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Sommario del 13/05/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa: chi crede di sapere tutto non può capire Dio
  • Nomina episcopale in Grecia
  • E’ morto il cardinale Cè. Il Papa: pastore mite e saggio della Chiesa veneziana
  • La visita del Papa in Molise. Mons Bregantini: sarà un dialogo con tutta la regione
  • Papa, tweet: leggiamo il Vangelo un po’ ogni giorno. Impareremo a vivere amore e misericordia
  • Mons. Paglia a Philadelphia sullo sfondo del raduno delle famiglie 2015
  • Congresso delle famiglie d'Asia. Mons. Laffite: rilanciamo i diritti propri del matrimonio
  • Anniversario di Fatima. I Papi e il mondo "consegnato" a Maria
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Ucraina. Ministro degli Esteri tedesco a Kiev: sostenere dialogo nazionale per risolvere crisi
  • Siria: opposizione denuncia mancato rispetto dell’accordo sulla tregua ad Homs
  • India, elezioni. La destra di Modi prevale sul Congresso di Sonia Gandhi
  • Immigrazione: dopo il naufragio di ieri è scontro aperto tra Italia e Ue
  • "Stop alla Tortura": Amnesty lancia la campagna a 30 anni dalla Convenzione Onu
  • Rapporto dell'Ilo sulla maternità: 830 milioni di donne senza alcuna tutela
  • Il card. Vallini: grato a Dio per i 50 anni di sacerdozio e i 25 di episcopato
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Irlanda: prosegue nella Chiesa la "tolleranza zero"' per gli abusi sessuali
  • Iraq. L'arcivescovo di Mosul: l’Occidente dimentica il dramma iracheno
  • Usa: i vescovi sollecitano la riforma dell'immigrazione
  • Usa: crescono gli ispanici nella Chiesa. Tra loro in calo i cattolici
  • Kenya: preoccupazione del card. Njue per clima di violenza e terrorismo
  • Assemblea dei vescovi del Pacifico: “Leggere i segni dei tempi in Oceania”
  • Papua Nuova Guinea: uccisi sacerdote e laico ministro straordinario dell’Eucarestia
  • Thailandia: i vescovi offrono al re le reliquie dei due Papi santi
  • Il Premio Templeton al sacerdote ceco Tomas Halik
  • Cristiani perseguitati: luci del Colosseo spente per dire "basta"
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa: chi crede di sapere tutto non può capire Dio

    ◊   Le cose di Dio non si possono capire solo con la testa, bisogna aprire il cuore allo Spirito Santo. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha quindi sottolineato che la fede è un dono di Dio, ma non si può ricevere se si vive “staccati” dal suo popolo, dalla Chiesa. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Le Letture del giorno, ha osservato Papa Francesco, ci mostrano “due gruppi di persone”. Nella Prima Lettura “ci sono quelli che sono stati dispersi a causa della persecuzione scoppiata” dopo l’uccisione di Stefano. “Sono stati dispersi con il seme del Vangelo – ha detto il Papa – e lo portano dappertutto”. All’inizio, parlano soltanto ai giudei. Poi, “in modo naturale, alcuni di loro”, giunti ad Antiochia, “cominciarono a parlare anche ai greci”. E così, lentamente, è stata la riflessione del Papa, “hanno aperto le porte ai greci, ai pagani”. Arrivata la notizia a Gerusalemme, ha rammentato, Barnaba fu mandato ad Antiochia “per fare una visita di ispezione”. E tutti, ha constatato, “sono rimasti contenti”, perché “una folla considerevole fu aggiunta al Signore”.

    Questa gente, ha sottolineato Francesco, “non ha detto andiamo prima dai giudei, poi dai greci, ai pagani, a tutti. No! Si è lasciata portare dallo Spirito Santo! E’ stata docile allo Spirito Santo”. E poi, ha proseguito, “una cosa viene dall’altra” e “finiscono aprendo le porte a tutti: ai pagani, che per la mentalità loro erano impuri”, “aprivano le porte, a tutti”. Questo, ha ribadito, “è il primo gruppo di persone, quelle che sono docili allo Spirito Santo”. “Alcune volte – ha soggiunto – lo Spirito Santo ci spinge a fare cose forti: come ha spinto Filippo ad andare a battezzare” il ministro etiope, “come ha spinto Pietro ad andare a battezzare Cornelio”:

    “Altre volte, lo Spirito Santo soavemente ci porta e la virtù è lasciarsi portare dallo Spirito Santo, non fare resistenza allo Spirito Santo, essere docili allo Spirito Santo. E lo Spirito Santo agisce oggi nella Chiesa, agisce oggi nella nostra vita. Qualcuno di voi potrà dirmi: ‘Mai lo ho visto!’. ‘Ma, fa’ attenzione a cosa succede, cosa ti viene in mente, cosa ti viene nel cuore. Cose buone? E’ lo Spirito che ti invita ad andare per quella strada. Ci vuole docilità! Docilità allo Spirito Santo”.

    Il secondo gruppo che ci presentano le Letture è quello degli “intellettuali, che si avvicinano a Gesù nel tempio: sono i dottori della legge”. Gesù, ha annotato il Papa, ha sempre avuto problemi con questi, “perché non finivano di capire: giravano sulle stesse cose, perché credevano che la religione era cosa soltanto di testa, di leggi”. Per loro, bisognava “compiere i comandamenti e niente di più. Non si immaginava che esistesse lo Spirito Santo”. Interrogavano Gesù, “volevano discutere. Tutto era nella testa, tutto è intelletto”. “In questa gente – ha soggiunto - non c’è il cuore, non c’è l’amore e la bellezza, non c’è l’armonia”, è gente “che soltanto vuole spiegazioni”:

    “E tu gli dai le spiegazioni e loro, non convinti, tornano con una altra domanda. E’ così: girano, girano… Come hanno girato attorno a Gesù tutta la vita, fino al momento che sono riusciti a prenderlo e a ucciderlo! Questi non aprono il cuore allo Spirito Santo! Credono che anche le cose di Dio si possono capire soltanto con la testa, con le idee, con le proprie idee. Sono orgogliosi. Credono di sapere tutto. E quello che non entra nella loro intelligenza non è vero. Ma tu puoi risuscitare un morto davanti a loro, ma non credono!”.

    Gesù, ha così evidenziato, “va oltre” e dice una “cosa fortissima”: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore! Voi non credete perché non siete del popolo di Israele. Siete usciti dal popolo. Siete nell’aristocrazia dell’intelletto”. Questo atteggiamento, ha ammonito, “chiude il cuore. Loro hanno rinnegato il loro popolo”:

    “Questa gente si era staccata dal popolo di Dio e per questo non poteva credere. La fede è un dono di Dio! Ma la fede viene se tu sei nel suo popolo. Se tu sei - adesso - nella Chiesa, se tu sei aiutato dai Sacramenti, dai fratelli, dall’assemblea. Se tu credi che questa Chiesa è il Popolo di Dio. Questa gente si era staccata, non credeva nel Popolo di Dio, credeva soltanto nelle sue cose e così aveva costruito tutto un sistema di comandamenti che cacciavano via la gente: cacciavano via la gente e non la lasciavano entrare in Chiesa, nel popolo. Non potevano credere! Questo è il peccato di resistere allo Spirito Santo”.

    “Due gruppi di gente”, ha ripreso il Papa, quelli “della dolcezza, della gente dolce, umile, aperta allo Spirito Santo”, e quell’altra “orgogliosa, sufficiente, superba, staccata dal popolo, aristocratica dell’intelletto, che ha chiuso le porte e resiste allo Spirito Santo”. “E non è testardaggine questa”, ha detto, “di più: è avere il cuore duro! E questo è più pericoloso”. Guardando questi due gruppi di persone, è stata la sua invocazione, “chiediamo al Signore la grazia della docilità allo Spirito Santo per andare avanti nella vita, essere creativi, essere gioiosi, perché l’altra gente non era gioiosa”. E quando “c’è tanta serietà – ha affermato – non c’è lo Spirito di Dio”. Chiediamo, dunque, “la grazia della docilità e che lo Spirito Santo ci aiuti a difenderci da quest’altro spirito cattivo della sufficienza, dell’orgoglio, della superbia, della chiusura del cuore allo Spirito Santo”.

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    Nomina episcopale in Grecia

    ◊   In Grecia, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale delle diocesi di Syros, Milos, Santorini e all’ufficio di amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis di Candia (Creta) presentata per raggiunti limiti di età da mons. Fragkiskos Papamanolis. Al suo posto, il Papa ha nominato il sacerdote Petros Stefanou, finora parroco di San Pietro Apostolo a Posidonia e di San Giuseppe a Vissas nell’Isola di Syros, nonché Economo Diocesano. Mons Stefanou è nato il 17 agosto 1963 a Ermupoli, Syros. Dopo la scuola elementare e quella secondaria a Syros, ha frequentato l’Università di Atene dal 1982-1986, laureandosi in Economia. Dal 1989 al 1995 ha proseguito la formazione sacerdotale nel Seminario Diocesano di Padova e ha conseguito il Baccalaureato in Filosofia e Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. È stato ordinato sacerdote il 15 Luglio1995 nel Santuario di Faneromeni per la Diocesi di Syros. Ha ricoperto i seguenti incarichi: dal 1995 è Parroco di San Pietro Apostolo a Posidonia, e San Giuseppe a Vissas; insegnante di religione nelle scuole medie; Economo diocesano e membro del Consiglio Economico; Responsabile del Centro Pastorale San Paolo e del Centro Catechetico; Segretario della Commissione per la Catechesi a Syros. Parla italiano, inglese e francese.

