di limitare l’escalation, ma ogni volta che parliamo di limitare l’escalation dobbiamo pensare quali siano i mezzi che abbiamo, non solo per limitare l’escalation ma per produrre un risultato che noi riteniamo importante. Perché è chiaro che se noi lasciamo fare ai russi, l’escalation potrebbe non esserci –del tipo: si arrangino tra di loro e la cosa finisce lì. Però, noi non possiamo permettere questo.

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    Sud Sudan. Sfollati oltre 1 milione. Msf: si profila carestia

    ◊   In Sud Sudan il numero degli sfollati interni ha superato un milione di unità. Lo denuncia l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Il Paese è afflitto dalla guerra civile da oltre sei mesi e nonostante siano trascorse tre settimane dall'ultimo accordo per la tregua, continua a crescere il numero di persone in fuga: 370 mila i rifugiati in Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda. Le Nazioni Unite hanno dato ordine ai peacekeeper di proteggere i civili. Nell’area anche l’impegno di Medici Senza Frontiere.Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Stefano Zanini, responsabile supporto operazioni di MFS:

    R. – La situazione nel Sudan del Sud è estremamente preoccupante. Prima di tutto, c’è il fatto che continuano, anche se con intensità inferiori, i combattimenti nel Paese e continua lo spostamento massiccio di persone. I bisogni sono enormi e sono di tutti i tipi: un problema di protezione, cibo, acqua pulita e l’accesso alle cure mediche è estremamente limitato. Le capacità di intervenire sono estremamente ridotte e lo saranno ancora di più durante la stagione delle piogge, che è una stagione dove tradizionalmente il 60% del Paese viene completamente tagliato fuori dal resto.

    D. – Riuscite a essere presenti sul territorio, nonostante i combattimenti?

    R. – Si, la negoziazione con gli attori armati, siano essi governativi o ribelli, rimane una delle sfide principali per garantire la sicurezza. Nel Sudan del Sud, abbiamo in questo momento il più grosso intervento di Msf con oltre 300 operatori presenti nel Paese. Abbiamo curato, in questi ultimi cinque mesi, oltre 270 mila persone e stiamo lavorando anche nei Paesi limitrofi, come l’Etiopia, come il Kenya, come il Sudan e come l’Uganda, dove affluiscono i rifugiati.

    D. – Da una parte il conflitto che non cessa nonostante la tregua, ma c’è anche il problema non assolutamente secondario della semina che viene impedita. Questo cosa sta provocando?

    R. – I combattimenti di questi ultimi mesi hanno impedito la popolazione locale di procedere alla tradizionale semina che precede la stagione delle piogge e che permette poi di avere i raccolti nel secondo semestre dell’anno. Questo sostanzialmente significa due cose. La prima cosa è che molte persone hanno abbandonato le loro terre e il loro Paese proprio per la paura di una prossima carestia e il secondo effetto, la seconda conseguenza, che si comincerà ad avere è proprio una possibile crisi malnutrizionale, il che rappresenterebbe un’ulteriore emergenza sull’emergenza.

    D. – E’ presente anche una grave emergenza colera a Juba?

    R. – Questa è l’ultima triste notizia che arriva da Juba, la capitale del Sudan del Sud. Si è sviluppata in queste ultime due settimane, le ultime cifre parlano di oltre 700 casi di colera in capitale con 29 morti, il che significa un tasso di mortalità superiore al 3%, quindi alla soglia di emergenza.

    D. – In questo caso cosa fate?

    R. – Sostenere l’ospedale principale della capitale. Abbiamo aperto tre centri per il trattamento di colera e curato a oggi un centinaio di pazienti e stiamo operando per aprire ulteriori centri per il trattamento, punti di reidratazione, garantire distribuzione di acqua potabile e fare quante più attività preventive e informative possibili presso la popolazione locale.
    D . – Qual è l’auspicio di fronte a una situazione del genere?

    R. – L’auspicio è che le cose migliorino il prima possibile. Che questo Paese e la sua popolazione riescano a uscire finalmente e definitivamente dall’incubo della guerra e a costruire un Paese solido e in pace. Mai come nel Sudan del Sud, purtroppo, a pagare il prezzo più caro delle guerre e degli scontri sono le persone più povere e i più vulnerabili.

