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Sommario del 30/07/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



La Santa Sede propone all’attenzione dei governi le preoccupazioni del Papa per la pace

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La Segreteria di Stato ha inviato alle ambasciate accreditate presso la Santa Sede una “Nota verbale” per richiamare i recenti appelli sul Medio Oriente rivolti dal Papa dopo gli ultimi Angelus. Debora Donnini ha intervistato il segretario per i Rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Dominique Mamberti, chiedendogli con quale animo la Santa Sede guardi a quanto sta accadendo ai cristiani in Medio Oriente, in questo momento: 

R. - Ovviamente, la Segreteria di Stato segue la situazione delle comunità cristiane in Medio Oriente con grandissima preoccupazione. Le comunità cristiane stanno soffrendo ingiustamente, hanno paura e molti cristiani sono stati costretti ad emigrare. Solo a Mosul circa 30 chiese e monasteri sono stati occupati e danneggiati dagli estremisti e la croce è stata tolta. Per la prima volta in tantissimi anni non si è potuta celebrare la Santa Messa la domenica. Bisogna ricordare che in Iraq, come negli altri Paesi del Medio Oriente, i cristiani sono presenti dall’inizio della storia della Chiesa e hanno avuto un ruolo significativo nello sviluppo della società e vogliono semplicemente continuare ad essere presenti come artefici di pace e di riconciliazione.

D. - Cosa sta facendo la Santa Sede per cercare di alleviare la situazione?

R. - La Santa Sede agisce a diversi livelli. Innanzitutto il Santo Padre stesso ha manifestato in varie occasioni e in modo commosso la vicinanza alle comunità cristiane, in particolare alle famiglie di Mosul, invitando tutti a pregare per loro. Ha personalmente espresso la sua vicinanza anche attraverso alcuni dei loro responsabili religiosi, tra cui il Patriarca di Babilonia dei Caldei e il Patriarca di Antiochia dei Siri, incoraggiando pastori e fedeli ad essere forti nella speranza. Ha mandato pure un aiuto economico alle famiglie tramite il Pontificio Consiglio Cor Unum, per venire incontro ai bisogni umanitari. Da parte nostra quindi la Segreteria di Stato, attraverso i propri canali diplomatici, continua a stimolare l’attenzione delle autorità internazionali e dei governi alla sorte di questi nostri fratelli ed è stata inviata, proprio ieri e oggi, una "Nota verbale" a tutte le ambasciate accreditate presso la Santa Sede con il testo degli ultimi appelli del Santo Padre concernenti anche più in generale la situazione in Medio Oriente, con la richiesta di far presente il messaggio ai rispettivi governi. Ed è nostro vivo augurio che la comunità internazionale prenda a cuore la questione, giacché sono in gioco principi fondamentali per la dignità umana, il rispetto dei diritti di ogni persona, per una convivenza pacifica ed armoniosa delle persone e dei popoli. L’Iraq e gli altri Paesi del Medio Oriente sono chiamati ad essere un modello di convivenza tra comunità diverse, altrimenti sarebbe una grande perdita e un pessimo presagio per il mondo intero.

D. - Con riferimento sempre alla situazione in Medio Oriente, cosa pensa dei conflitti che attraversano la regione e in particolare dell’intensificarsi della violenza nella striscia di Gaza?

R. - Si tratta di una situazione tragica e molto triste alla quale c’è il rischio purtroppo di abituarsi e di darla quasi come inevitabile, il che non sarebbe giusto. Il Santo Padre ha rivolto numerosi appelli a continuare a pregare, invocando il dono della pace e accogliendo la chiamata che viene da Dio a spezzare la spirale dell’odio e della violenza che allontana dalla pace. Vorrei qui ribadire l’invito del Papa a quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare alcuno sforzo per fare cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti. Come dice proprio Papa Francesco, ci vuole più coraggio per fare la pace che per fare la guerra, inoltre andrebbero posti al centro di ogni decisione non gli interesse particolari, ma il bene comune e il rispetto di ogni persona.

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Il Papa alle esequie del card. Marchisano in San Pietro

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Sacerdote per 62 anni e per 58 a servizio della Santa Sede, sempre con “stile metodico e silenzioso”. Sono alcuni dei tratti del cardinale Francesco Marchisano, scomparso tre giorni fa all’età di 85 anni, ricordati nella Messa esequiale di stamattina in San Pietro, presieduta dal cardinale Angelo Sodano.