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    E’ morto il cardinale Cè. Il Papa: pastore mite e saggio della Chiesa veneziana

    ◊   Cordoglio di Papa Francesco per la morte del cardinale Marco Cè, patriarca emerito di Venezia, morto ieri all’età di 88 anni. Nel telegramma indirizzato a mons. Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, il Papa definisce il porporato un fratello “che ha servito con gioia il Vangelo e ha amato teneramente la Chiesa”. Il Pontefice ricorda “la sua instancabile opera profusa dapprima a Crema sua diocesi di origine, poi a Bologna al fianco del cardinale Poma, in seguito nell’Azione Cattolica italiana, infine come mite e saggio pastore” della Chiesa veneziana. Francesco ricorda anche il “generoso servizio da lui reso alla Parola di Dio mediante la predicazione di giornate di spiritualità al clero e ai giovani, come pure il fervido impegno nell’attuazione di un autentico spirito liturgico”.

    Nato a Izano, in provincia di Cremona, l’8 luglio 1925, il cardinale Cè è stato ordinato sacerdote il 27 marzo 1948. Rettore del Seminario della diocesi di origine, assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica, è stato poi chiamato alla guida del patriarcato di Venezia da Giovanni Paolo II il 7 dicembre 1978. Nel 2006 predicò gli esercizi spirituali a Benedetto XVI. Il porporato è morto all’ospedale Santi Giovanni e Paolo di Venezia, dove era ricoverato dal 19 marzo scorso per la frattura di un femore, in seguito ad una caduta in casa.

    Con la morte del card. Cè, il Collegio cardinalizio scende a 215 porporati, di cui 119 elettori e 96 non elettori.

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    La visita del Papa in Molise. Mons Bregantini: sarà un dialogo con tutta la regione

    ◊   Per la terza volta in trent’anni, la regione Molise accoglierà un Pontefice. Papa Francesco sarà in visita alle città di Campobasso e Isernia il prossimo 5 luglio”. “Una gioia immensa e un grazie al Papa per la sua disponibiltà”, commenta l’arcivescovo di Campobasso-Bojano, mons. GianCarlo Bregantini, che oggi a Campobasso ha presentato in conferenza stampa i dettagli della giornata, articolata in sette tappe. Un vero “percorso”, spiega il presule al microfono di Gabriella Ceraso:

    R. – Farà sette tappe: incredibile. Alle 9, dopo l’arrivo, il mondo produttivo all’università: parleranno gli agricoltori che si sono laureati e sono tornati nei campi. E’ un’immagine nuova, di un’agricoltura moderna che il Molise esprime. Secondo, la sosta alla cattedrale con la preghiera presso la tomba di un vescovo che è morto sotto le bombe nel 1943 e la sua morte ha salvato la città. Terzo, la celebrazione eucaristica alle 11 nello stadio, previste circa 30 mila persone. Quindi, praticamente la città lo riceve. Poi alla Casa degli Angeli, al pranzo con i poveri.

    D. – E poi, nel pomeriggio, la sosta al Santuario regionale di Castel Petroso con l’incontro con i giovani, e a Isernia, la sosta al carcere, quindi alla cattedrale per l’abbraccio alla città. Dunque, un percorso ricco di un messaggio…

    R. – Tutte le tappe hanno un significato. Rappresentano, in fondo, un dialogo con la città e con tutto il mondo del Molise.

    D. – Una piccola regione, che però è una regione molto religiosa: una terra di periferia, una terra di migrazioni… Sono tanti, gli spunti che si offrono per il Papa, no?

    R. – Sì: credo che l’abbia convinto a venire la realtà proprio periferica, perché se io guardo le visite che ha fatto in Italia si compone già un mosaico di luce, di umiltà, di verità e di semplicità. Ha visitato tutte le zone periferiche e questo rende onore a questo stile, secondo la logica del Vangelo.

    D. – Lo slogan di questa visita è “Dio non si stanca di perdonare”. Perché questa scelta?

    R. – Abbiamo pensato che il perdono sia il nocciolo del suo messaggio, con due conseguenze: una positiva, la logica dell’incontro che noi chiediamo nella preghiera tutti i giorni, e l’altra, negativa nella sua realtà, ma positiva nei suoi effetti, ed è “vincere la logica dello scarto”. E’ lo sfondo che noi vorremmo chiedere al Signore di vivere: incontrarsi per evitare che nessuno sia scartato.

    D. – Lei ha già avuto modo di sentire la gente: c’è entusiasmo, attesa, ci sono interrogativi? Perché so che il percorso di preparazione organizzato è lungo, fatto di Consigli pastorali, di appuntamenti sul territorio…

    R. – Sì, accanto allo stupore e alla gioia immensa di essere stati considerati, anzi noi usiamo una parola ancora più bella: essere stati “scelti”. Il terzo elemento importante è sentire che siamo avvolti dal suo abbraccio, dalla sua misericordia, dal suo stile, dall’amore di un Cristo che non scarta nessuno e da uno Spirito Santo che ci incontra, che si fa Paraclito.

    D. – Sarà una visita al Molise, cioè una visita a tutta la popolazione, perché tutta la popolazione sarà rappresentata negli incontri che il Papa avrà...

    R. – Sì, sì. Per esempio, il mondo produttivo sarà rappresentato da un contadino di un paese che si chiama Riccia, a 30 km da Campobasso, e da un operaio di Termoli, della Fiat. E la diocesi di Trivento sarà presente alla cattedrale di Isernia, oltre che tutti i vescovi del Molise, dell’Abruzzo, gli emeriti... Saremo una ventina di vescovi.

    D. – E poi, ovviamente, negli appuntamenti di piazza, tutti quelli che possono arriveranno dai dintorni …

    R. – Certo: da Benevento, Avellino, Foggia, dalle diocesi accanto dell’Abruzzo, da Frosinone, Cassino… Sono già tantissime le richieste!

    D. – Cosa si aspetta, dunque, da questa presenza che è la terza di un Pontefice – nel 1983 e nel 1995 con Giovanni Paolo II – nel vostro territorio?

    R. – Questa terra ha bisogno di questo slancio, di questo entusiasmo, per vincere una insidia che talvolta qui e altrove in Italia si insinua, che è l’accidia, cioè l’accontentarsi. Il Papa viene a scuoterci con il suo stile fuori dalle righe, con quel chiederci che la Chiesa sia in uscita, nel privilegiare la missione su ogni altra cosa, perché fonte poi, essa stessa, di risanamento per le nostre ferite, con lo sguardo oltre il presente. Questo è un po’ il Papa e questa è la profezia del Concilio che lui ci ha dato. E questo è ciò che noi chiediamo al Signore.

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    Papa, tweet: leggiamo il Vangelo un po’ ogni giorno. Impareremo a vivere amore e misericordia

    ◊   Tweet di Papa Francesco, lanciato dal suo account @Pontifex: "Leggiamo il Vangelo, un po’ ogni giorno. Così impareremo a vivere l’essenziale: l’amore e la misericordia".

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    Mons. Paglia a Philadelphia sullo sfondo del raduno delle famiglie 2015

    ◊   Manca oltre un anno al prossimo raduno mondiale delle Famiglie, che nel settembre 2015 sarà ospitato a Philadelphia. Ma per l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, oggi e domani sono giorni di visita e di incontri nella città statunitense, mentre giovedì prossimo la tappa del presule sarà a New York, per un intervento alle Nazioni Unite a 20 anni dalla Giornata della Famiglia indetta dall’Onu. Sulla visita a Philadelphia, le considerazioni di mons. Paglia al microfono di Tiziana Campisi:

    R. – Abbiamo dovuto anzitutto iscrivere questo evento nel clima sinodale, quindi modulando anche alcuni temi e soprattutto farne un momento nel quale le famiglie stesse riflettono su alcune sfide importanti del momento contemporaneo.

    D. – Come responsabile del Pontificio Consiglio per la famiglia, quali obiettivi porterà perché vengano sviluppati all’ottavo Incontro mondiale delle famiglie?

    R. – Io penso che il Sinodo – o meglio, questi due Sinodi sulla famiglia – debbano avere come conseguenza una sorta di nuova primavera delle famiglie cristiane. E questo coinvolge, ovviamente, tutte le parrocchie e in particolare tutti quei Movimenti e quelle Associazioni familiari che debbono comprendere l'urgenza di una testimonianza della bellezza della famiglia in un mondo nel quale la cultura, o le culture, sono ad essa ostili. Dobbiamo scrivere la lettera della gioia delle famiglie o della famiglia, e questa lettera non è scritta sulla carta, ma è scritta sulla vita dove è presente la comunità cristiana.

    D. – Quali istanze della famiglia, in questi mesi, sono state evidenziate ed è necessario portare all’incontro mondiale?

    R. – C’è un primo problema: far comprendere che fare famiglia è una dimensione essenziale per la vita della Chiesa e anche della stessa società. C’è un individualismo così forte che non solo sconvolge le famiglie già realizzate, ma fa ritardare – o anche annullare – il desiderio di fare famiglia, quindi di sposarsi, di fare dei figli e di innescare quella straordinaria fonte di vita che crea storia, appunto, attraverso l’istituto della famiglia. E per quel che riguarda i credenti, il fatto che Gesù abbia donato o abbia voluto donare una grazia particolare agli spos, sta a dire non solo l’attenzione del Signore, ma anche l’aiuto che Lui vuol dare alla famiglia cristiana per edificarsi. C’è poi tutta un’altra serie di problemi, legati all’educazione: c’è una sorta di "iato", adesso, tra le diverse generazioni, o comunque la fatica a vivere con ideali di solidarietà, di amicizia, di amore, di donazione della vita che vanno assolutamente recuperati. C’è poi il problema relativo alla questione degli anziani: che cosa diciamo ai 30 anni di anzianità che oggi vengono donati dalla cultura, dalla vita, dalla medicina, dalla scienza? Che fare? Come impegnarli? Come ripensarli? Poi, c’è tutto il problema del rapporto tra famiglia e lavoro. C’è poi anche tutta la dimensione spirituale della vita della famiglia. Non solo come trasmettere la fede, anzitutto come viverla. Ecco perché, allora, il rarefarsi della preghiera nelle famiglie, il rarefarsi dell’ascolto del Vangelo nelle famiglie, è una sfida importantissima da dover raccogliere.