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    Usa lasciano Afghanistan: atteso accordo su sicurezza

    ◊   Ennesimo attacco in Afghanistan, nella provincia occidentale di Herat. Feriti due cittadini americani in un’auto diplomatica. Solo poche ore fa, il presidente Obama ha annunciato che nel 2015, se sarà firmato l'Accordo bilaterale strategico (Bsa), resteranno in Afghanistan meno di 10 mila uomini. E’ previsto infatti che si chiuda alla fine del 2014, dopo un decennio, la missione di combattimento americana in Afghanistan. L’accordo, già approvato anche dall'assemblea di anziani e leader tribali, la Loya Jirga, non è stato firmato dal presidente Karzai e dunque verrà sottoposto al suo successore che uscirà dal ballottaggio, il 14 giugno, tra i due ex ministri, quello degli Esteri, Abdullah Abdullah (45% dei voti), e quello delle Finanze, Ashraf Ghani (31,6%). Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università del Salento:

    R. - È chiaro che probabilmente un governo afghano - qualsiasi esso possa essere - abbia bisogno di un appoggio esterno o interno e in questo caso degli Stati Uniti. Però c’è anche da dire che ci troviamo in un momento di passaggio tra una presidenza ed un’altra, e quindi bisogna vedere chi prende degli impegni e con chi. Questo è il problema più grave.

    D. - Possiamo dire che il Paese è pronto al ritiro delle truppe statunitensi?

    R. - Non credo che il Paese sia pronto al ritiro delle truppe statunitensi, però aggiungerei che probabilmente non sarà mai pronto ad un possibile ritiro se queste assicurassero una sicurezza sul campo. Dobbiamo comunque guardare al passato e all’esperienza, ad esempio, della guerra in Iraq, e analizzare se questo ha lasciato degli aspetti assolutamente positivi in un Paese dopo un intervento degli Stati Uniti in Iraq o quello della Nato in Afghanistan. Qui la mia risposta è sì, sicuramente ci sono dei problemi di sicurezza. Per potere avere una certa stabilità – lo riconoscono gli alti comandi americani e della Nato - le amministrazioni hanno dovuto scendere a patti in alcune province più calde - diciamo così - o con i vecchi capi talebani, o con uomini che in un modo o in un altro sono legati a questi vecchi capi. Quindi a questo punto, tutta l’euforia iniziale della guerra contro i talebani si è risolta in un cambio di governo nella capitale ma nelle province lontane - e a volte nemmeno così lontane - la situazione è praticamente ugnale a quella del 2001. Se guardiamo agli avvenimenti, c’è stata una vittoria nei confronti di Al Qeada in Afghanistan: almeno i capi più importanti sono stati costretti a cambiare territorio, ad andare in un territorio probabilmente molto meno sicuro per loro. Però se guardiamo la strategia globale di Al Qaeda - perché Al Qaeda lo sanno tutti non è un’organizzazione terroristica normale ma è una rete e questo rende quasi impossibile bloccarla in tutti i suoi gangli - notiamo che si è praticamente dispiegata sull’intero vicino e Medio Oriente approfittando a volte di alcune crisi determinate o dalle pseudo Primavere arabe oppure - e guardiamo alla Libia - da interventi che gli occidentali hanno fatto in quell’area per mandare via Gheddafi che, in un modo o in un altro, però rappresentava almeno in quel Paese la stabilità. Lo stesso problema si sta verificando ahimè in Siria.

    D. - In pochissime parole come descriverebbe i cambiamenti in questi dieci anni di missione statunitense nel campo geopolitico?

    R. - Nel campo geopolitico si sono create - ahimè - alcune crisi che hanno reso il quadro generale ancora più instabile. Posso capire l’intervento iniziale subito dopo l’11 settembre nei confronti dell’Afghanistan visto come il terreno che dava ospitalità ai talebani, ma da quello, alla famosa esportazione della democrazia è stato un salto e un totale e assoluto fallimento.