    D. – Lei ha sottolineato la difficoltà, oggi, a metter su famiglia, e soprattutto la mancanza di volontà a responsabilizzarsi in questo…

    R. – Il matrimonio non è più concepito come l’impegno a costruire un futuro assieme: c’è come una cultura di de-familiarizzazione o a-familiare, che è pericolosissima per la stessa edificazione della società. Quando si costruisce una famiglia, si ha la prima cellula della città e si ha una scuola per costruire un popolo, una nazione, una cultura. In questo senso, più tardi questo accade e più debole è la città.

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    Congresso delle famiglie d'Asia. Mons. Laffite: rilanciamo i diritti propri del matrimonio

    ◊   A Manila, nelle Filippine, è iniziato oggi, e durerà fino a giovedì 16, il Congresso asiatico sulla famiglia intitolato “Famiglie dell’Asia – Luci di speranza”. Un evento della Conferenza episcopale dei vescovi filippini, che vede per la prima volta la presenza del competente dicastero vaticano sia in veste di organizzatore, sia in quello di promotore di contenuti. A rappresentarlo il segretario del Pontificio Consiglio, mons. Jean Laffitte, che terrà diverse conferenze sui temi della famiglia e della vita. Audrey Radondy l’ha intervistato:

    R. – L’Eglise est engagée dans un processus…
    La Chiesa è impegnata in un processo presinodale. Sono in preparazione due Sinodi sulla famiglia. Credo sia soprattutto un modo per fare il punto sulle domande che oggi si pongono in un contesto culturale – e l’occidente lo sa bene, ma è vero anche negli altri Paesi – che non mette più necessariamente la famiglia al centro della società, che non la considera più come la sua cellula base. Di conseguenza, c’è bisogno di fare il punto sulle domande attuali e di vedere quali siano le forze presenti per poter incontrare i giovani, prepararli al Sacramento del matrimonio, i differenti aspetti della pastorale coniugale e familiare.
    D. - Il congresso è intitolato: “Famiglie d’Asia, luci di speranza”: che si intende per “luci di speranza”?

    R. – Celui qu’il veut créer une famille…
    Cosa fa, in definitiva, colui che vuole creare una famiglia? Esprime una fiducia nel futuro. Creare una famiglia è compiere un atto di speranza. Le famiglie asiatiche sono estremamente legate a questo. Penso che le Filippine abbiano un ruolo particolare. Mi ricordo che San Giovanni Paolo II, quand’era nelle Filippine, disse queste parole: “Voi evangelizzate l’Asia”. Poi, in seguito, aveva aggiunto: “Voi filippinizzate il mondo”. Ma in verità, il Papa polacco voleva dire che loro filippinizzavano il mondo attraverso la testimonianza di famiglie unite, gioiose: gioiose di accogliere la vita, di praticare la fede. Certamente, c’è qualcosa di profetico nel modo in cui i filippini sono legati alla cultura della famiglia.

    D. – E quindi, le famiglie asiatiche sono un esempio per gli occidentali…

    R. – Je ne sais pas si on peut donner des exemples…
    Non so se si possono dare esempi tra un Paese all’altro ma, sì, nel loro modo di vivere la fede cristiana c’è una fonte di ispirazione anche per molti altri Paesi. Questa è la mia convinzione: si ha veramente l’impressione che siano felici di vivere la loro fede. Non è una fede triste, una fede ripiegata su se stessa. È una fede estremamente gioiosa, con una conformazione comunitaria molto forte. Tutto questo c’è anche in altri Paesi, certamente, ma c’è qualcosa che, per noi che pure siamo cristiani, ci attrae molto e ci fa anche un po’ invidia … E’ molto interessante vedere come proprio questi Paesi siano stati costretti da una certa pressione internazionale o politica a introdurre legislazioni contrarie al loro costume, tradizione e natura.

    D. – Come ospite d’onore terrà diverse conferenze: che tema affronterà?

    R. – Nous sommes assez vite tombés d’accord…
    Abbiamo concordato presto che fosse importante parlare di un testo che San Giovanni Paolo II aveva pensato di far pubblicare 30 anni fa, e cioè la Carta dei diritti della famiglia. Questo testo ha un suo indubbio valore, eppure non se ne parla più un granché, almeno da qualche anno. Ora, da una decina di anni, vediamo che la famiglia come istituzione, anche il matrimonio come istituzione, affrontano problemi di ordine giuridico e sociale: cioè, sono messi in discussione dagli stessi legislatori. L’idea principale di San Giovanni Paolo II era questa: la famiglia ha dei diritti, sono diritti naturali, diritti che precedono quelli di ogni altro tipo di società perché è una società naturale. Questi diritti meritano di essere onorati, rispettati, incoraggiati, protetti. Del resto, il discorso della Chiesa era talmente fecondo che tra gli incontri e gli interventi che ci saranno è prevista la risposta di politici che parleranno anche di diritto di famiglia, di come cercano di proteggerlo nella loro azione politica e nella loro funzione pubblica. Questo significa che l’argomento interessa molto i responsabili della vita civile e politica in questo Paese.


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    Anniversario di Fatima. I Papi e il mondo "consegnato" a Maria

    ◊   La Chiesa celebra oggi il 97.mo anniversario della prima apparizione della Vergine a Fatima. Nel corso dei decenni, con il crescere della devozione mariana legata a questo evento, i Pontefici hanno spesse volte affidato l’umanità alla protezione della Madonna apparsa ai tre pastorelli, in particolare Giovanni Paolo II, la cui vicenda si lega in modo unico a quel lontano 13 maggio 1917. Alessandro De Carolis ne parla in questo servizio:

    “Ave Maria, Santa Maria”. “Ave Maria, Santa Maria”. E via saltellando e divertendosi, con un occhio al gregge portato al pascolo. Il simpatico Rosario “abbreviato” recitato da Lucia, Francesco e Giacinta, i pastorelli di Fatima, è una pagina di storia e racconta di tre cuori limpidi nei quali quella Mamma invocata tra un gioco e l’altro, con la spensierata semplicità dei ragazzini, decide di andare ad abitare. Tre cuori come tre case, non sporcate dal mondo, da dove intervenire per scuotere le coscienze del mondo, che invece da un paio d’anni ha dato il via alla più grande carneficina della storia e che non prega la Madre del cielo ma piuttosto strappa milioni di figli alle mamme della terra per gettarli fra le trincee e in pasto ai cannoni.

    Il potere del Rosario per convertire i cuori di chi dispone degli esseri umani per i propri giochi di potere. Le apparizioni di Fatima, le rivelazioni, nascono in quella contingenza ma attraversano col loro messaggio universale la storia del Novecento: da quel 13 maggio 1917, sono un raggio di forza e di tenerezza mariana che getta luce sempre un metro oltre l’orizzonte umano. La recente Canonizzazione di Giovanni Paolo II ha rievocato il suo strettissimo legame con la Vergine di Fatima. E proprio il Papa che varca con la Chiesa la soglia della speranza del Duemila, in quel crogiolo di attese che si coagula attorno al nuovo millennio “consegna” il futuro del nuovo secolo alla Madre con parole indimenticabili. Vengono pronunciate l’8 ottobre 2000, giorno del Giubileo dei vescovi:

    “Vogliamo oggi affidarti il futuro che ci attende,chiedendoti d’accompagnarci nel nostro cammino.
    Siamo uomini e donne di un'epoca straordinaria,
    tanto esaltante quanto ricca di contraddizioni.
    L'umanità possiede oggi strumenti d’inaudita potenza:
    può fare di questo mondo un giardino,
    o ridurlo a un ammasso di macerie (...)
    Oggi come mai nel passato,
    l'umanità è a un bivio.
    E, ancora una volta, la salvezza è tutta e solo,
    o Vergine Santa, nel tuo figlio Gesù”.

    Da allora, il futuro ha scritto 14 anni di storia e di macerie ancora si contano ammassi fumanti in troppe parti del mondo. Ma, un’ottava sotto il fragore delle moderne esplosioni kamikaze, delle autobombe, degli ordigni sganciati con sofisticata violenza dai droni, resiste il mormorio sottile dei milioni di “Ave Maria, Santa Maria” che alla Madonna di Fatima ogni giorno vengono levati perché il mondo continui a nutrire la speranza e così a conservare un futuro. Una fede che Papa Francesco, il 13 ottobre scorso, ha espresso per tutti nella Giornata mariana nell’Anno della Fede:

    “Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi
    e che nulla ti è estraneo di tutto ciò che abita nei nostri cuori.
    Ci lasciamo raggiungere dal tuo dolcissimo sguardo
    e riceviamo la consolante carezza del tuo sorriso.
    Custodisci la nostra vita fra le tue braccia:
    benedici e rafforza ogni desiderio di bene;
    ravviva e alimenta la fede;
    sostieni e illumina la speranza;
    suscita e anima la carità;
    guida tutti noi nel cammino della santità”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Servizio è fare la volontà degli altri: la trascrizione del dialogo (ieri mattina nell’Aula Paolo VI) tra Papa Francesco e gli alunni dei pontifici collegi e convitti romani.

    Lettera del Pontefice al cardinale vicario di Roma per il cinquantesimo di sacerdozio e il venticinquesimo di episcopato, e ampi stralci dell’omelia che il porporato tiene oggi pomeriggio nella cattedrale di san Giovanni in Laterano.

    Quelli che aprono le porte: messa a Santa Marta.

    Il telegramma del Papa per la morte del cardinale Marco Cè, per 23 anni patriarca di Venezia.

    Per un mondo libero da armi nucleari: intervento della Santa Sede alle Nazioni Unite.

    Nel mare e nel deserto: nuova strage di migranti nel Sahara mentre si contano le vittime degli ultimi naufragi nel Mediterraneo.

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    Oggi in Primo Piano



    Ucraina. Ministro degli Esteri tedesco a Kiev: sostenere dialogo nazionale per risolvere crisi

    ◊   Resta alta la tensione in Ucraina, dopo il successo del sì ai referendum per l’indipendenza delle regione orientali di Donetsk e Lugagansk, mentre si è combattuto anche la scorsa notte a Sloviansk, roccaforte dei separatisti filorussi. A complicare il quadro politico, il presidente ucraino ad interim, Turcinov, ha minacciato di sciogliere il partito comunista se dovessero emergere legami con i separatisti. Intanto a Kiev è arrivato stamane il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier, che si è detto convinto che le presidenziali del prossimo 25 maggio saranno fondamentali per risolvere la crisi nell’ex Repubblica sovietica, auspicando la massima partecipazione al voto. Ma quali scenari si prospettano? Roberta Gisotti ha intervistato Paolo Calzini, docente di studi europei alla John Hopkins University di Bologna:

    R. – La tensione è alta indubbiamente. La mia impressione, però, è che non si vada, come dire, ad una rottura completa, che porti come si temeva ad una guerra civile strisciante in Ucraina. Le tensioni sono limitate a queste due regioni. Il fatto particolare è questo referendum, ma va detto che un referendum non è rappresentativo del grosso della popolazione: è rappresentativo della parte più radicale filorussa e nazionalista. Poi, questi referendum sono avvenuti in condizioni di non trasparenza ed hanno un rilievo politico emblematico più che reale.

    D. – Anche lei è convinto, come il ministro degli Esteri tedesco, che sarà fondamentale il prossimo voto presidenziale ucraino?

    R. – Certo, la consultazione elettorale è quella che può dare legittimità a questo Governo, che ricordiamolo è salito al potere in una fase rivoluzionaria, in termini quindi non costituzionali. Sotto questo profilo, dunque, è l’unico modo per garantire al governo di Kiev, che si trova chiaramente in una condizione di difficoltà e di debolezza, un minimo di legittimità. Resta da capire quanto, in queste condizioni, possa essere rappresentativo il voto. Come voteranno, cioè, in queste regioni critiche al Governo di Kiev? Vi sarà un boicottaggio? Ci saranno sì degli osservatori occidentali e dell’Osce ma bisogna vedere quale affluenza si avrà a questo voto.

    D. – L’Osce, che ha offerto la sua mediazione, proprio stamani ha fatto sapere che Putin ha accettato questo suo ruolo. Ma come si potrà svolgere?

    R. – La posizione russa è ambigua e contraddittoria, perché per un verso Putin non è interessato a consolidare il governo di Kiev, che chiaramente è orientato in senso pro europeo, diciamo pure antirusso; d’altra parte, da questi ultimi gesti fatti e dalle dichiarazioni di Putin, anche con questa mediazione per il rilascio di quegli esponenti dell’Osce che erano stati fermati, indicano che i russi non stiano mirando - sembra - ad un confronto drastico e quindi a far fallire le elezioni, come si era pensato in un primo tempo. Ma staremo a vedere quali iniziative prenderà la Russia, tenendo conto il fatto, in qualche modo nuovo, che questi nazionalisti russi radicali, nelle due regioni che abbiamo indicato, che chiedono di annettersi alla Russia, sembrino operare autonomamente al di fuori del controllo di Mosca.

    D. – Ma per la pacificazione dell’area che cosa è auspicabile? Un’Ucraina federata?

    R. – Penso di sì, anche se è difficile dire in che termini si possa fare un’Ucraina federata, quali siano i limiti di una federazione e cioè quali siano le autonomie economiche, politiche, ed anche nei rapporti internazionali. Perché il governo teme che una federalizzazione troppo spinta, in effetti, faccia sì che queste regioni poi facciano anche una politica estera a favore della Russia. In un Paese, però, ad "identità multiple" sia linguistiche che etniche, come l’Ucraina, credo che una forma di decentramento del potere centrale, e dar voce alle autonomie locali sia inevitabile.

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    Siria: opposizione denuncia mancato rispetto dell’accordo sulla tregua ad Homs

    ◊   In Siria la tregua ad Homs, frutto del recente accordo tra governo siriano e ribelli, non è stata rispettata. Lo denuncia l’opposizione siriana sostenendo che dopo l’evacuazione degli insorti dalla città vecchia, si registrano nuovi attacchi contro i ribelli. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

    Quella proclamata ad Homs la scorsa settimana è una “falsa tregua”. Lo sostiene la Coalizione nazionale dell’opposizione siriana, secondo cui si registrano bombardamenti da parte dell’esercito siriano su Addar al-Kabira, località dove si sono rifugiati i ribelli evacuati da Homs dopo l'accordo con il governo. Intanto Human Rights Watch denuncia l’impiego di armi chimiche, da parte delle forze governative, in recenti attacchi dell’aviazione contro la popolazione civile: ci sono prove – si legge in un comunicato dell’organizzazione non governativa – del lancio a metà aprile di quest’anno “di barili-bomba caricati con cilindri pieni di cloro su tre città nel Nord della Siria”. La Casa Bianca ha poi reso noto che il leader della Coalizione nazionale dell'opposizione siriana, Ahmad Jarba, in visita in questi giorni a Washington, incontrerà probabilmente il presidente americano Barack Obama. Sul terreno, due cittadini libanesi sono stati feriti in modo grave da alcuni colpi sparati oltre confine dall'esercito siriano. Resta drammatica la situazione ad Aleppo, da giorni senza acqua potabile.

    In queste ore, sono inoltre al centro di un nuovo caso diplomatico internazionale le elezioni presidenziali del 3 giugno, consultazioni in cui appare scontata la rielezione del presidente Bashar Al-Assad. Le autorità di Damasco denunciano che i governi di Francia e Germania vogliono impedire ai siriani residenti in questi Paesi di votare nelle ambasciate. Parigi rivendica la facoltà di opporsi allo svolgimento delle elezioni in tutto il territorio francese. Il governo tedesco parla di elezioni non democraticamente legittime. La Francia, intanto, ha fatto circolare, tra i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una bozza di risoluzione che autorizza un’indagine della Corte Penale Internazionale su presunte atrocità commesse in Siria da tutte le parti coinvolte nel conflitto con l’obiettivo di garantire che gli autori di tali crimini siano assicurati alla giustizia. Ma la Russia, che nel Consiglio di Sicurezza ha diritto di veto, ha già espresso il proprio scetticismo e potrebbe bloccare l’adozione della risoluzione.

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    India, elezioni. La destra di Modi prevale sul Congresso di Sonia Gandhi

    ◊   Elezioni in India. Il leader della destra Narendra Modi, secondo i primi risultati, ha scalzato dopo dieci anni lo storico partito del Congresso capeggiato da Sonia Gandhi e dal figlio Rahul. La coalizione di destra guidata dal partito indu nazionalista del "Bharatya Janata Party" (Bjp) avrebbe conquistato i 272 seggi necessari per formare una maggioranza alla Camera bassa. I risultati ufficiali si sapranno solamente venerdì prossimo. Il presidente Usa, Barack Obama, parla di consultazioni che sono “un vibrante esempio di rispetto dei valori condivisi di libertà e diversità”. Record l’affluenza alle urne, con il 66,38% degli oltre 800 milioni di aventi diritto al voto. Massimiliano Menichetti ha intervistato l’esperto dell’area Marco Restelli, giornalista e docente presso l’Università degli Studi di Milano:

    R. – Narendra Modi ha saputo intercettare alcune istanze popolari molto sentite: la rabbia diffusa contro la corruzione dilagante, una preoccupazione diffusa nella piccola e media borghesia che, dopo anni di tumultuoso boom, ha visto rallentare la crescita economica. Le richieste di lavoro da parte dei giovani, le istanze nazionalistiche della grande maggioranza degli indù, che ormai vedono l’India come una potenza planetaria al pari della Cina e degli Stati Uniti d’America, e che non accettano di vedere diminuito lo status dell’India. Lui si rivolge direttamente alla "pancia" del Paese, che è costituita da un 80% di hindu, facendo leva anche sull’orgoglio di appartenenza culturale. Da qui, però, i problemi che possono derivare dalla sua elezione a primo ministro, nel senso che questa formazione politica da lui presieduta ha tollerato – e alcuni dicono ha incoraggiato – in passato anche persecuzioni nei confronti delle minoranze religiose, dei cristiani e dei musulmani in India.

    D. – Questo rimane, però, un problema grande, quello delle minoranze religiose: l’India ha visto situazioni-limite…

    R. – Ci sono stati molti episodi estremamente gravi, che si sono succeduti in questi anni. Ricordiamoci gli attacchi alle chiese cristiane, le persecuzioni di musulmani… Nello stesso Gujarat, governato da Modi, ci furono scontri violentissimi fra indù e musulmani e un bagno di sangue di musulmani. Quindi, la posizione di Modi è molto delicata: dovrà dimostrare, dopo avere suscitato l’entusiasmo delle piazze induiste, di saper governare comunque tenendo al centro la laicità dello Stato e il rispetto dei diritti delle minoranze religiose.

    D. – Perché è crollato il Partito del Congresso presieduto da Sonja Gandhi?

    R. – Potrei dire perché non aveva più un’anima. Del sogno, della visione dei Padri fondatori del Congresso – del Mahatma Gandhi, di Jawaharlal Nehru, ma in qualche modo anche della figlia di Nehru, Indira, che era una donna molto autoritaria ma aveva ancora una visione unitaria dell’India – di quella visione non c’era più traccia. Negli ultimi 10 anni, il Partito del Congresso è stato protagonista di una serie spaventosa di scandali per la corruzione del suo personale politico. E’ stato privato di qualsiasi autorevolezza morale di fronte all’opinione pubblica.