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    Conferenza Fmi in Mozambico. Intervista esclusiva al Direttore Lagarde

    ◊   L’economia dell'Africa subsahariana continua crescere da oltre 10 anni. Secondo il Fondo Monetario Internazionale quest'anno il Pil aumenterà del 5,5 %. Si tratta, però, di una crescita che non ha ricadute positive su alcune delle popolazioni più povere del pianeta. Christine Lagarde Direttore Generale del Fondo Monetario, alla vigilia della Conferenza dell'organismo in Mozambico, afferma che le scelte dei Governi africani saranno decisive per determinare il tipo di sviluppo di tutto il Continente, e che le donne potranno giocare un ruolo chiave. Ascoltiamo Christine Lagarde nell’intervista, in esclusiva alla Radio Vaticana, realizzata a Washington da Francesca Baronio:

    R. – La situation économique africaine à changé, et elle est passée de cette …
    La situazione economica africana è cambiata: è passata da una stabilizzazione necessaria all’attuale dibattito sulla crescita. Quale crescita? A beneficio di chi? Intanto, bisogna constatare i progressi raggiunti, ricordare che il tasso di povertà nell’Africa subsahariana è diminuito del 10% da quando erano stati fissati gli Obiettivi del Millennio. Intanto, però, la povertà estrema non è diminuita. La situazione, sul piano macroeconomico, è relativamente stabile per l’insieme di questi Paesi, considerando la percentuale del debito Pil, considerando il deficit budgetario, considerando la bilancia commerciale; le prospettive di crescita sono buone… Ora, è necessario che i Paesi e le autorità africane decidano in quale modo vogliono organizzare questa crescita: se vogliono perseguire la crescita “inclusiva”, che è quella che noi raccomandiamo, della quale possa beneficiare la più gran parte della popolazione, e quali mezzi utilizzare per farlo. Noi sappiamo che, a queste condizioni, è possibile che la povertà e pure la povertà estrema continuino a regredire nei Paesi subsahariani.

    D. – Alcuni Paesi emergenti, Cina in testa, sono fra i partner più attivi del continente. Il rallentamento dei loro tassi di crescita che effetto può avere sull’Africa?

    R. – Il ne faut pas faire un raillement sur la baisse du taux de croissance des pays émergeants...
    Non si può dare un dato unico sul rallentamento del tasso di crescita dei Paesi emergenti. Se il tasso di crescita della Cina passa dall’8 al 7,5 %, questo non intaccherà gravemente l’insieme dei rapporti economici tra la Cina e i Paesi dell’Africa subsahariana, né sul piano degli investimenti diretti, né sul piano dei finanziamenti, né sul piano del commercio. Queste correnti di affari continueranno a essere estremamente importanti per tutto quello che riguarda al tempo stesso lo sviluppo interno e domande rivolte ai Paesi subsahariani.

    D. – Il Fondo monetario spesso è stato accusato di imporre programmi dall’alto costo umano in termini di disoccupazione e di impoverimento…

    R. – C’est un reproche qui a été fait autres fois et qui ressemble vraiment le…
    Questo rimprovero gli è stato mosso molte altre volte e si riferisce al Fmi di una volta: non è questo il Fmi di oggi. Oggi, il Fondo monetario è quanto meno preoccupato delle conseguenze dei programmi concordati insieme con le autorità africane coinvolte. Se si mettono a confronto i Paesi che aderiscono a un programma con il Fondo e i Paesi che non lo fanno, ci si rende conto che i Paesi che vi aderiscono hanno investito in media il 20% in più del denaro pubblico nell’educazione, il 40% di denaro pubblico nella sanità rispetto agli altri. Forse questi programmi sono dolorosi nel momento in cui devono essere applicati, ma se non altro risultano in un buon utilizzo del denaro pubblico.

    D. – Quindi, nessun rimpianto?

    R. – Les regrets ne servent a rien. Ce qu’il faut c’est apprendre…
    I rimpianti non servono a niente. Quello che è necessario è imparare, fare tesoro dell’esperienza e quindi fare meglio ad ogni nuovo passo, tenendo conto delle conseguenze.

    D. – Molti Paesi africani dipendono da economie non diversificate, agricoltura e petrolio… Quale strada bisogna intraprendere per una crescita più sostenibile?