    D. – Cosa cambierà, adesso, per quanto riguarda la questione dei marò?

    R. – Il caso marò è molto delicato, perché è stato strumentalizzato durante la campagna elettorale, nel senso che Modi si è rivolto a Sonja Gandhi chiedendo: “Perché i due marò non sono in galera?” – perché attualmente sono in ambasciata – agitando quindi lo spauracchio della cosiddetta "simpatia" che Sonja Gandhi avrebbe nei confronti dei marò, perché loro sono italiani e lei è di origine italiana. Che cosa ne deriva? Ne deriva che ora Modi, anche in questo campo, è di fronte ad una scelta: vorrà comportarsi da statista e riallacciare corrette relazioni diplomatiche e quindi risolvere in modo corretto la questione dei marò, affidandoli alla giustizia italiana, oppure vorrà fare il demagogo e continuare a dire: “In galera! In galera!”, rovinando ulteriormente le relazioni diplomatiche Italia-India? Oppure, lo statista…


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    Immigrazione: dopo il naufragio di ieri è scontro aperto tra Italia e Ue

    ◊   Sono 17 i corpi finora recuperati dopo il naufragio ieri, a 40 miglia dalla Libia e a un centinaio dall’isola di Lampedusa, di una imbarcazione carica di migranti. 206 le persone tratte in salvo e ora imbarcate sulla nave "Grecale" alla volta delle coste catanesi, dove giungeranno nel pomeriggio. Servizio di Francesca Sabatinelli:

    Arriveranno verso le 18 a Catania i migranti salvati dalla Grecale, mentre verso il porto di Augusta sono dirette altre 300 persone soccorse nel canale di Sicilia dalla nave Sirio. Nella zona continuano le ricerche di eventuali dispersi, mentre la Procura di Catania ha aperto un'inchiesta sul naufragio. Divampano intanto le polemiche tra l’Unione Europea e l’Italia, che denuncia di essere stata lasciata sola a fronteggiare l’emergenza. Al ministro dell’Interno Alfano, che minaccia di consentire la partenza dei migranti dall’Italia verso altri Paesi dell’Ue, risponde il portavoce della commissaria, Malmstrom: "l’Italia dica esattamente all’Unione cosa vuole, è da marzo che si aspetta una risposta". Replica Alfano: "Le indicazioni date all’Europa sono state precise". La richiesta di sostegno da parte dell'Europa arriva anche da chi quotidianamente lavora al fianco degli immigrati che inoltre sollecita l'apertura di canali umanitari. Lo ripete Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas Italiana, che difende anche l'operazione "Mare Nostrum". Fabio Colagrande lo ha intervistato:

    R. – Io direi che non sia tanto "Mare Nostrum" ciò che va messo sul banco degli imputati, quanto invece il fatto di non avere messo in campo, a livello europeo, un intervento congiunto su un fenomeno che sta dimostrando una capacità, in termini di spinta e di numeri, come forse mai prima nel passato. "Mare Nostrum" è certamente un dispositivo importante, che auspichiamo rimanga anche nei prossimi mesi e che ha permesso fino a oggi di salvare la vita a migliaia di persone, ma è chiaro che non può essere l’unico dispositivo. Noi crediamo sia necessario, in questa fase storica, decidere veramente cosa l’Europa abbia intenzione di fare, rispetto alle centinaia di migliaia di persone che stanno fuggendo dai loro Paesi e che cercano protezione nello spazio europeo.

    D. – La Croce Rossa, il Centro Astalli, voi della Caritas, tutti questi organismi che si occupano d’immigrazione sembra siano d’accordo sul fatto che serva creare dei canali umanitari. Cosa significa in concreto?

    R. – Canali umanitari significa decidere se queste persone invece di arrivare sul nostro territorio – quindi in Europa, nei modi che noi conosciamo, e quindi con tutti i rischi connessi – potranno arrivare in modo più sicuro, visto che comunque giungeranno. Noi dobbiamo acquisire la consapevolezza che queste persone, in un modo o in un altro, raggiungeranno il nostro territorio, perché chiedono protezione. Allora, l’Europa capisca fino in fondo se c’è la necessità e la voglia di fare in modo che queste persone arrivino in sicurezza. Canale umanitario, quindi, significa visti umanitari, significa fare in modo che nei Paesi di origine e di transito si trovino quelle formule in grado di far giungere donne e bambini innanzitutto in maniera sicura, evitando loro di rischiare la pelle, perché questo accade, in Italia come in Grecia. Aprire, quindi, canali umanitari significa anzitutto fare delle scelte politiche precise e noi stiamo aspettando questo.

    D. – Sul Messaggero c’è un articolo, oggi, dove si racconta che la strada del Marocco è vietata ai migranti per la dura reazione della Guardia Civile spagnola, nella famosa enclave di Ceuta e Melilla. Insomma, questo articolo ci fa pensare che se ci fosse una linea dura anche all’altezza di Lampedusa, questi flussi diminuirebbero. Un suo commento...

    R. – Non credo proprio. Anche perché i trafficanti, e i migranti stessi, hanno una capacità di ridefinirsi nel progetto e nelle rotte migratorie, che a volte stupisce e negli anni ci è stato dimostrato. Quando ci fu la triste stagione dei respingimenti in mare, portati avanti dal nostro governo, e per questo successivamente condannato dalla Corte Europea dei diritti umani, i migranti comunque cambiarono rotte, che si fecero più lunghe e più pericolose, passando attraverso la Turchia e la Grecia. Io quindi continuo a dire, e ormai sono diversi anni, che la spinta verso condizioni di vita migliori, così come la fuga da guerre e carestie, sono così forti, che chiaramente nessun dispositivo, sia esso legislativo sia esso anche di polizia e di controllo delle frontiere, sarà mai sufficiente. Almeno, questo è quello che abbiamo visto in questi anni. E non è una considerazione di merito, è semplicemente una constatazione. Per cui, quello che avviene in Spagna chiaramente intristisce, perché un governo come quello spagnolo dovrebbe prendere coscienza, come ha fatto il nostro, di quello che sta accadendo in Africa e quindi intervenire di conseguenza. Non lo sta facendo, speriamo che l’Europa intervenga, per mettere fine appunto a pratiche che chiaramente vanno contro innanzitutto i diritti umani.

    D. – C’è chi dice anche che le "primavere arabe" nel Nord dell’Africa abbiano reso impossibile trattare con i governi locali e in qualche modo limitare le partenze, come ad esempio in Libia. E’ un altro dato realistico questo?

    R. – Sicuramente, le condizioni in cui si trova attualmente la Libia non favoriscono alcun tipo di accordo che, però, chiaramente, come avvenuto in passato, serviva semplicemente a trattenere queste persone in un Paese dove i diritti umani non venivano e non vengono rispettati. Quindi sapere che queste persone non arrivano in Italia e quindi in Europa, ma sono incarcerate, perché di questo si tratta, dentro prigioni libiche, con tutto quello accade, perché sappiamo degli stupri verso le donne eritree o di altra nazionalità, questo non mi tranquillizza assolutamente. Quello che io chiedo è che si trovi anche, possibilmente in accordo con questi Paesi, il modo per riconsegnare un futuro decente a queste persone.

    Queste morti, si ripete, pesano sulla coscienza di tutti. mons. Domenico Mogavero vescovo di Mazara del Vallo e delegato della Conferenza episcopale siciliana per le migrazioni, al microfono di Gabriella Ceraso:

    R. - Credo che stiamo cominciando a diventare insensibili, perché l’unica ragione che ci fa reagire è la quantità, i numeri: se muoino in 40 non ci facciamo più caso, se sono 200 cominciamo a riflettere. Questo è gravissimo, perché significa che abbiamo perso quel senso dell’umano, che ci fa solidali con chi soffre, uno o mille che siano.

    D. - Il governo, in queste ore, sta denunciando ancora una volta l’abbandono da parte dell’Europa. E’ questo il punto?

    R. - Io credo che una delle preoccupazioni che stanno davanti ai governi in questo momento sia una questione di carattere economico o di ordine pubblico o di sistemazione dell’emergenza. Credo che siamo incapaci di valutare sotto il profilo di una lettura culturale del fenomeno e delineare prospettive che camminino contestualmente alla gestione dell’emergenza: gli sbarchi che continuano ci dicono che i respingimenti non sono sufficienti a fermare l’ondata di migrazioni; che Mare Nostrum può evitare delle tragedie, ma non impedisce la prosecuzione del fenomeno; che tutte le strategie che abbiamo fin qui escogitato, fino alle ingiuri o agli insulti, non sono strumenti adeguati. Allora bisogna ripensare il discorso in altri termini. Abbiamo messo queste persone nelle mani dei trafficanti di uomini e c’è un delitto contro l’umanità, perché queste persone pagano 2-3-5 mila euro per un passaggio in un barcone nelle condizioni miserabili in cui vanno e con il rischio della vita: e tutto questo ci lascia così, quasi freddi ed indifferenti. L’Italia non può fare, davanti all’Europa, la figura di chi domanda soldi per risolvere un problema: l’Italia deve farsi promotrice di una lettura e di una proposta di prospettiva nelle quale tutta l’Europa possa essere impegnata: siccome fin qui abbiamo chiesto soldi, è chiaro che appena apriamo bocca l’Europa dice “Vabbè, se ho i soldi, ti do i soldi, purché taci”. Se invece noi pensiamo altro, se pensiamo cioè che pagando il biglietto di aereo o il biglietto di nave - e quindi con accordo dei Paesi del sud del Mediterraneo - si fa una scelta progettuale di tipo politico, allora probabilmente sul fenomeno qualcosa potremmo fare. Liberalizziamo il mercato: purtroppo siamo arrivati a dirci queste cose, che sono odiose. Ma finché siamo nelle mani di delinquenti che profittano della necessità e del bisogno di chi deve fuggire dal proprio Paese, non abbiamo altre chance.

    D. - Quindi lei dice: si faccia il governo italiano portavoce di una proposta onnicomprensiva?

    R. - Certo, perché comunque al centro di questa situazione ci siamo noi. Sulle coste del Mediterraneo - che non è il confine sud dell’Europa, è la porta dell’Europa - ci siamo noi: quindi noi siamo i primi responsabili di una diversa visione delle cose e dobbiamo essere i primi formulatori di proposte che siano veramente efficaci nella interpretazione del fenomeno migratorio e nella possibile soluzione, sotto il profilo umanitario e quindi del rispetto dei diritti e delle dignità delle persone, del movimento migratorio stesso.