    R. – Forcer les pays qui ont de très importantes ressources naturelles: il faut…
    Spingere i Paesi che hanno importanti risorse naturali a sfruttarle meglio. Il secondo imperativo è stabilire, in funzione di tutte le risorse – demografiche, naturali, trasporto, infrastrutture – dove la diversificazione dell’economia possa essere utile. Non vale la pena di impegnarsi tanto per la diversificazione se poi non ci sono le infrastrutture, se non c’è l’energia elettrica per produrre… Quindi, alcuni Paesi hanno incominciato a prendere coscienza di queste pratiche, come l’Uganda, la Tanzania, che si sono avviate su questa strada della diversificazione.

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    Oltre 6 milioni i senza lavoro secondo il Rapporto Istat 2014

    ◊   E’ focalizzata sulle sfide su cui si dovranno confrontare l’economia e la società in Italia per intraprendere il percorso di ripresa, l'attenzione del Rapporto annuale 2014 dell’Istat presentato oggi nella "Sala della Regina" di Palazzo Montecitorio a Roma. Secondo l’Istituto di ricerca, esistono “deboli segnali positivi” riguardo al forte disagio economico rilevato negli anni scorsi ma, in 5 anni, 100 mila giovani se ne sono andati all’estero in cerca di lavoro. Da rilevare anche il nuovo minimo storico delle nascite, mentre si conferma una speranza di vita più alta rispetto alla media europea. Il servizio di Adriana Masotti:

    Sono 6,3 milioni gli italiani che non hanno un posto di lavoro tra coloro che lo perdono e quelli che lo stanno cercando, in aumento gli scoraggiati. In crescita costante i giovani 15-29.enni non occupati e non in formazione, in totale 2,4 milioni, mentre aumentano i disoccupati nella fascia d’età dai 35 anni in su. Per molti lavoratori, invece, c'è l’incertezza prolungata del posto: 527 mila precari svolgono lo stesso impiego da almeno cinque anni.

    Frutto della crisi non solo economica un "fenomeno emergente", quello del ricompattamento delle famiglie che, secondo l’Istat, coinvolgerebbe oltre 1,5 milioni di persone. Un fenomeno legato al "rientro dei figli nei nuclei genitoriali dopo separazioni o divorzi, emancipazioni non riuscite o attraverso la coabitazione con parenti" . Dato positivo del 2013, l’attenuarsi del forte disagio economico: la quota di persone appartenenti a famiglie in condizioni di grave deprivazione scende al 12,5%, pari a 7,6 milioni di individui: erano 8,7 milioni nel 2012.

    La crisi frena gli immigrati: nel 2012 gli ingressi sono stati 321mila, -27,7% rispetto al 2007. Aumenta invece il numero di stranieri che se ne vanno ed è un vero boom di partenze degli italiani. Nel 2012, hanno lasciato il Paese oltre 26 mila giovani tra i 15 e i 34 anni: le mete di destinazione privilegiate sono Regno Unito, Germania e Svizzera.

    Per quanto riguarda le cose da fare per portare a un aumento del numero di occupati, il Rapporto indica per le imprese anzitutto una riduzione del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro''. Seguono l'abbassamento degli oneri burocratico-amministrativi, la diminuzione dei vincoli al licenziamento, maggiori incentivi all'assunzione, un miglioramento nei servizi per l'impiego.

    In Italia, secondo l’Istat è record negativo per le nascite dopo quasi vent'anni. Nel 2013, si stimano iscritti all'anagrafe poco meno di 515 mila bambini. Le donne italiane in età feconda fanno pochi figli (in media 1,29 per donna) e sempre più tardi, ma anche le immigrate contribuiscono sempre meno alla natalità del Paese. Ancora: l'Italia si conferma uno dei Paesi più vecchi al mondo. Con 151,4 persone over-65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Tra i Paesi europei solo la Germania ha un valore più alto. La speranza di vita, superiore alla media europea, è di 79,6 anni per gli uomini e 84,4 per le donne.