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    "Stop alla Tortura": Amnesty lancia la campagna a 30 anni dalla Convenzione Onu

    ◊   La tortura umilia l’uomo e lo priva di qualsiasi dignità, ma in oltre 140 Paesi del mondo si fa ancora ricorso a questa grave violazione dei diritti umani. "Amnesty International" ha lanciato la sua campagna globale “Stop alla tortura”, con l’obiettivo di sensibilizzare cittadini e istituzioni, a trent’anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro questo aberrante fenomeno. Cosa è cambiato da allora? Gianmichele Laino lo ha chiesto ad Antonio Marchesi, presidente di "Amnesty International Italia":

    R. – Purtroppo è cambiato molto poco, nel senso che, trent’anni dopo, la tortura è presente, secondo i dati di Amnesty relativi agli ultimi cinque anni, in ben 141 Paesi. Noi chiediamo ora agli Stati di prendere sul serio quell’impegno.

    D. – Perché il ricorso alla tortura continua a essere così frequente?

    R. – Gli scopi possono essere diversi. Può esserci lo scopo classico di ottenere un’informazione, ma il più delle volte è più genericamente punitivo, intimidatorio, discriminatorio. La tortura oggi è finalizzata non tanto, e non solo, all’inflizione di dolore fisico, ma a distruggere la personalità della vittima, a renderla un automa, uno strumento nelle mani del torturatore, non più in grado di resistere, di farsi dei convincimenti autonomi. Quindi è uno strumento del potere, del potere evidentemente usato nel modo peggiore possibile.

    D. – L’Italia è stata più volte sollecitata a inserire il reato di tortura nel codice penale. Perché questi provvedimenti tardano ad arrivare?

    R. – Le motivazioni sono diverse. C’è chi ritiene che un reato specifico di tortura possa costituire una forma di criminalizzazione delle forze di polizia. Evidentemente non è così. Sarebbe anzi nell’interesse delle forze di polizia che i propri appartenenti, che violano regole fondamentali, siano puniti, perché disonorano innanzitutto il corpo di cui fanno parte. Noi crediamo che sia importante che la tortura sia specificamente prevista. L’idea che esista nei fatti, ma che non venga menzionata nel codice penale, che sia in qualche modo rimossa, sottovalutata, evidentemente è inaccettabile; alla fine, infatti, porta facilmente a pene molto lievi per fatti che costituiscono tortura. E questo non dà l’idea che le istituzioni siano impegnate a debellare questo fenomeno.

    D. – Quali sono le iniziative che "Amnesty International" ha lanciato nell’ambito della sua campagna “Stop alla tortura”?

    R. – E’ una campagna globale. Quindi, Amnesty sarà impegnata in tutto il mondo per i prossimi due anni in questo sforzo. I suoi oltre 3 milioni di attivisti firmeranno appelli, mobiliteranno l’opinione pubblica. Poi ci saranno azioni di advocacy, di lobby nei confronti delle istituzioni, perché siano riformate le leggi. Si vuole costruire anche una cultura dei diritti umani, nell’ambito della quale la tortura sia inconcepibile come la schiavitù. La campagna di "Amnesty International" riguarda un po’ tutto il mondo, il focus, però, è sull’Uzbekistan, sul Messico, sulle Filippine, sul Marocco, sulla Nigeria. Sono questi alcuni Paesi dove si ritiene che la situazione possa essere in qualche modo modificata da un’azione efficace di "Amnesty International".

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    Rapporto dell'Ilo sulla maternità: 830 milioni di donne senza alcuna tutela

    ◊   Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni nella protezione della maternità sul lavoro, sono ancora 830 milioni nel mondo le donne che non godono di alcuna tutela lavorativa. Lo denuncia l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) con sede a Ginevra in un Rapporto che prende in esame i sistemi legislativi dei 185 paesi membri. I risultati dello studio hanno spinto l'Ilo ad esortare i governi dei Paesi membri ad un maggiore impegno nell'ambito delle politiche familiari come misura per contrastare la crisi economica. Come ci spiega Laura Addati, esperta dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro intervistata da Stefano Leszczynski:

    R. - La nostra ricerca mostra che le donne rappresentano una parte importante della forza lavoro e rappresentano una risorsa di talenti fondamentali per lo sviluppo economico e sociale di ogni Paese. Per questo, la protezione della maternità è fondamentale, perché è il diritto essenziale che permette non solamente l’adeguata protezione della salute della donna e del suo bambino o bambina, ma è necessaria per raggiungere l’uguaglianza tra uomo e donna nel mondo della lavoro e permettere una crescita economica adeguata. Abbiamo visto che durante la crisi una serie di Paesi ha adottato delle misure per promuovere la maternità e dare supporto ai lavoratori con responsabilità familiari, proprio come una misura per superare la crisi stessa.

    D. - Perché c’è ancora, secondo lei, in molti Paesi, una così forte discriminazione nei confronti della maternità sul lavoro?

    R. - Prima di tutto, vediamo che la maggior parte delle donne che mancano di una protezione effettiva si trovano nei Paesi africani e asiatici: sono i Paesi in cui il lavoro informale è predominante, dove i sistemi di sicurezza sociali non sono stati sviluppati e non coprono i lavoratori più vulnerabili. Per quanto riguarda poi anche la situazione dei Paesi più sviluppati, vediamo che ci sono certe categorie di lavoratrici che sono particolarmente a rischio di perdita del lavoro nel caso di una gravidanza o di essere messe sotto pressione per dare le proprie dimissioni. Quindi, particolare attenzione deve essere posta per mettere in pratica delle misure che coprano, con delle prestazioni di maternità, anche questi lavoratori. E questo perché la protezione della maternità è un bene per tutti.

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    Il card. Vallini: grato a Dio per i 50 anni di sacerdozio e i 25 di episcopato

    ◊   Cinquanta anni di sacerdozio, venticinque di episcopato. È un giorno straordinario per il cardinale vicario Agostino Vallini, che nel giorno in cui la Chiesa celebra la Madonna di Fatima festeggia due importanti anniversari. Al microfono di Luca Collodi, il porporato condivide i propri sentimenti di gratitudine a Dio per l’esperienza fin qui vissuta:

    R. - Certo, è una tappa che invita molto intensamente a una revisione di vita, soprattutto alla gratitudine per i doni ricevuti. Se ci penso, li considero veramente grandi e immeritati: non tanto per gli aspetti esteriori, e direi anche legati agli uffici che la Chiesa mi ha affidato, ma proprio per il mistero di grazia, di luce, di fede e di pienezza di vita che il Signore mi ha concesso con la grazia del sacerdozio.

    D. - Eminenza, essere vicario di una grande metropoli come Roma cosa significa?
    R. - Per me, significa anzitutto sentire la responsabilità della preghiera per questo popolo e poi anche un grande atteggiamento di ascolto di una realtà che ci circonda, che si evolve, che si trasforma, assieme a un impegno da vivere in piena fedeltà col Santo Padre. Il vescovo di Roma è il Papa: sia con Papa Benedetto, che adesso con Papa Francesco, ho la possibilità, abbastanza di frequente, di poter dialogare anche per le scelte pastorali che andiamo facendo, così da sentire davvero che quello che sono chiamato a svolgere nel servizio pastorale sia in perfetta sintonia con il Successore di Pietro.

    D. - Lei è stato ausiliare di una grande metropoli come Napoli: il popolo di Dio è sempre importante, alla fine, in grandi realtà di questo tipo?

    R. - Siamo al servizio del popolo di Dio. Non dobbiamo guardare a questi ministeri sotto il profilo del prestigio umano, del potere, che non ci appartengono. Anche se certamente ci rendiamo conto di essere in posti di responsabilità, dai quali si riceve anche tanto onore. Lo dico con molta schiettezza… Questo mi impone di essere ulteriormente generoso per restituire anche il tanto bene che io ricevo.

    D. - La Chiesa non fa politica, ma in due realtà così socialmente importanti come Roma e Napoli un vescovo come si deve comportare?

    R. - Sempre essere dalla parte dell’uomo. La realtà di Napoli, nella quale ho vissuto per quasi 50 anni nella mia chiesa di appartenenza - io sono incardinato nella diocesi di Napoli, pur essendo originario di Roma, perché mio padre era militare e quindi giravamo l’Italia e alla fine rimanemmo lì - è una realtà nella quale l’esperienza pastorale è più facile per certi aspetti, perché il popolo napoletano ha radici religiose molto forti, seppure oggi nel contesto di una avanzata secolarizzazione. Certo, bisogna rievangelizzare con impegno. Roma è una metropoli, la capitale: una città cosmopolita, multietnica, multireligiosa, che pone altre sfide pastorali. Ma accumunerei sia Napoli che Roma al bisogno urgente di riproporre la fede e direi anche con una revisione della pastorale, che non si limiti soltanto né agli aspetti del culto né alle attività strettamente tradizionali dell’iniziazione cristiana o della preparazione ai Sacramenti, ma che ponga a fondamento - e direi anche ad un impegno maggiore - proprio l’annuncio del Vangelo per una capacità di suscitare la fede nel cuore dei credenti.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Irlanda: prosegue nella Chiesa la "tolleranza zero"' per gli abusi sessuali

    ◊   Prosegue senza sosta, in Irlanda, la politica della “tolleranza zero” verso i casi di abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa cattolica. Ieri - riporta l'agenzia Sir - è stata pubblicata la quinta tranche del Rapporto sulla Pratica di tutela curata dal “National Board Safeguardin Children in the Catholic Church”. Il Rapporto ha riguardato quattro diocesi (Dublino, Meath, Cloyne e Killaloe) e cinque Congregazioni religiose (Fratelli Cristiani, Fratelli di Saint Patrick, Comunità benedettina dell’abazia di Glenstal, Società del Verbo Divino e Missionari di San Colombano).

    Dal Rapporto - spiega la responsabile del National Board, Teresa Devlin -, emerge che se da una parte le diocesi stanno dimostrando di fare “ottimi progressi nel rispettare gli standard, per le Congregazioni religiose e le Società missionarie, il progresso appare più lento”. La Commissione di inchiesta ha notato che “c’è stato un cambiamento epocale” in Irlanda rispetto alla lotta e alla prevenzione dei fenomeni di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica: “Tutti ora sono consapevoli dei loro obblighi di segnalazione, sfortunatamente però - aggiunge Teresa Devlin - in due casi abbiamo visto che i sacerdoti hanno continuato nel ministero, anche se vi sono state prove e casi contro religiosi defunti, ex religiosi e insegnanti laici che non sono stati sempre notificati alla polizia”.

    “Le segnalazioni alle autorità civili in materia di accuse contro sacerdoti e religiosi ora sono molto rapide - si legge nel comunicato del National Board -, sebbene i ritardi del passato sono attestati”. Alla luce delle verifiche effettuate in tutte le diocesi e in un certo numero di Congregazioni, la Commissione presenta alcuni punti principali: il primo è che “i reati si sono compiuti in gran parte tra il 1940 e il 2000, con un calo nel comportamento offensivo notificato dopo il 2000”. Quindi, aggiunge la Commissione, “c’è ancora bisogno di una vigilanza e supervisione costante e di un’azione sollecita”.

    La Commissione rivela, inoltre, che “un certo numero di sacerdoti hanno abusato subito dopo l’ordinazione e ciò deve condurre a porsi delle domande sulla formazione”. Ancora, “un certo numero di abusatori erano sacerdoti molto carismatici, popolari tra la gente” e molti di loro “hanno avuto altri problemi di dipendenza come quella dall’alcol”. In contemporanea all’uscita dei singoli Rapporti, i vescovi delle diocesi coinvolte hanno rilasciato dichiarazioni in cui all’unanimità accettano le Raccomandazioni contenute.

    L’arcidiocesi di Dublino pubblica alcuni dati concreti per attestare l'impegno contro gli abusi: dallo scorso anno altri tre sacerdoti dell’arcidiocesi sono stati oggetto di accuse di abusi sessuali su minori. Questo porta a 101 il numero dei sacerdoti di Dublino che sono stati accusati di abusi dal 1940. Un dato però da comparare ai circa 1.350 sacerdoti che nello stesso periodo hanno servito nell’arcidiocesi di Dublino. La cifra, inoltre, include accuse di abuso che sono state confermate, accuse inconcludenti e accuse infondate. 12 sacerdoti o ex preti sono stati condannati nei tribunali penali mentre 236 sono le azioni civili avviate contro 51 preti o ex preti della diocesi. 187 casi sono conclusi e 49 sono in corso. I costi, ad oggi, sostenuti dall’arcidiocesi per il risarcimento dei danni riguardanti gli abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti sono pari a 20,4 milioni di euro (14 milioni di euro per risarcimento e 6,4 milioni per spese legali). (R.P.)

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    Iraq. L'arcivescovo di Mosul: l’Occidente dimentica il dramma iracheno

    ◊   "Siamo sicuri che la Chiesa di tutto il mondo prega per l'Iraq", ma l'Occidente e i suoi governi sembrano aver "dimenticato" il dramma che vive la sua popolazione; come se ormai "fosse normale sentire tutti i giorni di morti, attentati, violenze". Così mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, nel nord dell'Iraq, descrive all'agenzia AsiaNews il clima di un Paese e di una città in particolare, teatro di continui episodi di sangue, mentre la comunità cristiana si fa sempre più esigua.

    "Non se ne parla più - continua il prelato - ma noi speriamo che si torni l'attenzione sul dramma irakeno, che sentano il nostro bisogno di pace e serenità: questo, più di tutto, è ciò che vogliamo". In passato proprio la diocesi di Mosul ha pianto la morte violenta anche dei propri pastori, fra cui il precedente vescovo mons. Faraj Rahho (nel contesto di un sequestro) e di padre Ragheed Ganni.

    Assalti contro gli oleodotti sono una prassi comune nella zona di Mosul, circa 360 km a nord-ovest di Baghdad, perpetrati da gruppi legati ad al Qaeda e al jihadismo che seminano da anni morte e distruzione in tutta la nazione. Il tutto a spese delle minoranze, che non hanno alle spalle un sistema di potere o un movimento politico in grado di tutelarne gli interessi.

    Mons. Nona riferisce che "la situazione non è cambiata di molto negli ultimi mesi, le elezioni non hanno rappresentato un grande passaggio", perché gli attentati "si ripetono quasi ogni giorno, così come le uccisioni". Talvolta le autorità applicano "il coprifuoco in città, l'esercito blocca le strade ed è difficile spostarsi da un punto all'altro" di Mosul e questo rende "ancor più difficile la vita della gente comune".

    "La nostra comunità cristiana di Mosul - spiega mons. Nona - spera e prega che la società irakena possa maturare, sia in grado di accettare persone diverse, perché il dramma della convivenza e dell'accettazione dell'altro si fanno sempre più urgenti e difficili". Questo è il risultato, commenta, della mancanza di sicurezza, mentre il nostro obiettivo è la costruzione di una realtà sociale "che sia più aperta e moderata".

    La risposta dei cristiani, continua l'arcivescovo, in molti casi continua a essere la fuga, in particolare "nelle grandi città, e la Chiesa non può fare molto". I leader cristiani si adoperano per risolvere alcuni elementi di difficoltà, spiega, ma è compito del governo irakeno risolvere le questioni più grandi e sciogliere i nodi irrisolti. "Per noi cristiani è importante essere presenti all'interno dello Stato, delle istituzioni, ma il numero dei fedeli - conclude mons. Nona - si fa sempre più esiguo; il pericolo maggiore è costituito dal fatto che quanti lasciano sono, nella maggior parte dei casi, persone istruite e benestanti, mentre restano i poveri, i più deboli, quelli che non hanno la possibilità di scappare". (R.P.)

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    Usa: i vescovi sollecitano la riforma dell'immigrazione

    ◊   Il gruppo di vescovi cattolici che il 1° aprile ha celebrato la Messa nella frontiera Stati Uniti-Messico per gli immigrati morti nel deserto, si recherà il 29 maggio al Campidoglio per continuare la campagna per la riforma dell'immigrazione.

    Secondo una nota invita all'agenzia Fides dalla Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (Usccb), in quell’occasione verrà presentato alla Camera dei Rappresentanti un messaggio dal titolo “E' il momento di agire" in favore di una legge sulla riforma dell'immigrazione.

    "Il nostro viaggio alla frontiera ci ha aperto gli occhi, ancor più di prima, abbiamo visto le tragedie umane generate dal sistema d’immigrazione attuale," ha detto mons. Eusebio Elizondo, vescovo ausiliare di Seattle e presidente della commissione Usccb sulle Migrazioni. "E' un passo naturale voler condividere con i legislatori a Washington la nostra esperienza e la nostra solidarietà nei confronti dei residenti su entrambi i lati del confine", ha detto mons. Elizondo.

    Il 27 giugno 2013 il Senato ha approvato il disegno di legge S.744 che prevede la cittadinanza per gli immigrati privi di documenti arrivati negli Stati Uniti prima del 31 dicembre 2011 e che non hanno precedenti penali. Tuttavia, a causa dei disaccordi tra democratici e repubblicani, la Camera non ha ancora fissato una data per la sua discussione in vista dell’approvazione definitiva. (R.P.)

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    Usa: crescono gli ispanici nella Chiesa. Tra loro in calo i cattolici

    ◊   La Chiesa negli Stati Uniti parla sempre più spagnolo, ma, per contro, sempre più ispanici educati nella fede cattolica si dichiarano senza alcuna religione, o entrano nelle Chiese e comunità protestanti. È quanto risulta da un recente studio condotto da Pew Research Center, che conferma un fenomeno già noto da tempo e che riguarda tutta la Chiesa del continente.

    Secondo la ricerca, i cui risultati sono stati diffusi "National Catholic Reporter" (Ncr), se grazie all’immigrazione, un terzo dei cattolici negli Stati Uniti sono oggi di origine latino-americana, la percentuale dei cattolici tra gli ispanici è calata di 12 punti percentuali tra il 2010 e il 2013, passando dal 67 al 55%. la maggiore percentuale di fuoriusciti dalla Chiesa si registra tra gli immigrati di prima generazione e tra i più giovani.

    Per altro verso, cresce la presenza ispanica nelle Chiese protestanti statunitensi, soprattutto nelle comunità evangeliche, in cui i latino-americani rappresentano oggi il 16%. Ad attirare gli ispanici a questi gruppi – hanno dichiarato gli intervistati - è la loro diversa struttura, più partecipativa, e il carattere più interattivo e l’animazione delle loro celebrazioni religiose. L’84% degli intervistati ha inoltre dichiarato di avere un buon giudizio di Papa Francesco e il 57% che la sua elezione al soglio pontificio rappresenta un cambiamento importante per la Chiesa.

    Secondo Mark Gray dell’ Centro cattolico per la Ricerca Applicata all’Apostolato della Georgetown University (Cara), questi dati sono, peraltro, meno negativi di quanto non sembri, se rapportati ad altre religioni. Il tasso di fedeltà alla Chiesa cattolica dei suoi membri negli Stati Uniti è infatti più alto rispetto alla maggior parte delle altre comunità religiose. (L.Z.)

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    Kenya: preoccupazione del card. Njue per clima di violenza e terrorismo

    ◊   “Nelle ultime settimane diversi keniani hanno perso la vita in attacchi terroristici, incidenti stradali, rapine, suicidi, per aver bevuta birra adulterata, e in alcuni casi di fame. La circolazione di armi da fuoco nel Paese è allarmante. Un Paese che era stato definito un’oasi di pace nella regione è diventato un campo da gioco del terrorismo”. Lo ha detto il card. John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale del Kenya, nella conferenza stampa al termine dell’Assemblea plenaria dei vescovi. Il card. Njue ha così richiamato le autorità nazionali ad adempiere al mandato costituzionale di salvaguardare la vita degli abitanti del Paese.

    Secondo quanto riporta l’agenzia Cisa di Nairobi, il card. Njue ha anche sottolineato la necessità di rafforzare il servizio di intelligence nazionale (National Intelligence Service - Nis). “Alcune delle cose che accadono in Kenya non sarebbero accadute se il sistema di intelligence fosse stato efficiente. Il sistema di intelligence diventa sempre più importante ed è una sfida per il governo di considerare il suo rafforzamento” ha affermato il cardinale.