    L'Italia si trova in una posizione di svantaggio riguardo al livello di istruzione della popolazione''. Nel 2013, appena il 16,3% delle persone tra i 25 e i 64 anni possiede un titolo di studio universitario contro il 28,4% della media dell'Ue. Guardando all'inserimento nel mercato del lavoro si rileva che il titolo di studio paga ancora.

    Nel 2011, per la prima volta dal 2003, la spesa sociale risulta in diminuzione rispetto all'anno precedente. Calano le risorse destinate dai Comuni alle politiche di welfare. La spesa rivolta ai disabili aumenta, ma cala quella rivolta agli anziani così come quella per la povertà e il disagio. A rischio per il futuro, sottolinea l’Istat, anche l’impegno delle associazioni non profit attive nei settori della sanità e dell'assistenza, essendo la maggior parte del finanziamento di natura pubblica. In tale quadro, diminuisce la spesa per consumi e cresce l’indebitamento per molte famiglie che fino al 2011 avevano utilizzato i risparmi accumulati.

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    Martinez: grande dono l'incontro del mondo carismatico col Papa

    ◊   “Un dono senza precedenti”. Con questi sentimenti gli organizzatori della 37.ma “Convocazione del Rinnovamento con Papa Francesco” si preparano all’incontro del mondo carismatico, italiano e internazionale, allo Stadio Olimpico di Roma, il prossimo primo giugno. Oggi, in conferenza stampa, nella sede della nostra emittente, sono stati presentati i particolari dell’incontro con il Papa, che avverrà a partire dalle 17 di domenica prossima, e sulla prosecuzione del raduno nella giornata del 2 giugno.Federico Piana ne ha parlato con Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo:

    R. – Kairos è un tempo miracoloso, un tempo opportuno, un tempo che non si programma, ma che si vive: un dono che si riceve. E il dono è davvero senza precedenti, perché segna intanto una forte discontinuità con la nostra storia: trasferire da un luogo chiuso a un luogo pubblico, a un areopago della nuova evangelizzazione, è certamente un fatto senza precedenti. Al contempo la presenza del Papa, che mai si era unito ad un programma del Rinnovamento nello Spirito e mai era entrato allo Stadio Olimpico per presiedere un momento così intenso di preghiera, di animazione spirituale, di testimonianze, di ascolto. Mi pare di poter dire che ci sono dentro questo evento tanti significati, tante novità e privilegi che però responsabilizzano, perché ci rendiamo conto che il dono è ben più grande e che il Papa attraverso di noi – e non soltanto a noi – vuole rilanciare un messaggio molto importante alla vigilia della Pentecoste e cioè questo ritorno allo Spirito Santo, questo ritorno allo spirituale, questo bisogno di ridare interiorità e quindi vitalità spirituale alla nostra fede.

    D. – Com’è nata l’idea di portare Papa Francesco allo stadio?

    R. – Intanto, l’idea di trasferire da Rimini in un luogo del centro-sud d’Italia la nostra Convocazione. Il 9 settembre scorso, parlando con il Santo Padre di questo desiderio e confermandomi lui la disponibilità a intervenire, abbiamo trovato in questo avallo, in questo discernimento l’occasione per tentate una realizzazione nuova della nostra Convocazione. Che venisse da Dio questo sogno e anche questa disponibilità del Papa la prova la abbiamo avuta appena un mese e mezzo dopo, quindi siamo già a febbraio, con lo stadio già gremito. Non è stato quindi difficile muovere così tante persone, perché quando nel cuore si ha il desiderio e si manifesta contestualmente e tutti lo attestano, allora lì si capisce che è un kairos.

    D. – Anche perché con il Papa Rinnovamento nello Spirito ha un rapporto speciale…

    R. – Non abbiamo alcun merito, né alcun vanto. Il Papa ha sempre avuto con tutti i movimenti, con tutte le comunità delle relazioni amicali, delle relazioni familiari e di paternità espresse. Certamente, essendo stato referente del Rinnovamento in Argentina ha avuto modo di vedere da vicino, di seguire direttamente, attentamente il cammino, l’evoluzione del movimento. Stiamo dando alle stampe un libretto intitolato “Il cardinale Bergoglio e il Rinnovamento”, in cui si raccontano questi incontri con omelie, scritti e interventi che il Papa ha offerto in questi anni.