    A queste parole si sono aggiunte quelle di mons. Zacchaeus Okoth, arcivescovo di Kisumu e presidente della Commissione episcopale “Giustizia e Pace”, che ha chiesto di accelerare la riforma della polizia perché cresce di giorno in giorno il senso di insicurezza nel quale vive la popolazione: “Siamo pieni di paura, anche quando preghiamo in chiesa, fuori ci sono poliziotti per proteggerci. Nei bus ormai la gente si sente insicura”.

    Nelle ultime settimane una serie di attentati terroristici ha colpito la capitale Nairobi e Mombasa, prendendo di mira in particolare gli autobus.. Ha infine suscitato allarme la morte di più di 80 persone che hanno consumato birra illegale e adulterata comprata in alcuni esercizi commerciali. (R.P.)

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    Assemblea dei vescovi del Pacifico: “Leggere i segni dei tempi in Oceania”

    ◊   Saper leggere i segni dei tempi nell’area del Pacifico; il rapporto tra fede e laicità, l’evangelizzazione; ma anche l’attenzione ai giovani, la pianificazione pastorale e i disastri naturali, l’annosa questione della politica d'immigrazione e dei centri di detenzione in Australia: sono questi i temi affrontati nel corso della assemblea della Federazione delle Conferenze episcopali cattoliche dell'Oceania (Fcbco) in corso dal 12 al 16 maggio a Wellington.

    Come appreso dall’agenzia Fides, vi partecipano circa 80 vescovi provenienti da Australia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea , Isole Salomone e in altre nazioni del Pacifico. “E’ un momento unico di preghiera, comunione , riflessione e discussione su temi che riguardano tutti noi. Si tratta di una preziosa opportunità per il sostegno l’uno per l'altro”, ha spiegato l’arcivescovo di Wellington, John Dew, presidente della Conferenza episcopale della Nuova Zelanda e della Federazione.

    L’assemblea, che si tiene ogni quattro anni, consentirà ai presuli di discutere problemi e sfide della Chiesa in Oceania. L’arcivescovo ha rimarcato che il tema generale proposto alla riflessione di tutti sarà “l’evangelizzazione nello spirito di Papa Francesco” e “in molti dei gruppi di confronto e nelle conversazioni informali si partirà dall’esortazione Evangelii Gaudium”. I vescovi, inoltre, discuteranno i risultati del sondaggio sulla vita familiare, proposto ai fedeli in vista del Sinodo sulla famiglia previsto a Roma nel mese di ottobre.

    Fra i temi pastorali al centro dell’Assemblea: l’azione verso adolescenti e giovani, che sarà sviluppato in un workshop per aiutarli a pregare e di praticare la propria fede; lo smarrimento dell’identità cattolica nella vita pubblica, in una società sempre più secolarizzata; come far riscoprire il desiderio di donarsi agli altri, nel servizio del prossimo. A questi argomenti saranno dedicati altri due workshop. (R.P:)

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    Papua Nuova Guinea: uccisi sacerdote e laico ministro straordinario dell’Eucarestia

    ◊   Un sacerdote e un laico cattolico della diocesi di Bereina sono stati uccisi domenica 4 maggio, per ragioni ancora da chiarire, mentre si trovavano per motivi pastorali in un’area remota della diocesi. Si tratta di padre Gerry Maria Inau, prete che aveva avuto una vocazione adulta ed era divenuto sacerdote circa 9 mesi fa, e Benedict, laico e Ministro straordinario dell’Eucaristia.

    La notizia, inviata a Fides dall’ufficio comunicazioni della Conferenza episcopale di Papua Nuova Guinea a Isole Salomone, è stata confermata dal vicario generale della diocesi di Bereina che, con un altro sacerdote, è giunto sul posto con un elicottero della polizia, fermandosi per le incombenze urgenti, come il riconoscimento del cadavere e la benedizione delle salme. Il vescovo di Bereina e gli altri vescovi si trovano in Nuova Zelanda per l’Assemblea dei vescovi dell’Oceania, in corso dal 12 al 16 maggio.

    Come riferisce a Fides padre Giorgio Licini, dell’Ufficio comunicazioni della Conferenza episcopale, “ci vorrà del tempo per raccogliere testimonianze dalla gente del posto e dalla polizia, per ricostruire l'accaduto”. I due sono forse vittima di una conflitto tribale che va avanti nell’area da qualche anno. In una nota giunta a Fides, padre Casmiro Kito, che ha trascorso con il prete ucciso gli anni del seminario, così ricorda padre Gerry: “Era una prete diligente e di grande fede. Non lasciava mai il suo rosario e per questo aveva adottato il nome di Maria. Aveva un grande cuore per la sua gente e la serviva con amore. Possa la sua morte essere un sacrificio e una oblazione per la pace fra le tribù della Kunimaipa Valley”. (R.P.)

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    Thailandia: i vescovi offrono al re le reliquie dei due Papi santi

    ◊   Evento specialissimo per la piccola Chiesa thailandese (400mila cattolici su una popolazione di 65 milioni di abitanti): l'11 maggio, presso il palazzo reale di Hua Hin, nella provincia di Praciuapsirikhan, a poche ore di viaggio a sud di Bangkok - riferisce l'agenzia AsiaNews - i vescovi delle 10 diocesi della Thailandia sono stati ricevuti dal re Bhumibol Adulyadej.

    L'occasione per l'incontro tra i rappresentanti della Chiesa Cattolica in Thailandia e il re, e' stata la consegna delle reliquie dei santi papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, da poco canonizzati da Papa Francesco. Le reliquie erano racchiuse in due teche, una contenente un piccolo pezzetto di pelle di san Giovanni XXIII, e l'altra una fiala con del sangue di san Giovanni Paolo II.

    Il re di Thailandia, 87 anni e regnante dal lontano 1950, emerito rappresentante del buddismo, ha conosciuto entrambi i due Papi Santi. L'incontro con Giovanni XXIII è avvenuto in Vaticano, nell'anno 1960, durante una visita del re e della regina in Europa. L'incontro con Giovanni Paolo II è avvenuto invece in Thailandia, esattamente 30 anni fa, nel maggio 1984, evento che rimane caro a tutti i cattolici thailandesi che lo hanno vissuto.

    I vescovi della Conferenza episcopale thailandese, guidati dal card. Michael Michai Kitbunchu, vescovo emerito di Bangkok, hanno presentato le due reliquie e hanno pregato per la buona salute del re e della regina, aggiungendovi una benedizione. (R.P.)

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    Il Premio Templeton al sacerdote ceco Tomas Halik

    ◊   Il sacerdote e filosofo delle religioni della Repubblica Ceca Tomas Halik, è il vincitore del Premio Templeton 2014 per il Progresso della Religione, il prestigioso riconoscimento assegnato ogni anno dall’omonima fondazione a personalità che hanno dato particolari contributi alla ricerca nell’ambito della religione. Il premio, che sarà consegnato a Londra domani, gli è stato attribuito per il suo impegno per la libertà religiosa durante il regime comunista in Cecoslovacchia e per la promozione del dialogo tra credenti e non credenti.

    Nato nel 1948 da una famiglia di intellettuali liberali, Halik si è avvicinato alla Chiesa cattolica nel 1972, dopo essere stato escluso dal regime da ogni attività scientifica. Dopo avere studiato clandestinamente teologia, nel 1978 è stato ordinato sacerdote a Erfurt, in Germania. Ha quindi lavorato come psicoterapeuta con tossico-dipendenti e alcolisti e diretto in clandestinità seminari di formazione negli ambienti dissidenti, frequentando l’allora arcivescovo di Praga Frantisek Tomasek e il futuro Presidente della Repubblica ceca Vaclav Havel. Dopo la fine del regime ha insegnato all’Università di Praga, intervenendo regolarmente sulle questioni sociali e politiche del Paese. Notevole anche il suo impegno per il dialogo interreligioso. Autore di una ventina di lingue tradotte in diverse lingue, insignito di diversi premi, è oggi uno degli intellettuali più conosciuti dell’Europa centrale.

    Il Premio Templeton, la cui dotazione economica è la più elevata del mondo, è stato istituito nel 1972 da John Templeton, un laico un presbiteriano americano che ha poi ottenuto la cittadinanza britannica. Tra i vincitori delle precedenti edizioni Madre Teresa di Calcutta, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, il Dalai Lama e l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu. (A cura di Lisa Zengarini)

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    Cristiani perseguitati: luci del Colosseo spente per dire "basta"

    ◊   Il Colosseo si spegne per accendere i riflettori sui cristiani perseguitati nel mondo e fatti oggetto di discriminazione. Giovedì 15 maggio alle ore 19.45 la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Ebraica di Roma, con il sostegno del sindaco di Roma Capitale Ignazio Marino, si riuniranno sotto l’Anfiteatro Flavio assieme alla cittadinanza per esprimere solidarietà ai cristiani che rischiano la vita per professare la propria religione.

    Le luci del Colosseo - riporta l'agenzia Sir - saranno spente e negli stessi istanti si alzeranno le fiaccole in ricordo delle vittime delle oppressioni. “La città tutta - scrive oggi Sant’Egidio in un comunicato - è invitata a partecipare per dire basta a ogni forma di fanatismo ed estremismo, per dire basta a ogni tipologia di persecuzione e per ricordare le anime di chi è stato vittima di odio anti-cristiano. Non sarà l’indifferenza a fermare le ostilità. Mobilitiamoci, solidali, per ricordare a tutti i cristiani perseguitati che non sono soli”.

    Dall’Africa al Medio oriente molteplici e “continui sono gli episodi di violenza” e la persecuzione contro i cristiani è “troppo spesso sottovalutata o nascosta da un velo di indifferenza”. Per questo, “la condanna della violenza e dell’odio religioso, vera e propria bestemmia del nome di Dio deve essere unanime e condivisa, la mano dei persecutori deve essere fermata, la catena dei delitti, frutto del disprezzo e dell’intolleranza, deve essere spezzata. (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 133

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.