    D – Un’ultima domanda: che frutti vi aspettate da questo evento?

    R. – Intanto, la conversione: conversione non è soltanto una parola confessionale, è anche una parola laica, è cambiamento. E poi credere: c’è bisogno di tornare a credere. E poi ricevere lo Spirito Santo, cioè una Persona: è una Persona così preziosa, così potente, così indispensabile da non lasciarla accantonata nel cassetto dei ricordi. Dello Spirito Santo bisogna saperne fare un racconto ogni giorno.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Camerun: il card. Filoni dai seminaristi di Yaoundé

    ◊   “Il seminario è un cammino che consente ai giovani chiamati di avvicinarsi a Gesù e di trasformarsi in lui. Questo cammino, anche se lungo, è essenziale per il futuro sacerdote, perché possa rispondere personalmente alla chiamata di Cristo liberamente e con convinzione, e diventare, attraverso il sacramento dell'Ordine, immagine viva di Gesù Cristo, Capo, Servo e Pastore della Chiesa”. Sono le parole con cui il card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, si è rivolto ai circa 120 seminaristi del Seminario maggiore di Nkolbisson-Yaoundé, dove si è recato nel pomeriggio di ieri, all’inizio della sua visita pastorale in Camerun, dove concluderà il Centenario dell’Evangelizzazione dell’arcidiocesi di Bamenda.

    Il Prefetto del Dicastero Missionario - riferisce l'agenzia Fides - ha presieduto i vespri solenni nella cappella del Seminario, quindi, nell’Aula magna, ha incontrato i seminaristi ed i loro formatori. Nel suo discorso ha incoraggiato i seminaristi “a diventare sacerdoti, gioiosi testimoni del Vangelo, come evidenzia Papa Francesco, ‘collaboratori di Dio’ nell’opera di salvezza del genere umano”. Il sacerdote è infatti chiamato ad essere un “alter Christus, un altro Cristo”, e “come rappresentante di Cristo tra gli uomini, egli deve realizzare il percorso di trasformazione della sua vita per diventare più simile possibile a Cristo stesso”.

    “Questa identificazione costante con Cristo – ha proseguito il cardinale - deve essere a tutti i livelli: umano, intellettuale, spirituale e pastorale. Si realizza mediante la preghiera, una preghiera intensa e costante, personale e comunitaria, con Gesù sempre davanti agli occhi come punto di riferimento. La conformazione a Cristo si alimenta con i sacramenti, specialmente l'Eucaristia e la Riconciliazione”. Quindi li ha così esortati: “lavorate, cari giovani fratelli, all'integrazione armoniosa di tutte queste dimensioni umane, spirituali e intellettuali. Sono loro che vi aiuteranno a brillare nella carità pastorale, e quindi a mettervi al servizio degli altri".

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    Card. Tumi chiede a Boko Haram di liberare missionari rapiti

    ◊   “Il messaggio che indirizziamo ai rapitori che detengono i nostri fratelli è che li liberino e che dialoghino”. È l’appello lanciato attraverso i mass media, e diffuso dall’Agenzia Fides, dal cardinale Christian Wiyghan Tumi, arcivescovo emerito di Douala, al gruppo integralista islamico nigeriano dei Boko Haram, invitando al dialogo per liberare i due sacerdoti, missionari fidei donum italiani, e la suora canadese rapiti il 5 aprile nel nord del Paese, al confine con la Nigeria. Secondo le informazioni pervenute alla stessa Fides, il cardinale Tumi, nel condannare “la violenza che non risolve niente”, ha fatto appello sia alle autorità sia a Boko Haram perché seguano “la via del dialogo, dell’amore ed evitino l’odio”. I due sacerdoti italiani fidei donum della diocesi di Vicenza, don Gianantonio Allegri e don Giampaolo Marta, e la suora canadese di 80 anni, dell’ordine delle Suore della Divina Volontà di Bassano del Grappa, sono stati rapiti nella notte tra il 4 e il 5 aprile nella diocesi di Maroua-Mokolo nel nord del Camerun. (A.D.C.)


    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 148

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.