Il porporato ha ricordato la lunga militanza del cardinale Marchisano presso la Sede Apostolica, iniziata sotto Pio XII e conclusa con la responsabilità di arciprete della Basilica Vaticana e di vicario generale di Giovanni Paolo II, che lo aveva elevato alla porpora nel 2003.

La celebrazione funebre è stata poi conclusa da Papa Francesco, sceso in Basilica per i riti finali dell’ultima “commendatio” e della “valedictio”.

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Rinuncia in India

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Papa Francesco ha accettato la rinuncia all’ufficio di vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di Bombay, in India, presentata da mons. Agnelo Rufino Gracias, per raggiunti limiti di età.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Notte di sangue a Gaza.

Infanzia negata ai bambini iracheni.

Sull'orlo della grande catastrofe: Bernardino Osio sul carteggio familiare di Bernardino Nogara tra il 1914 e il 1915, un articolo di Paolo Vian dal titolo "Una famiglia di laghée", e due lettere scritte, da Costantinopoli, dall'ingegnere e diplomatico alla moglie Ester.

Piste, pedane e poesie: Marco Beck su una nuova edizione delle "Olimpiche" di Pindaro.

Parola chiave: Enrico Reggiani a proposito di un convegno, negli Stati Uniti, sull'immaginazione secondo John Henry Newman.

Con lo stile delle api al servizio della Chiesa: nella Basilica Vaticana le esequie del cardinale torinese Francesco Marchisano.

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Oggi in Primo Piano



A Gaza è tregua parziale. Msf: basta bombardare gli ospedali

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“Per Gaza la soluzione deve essere diplomatica, Israele ha esaurito l'opzione militare": con queste parole invoca la fine delle ostilità l’ex presidente israeliano, Shimon Peres, parlando con la stampa, mentre in tutta la mattinata le ostilità sono aumentate portando a oltre 1.200 le vittime tra i palestinesi. Tutto da verificare sembra per ora l’annuncio di una tregua umanitaria solo in alcune zone di Gaza che dovrebbe scattare dalle 14 ora italiana. Il servizio di Gabriella Ceraso

Ottanta gli obiettivi raggiunti nella Striscia di Gaza dall’offensiva israeliana nelle ultime ore, tra cui cinque moschee. Una sessantina i morti palestinesi, comprese due intere famiglie a Khan Younis, 53 invece i soldati di Israele uccisi. El Salvador, Perù e Cile richiamano da Gerusalemme i loro ambasciatori e la trattativa è allo stallo .”Chi mette razzi nelle scuole viola la nostra neutralità”, fa sapere il Servizio rifugiati dell’Onu rispondendo intanto all’ennesimo attacco a una delle sue scuole, la notte scorsa a Jabalya, dove hanno trovato la morte 23 persone. L’Onu condanna in termini molto fermi la grave violazione del diritto internazionale da parte israeliana e chiede alla comunità internazionale “un’azione politica forte per mettere fine alla carneficina in corso”. Altrettanto fermo è l’appello alla tutela dei civili, alla garanzia delle cure e alla salvaguardia degli ospedali che lancia i nostri microfoni il capo missione di Medici senza frontiere a Gerusalemme, Tommaso Fabbri :

R. – Il problema principale è che i civili, oggi come oggi, fuggono dalle zone di violenza e non sanno dove possono andare. "Shifa Hospital" è uno degli esempi lampanti, perché ci sono duemila sfollati e non si sente la sicurezza neanche là, dopo quello che è successo all’ospedale due giorni fa quando c’è stata un’esplosione nella zona ambulatori.

D. – Com’è lavorare e spostarsi in questo momento a Gaza?

R. – E’ difficilissimo. Cerchiamo di ridurre i movimenti al minimo, perché ogni movimento mette a rischio la vita.

D. – Al di là delle emergenze, è vero che non vengono più forniti neanche i servizi medici di base?

R. – Quelli che sono i “primary health care”, ambulatori di primo servizio, nella città di Gaza, per fare un esempio, su 13 ce ne sono solo quattro aperti e non sempre. Ma anche quelli aperti non ricevono persone quando, spesso e volentieri, ci sono bombardamenti intensi. Quindi, sì i centri di maternità infantile sono un problema, le malattie croniche sono un problema e per tutti coloro che devono ricevere cure a lungo termine in questo momento è un vero e proprio problema.

D. – C’è una collaborazione da parte del governo israeliano?

R. – Per tutto quello che è emergenza, so che ci sono collaborazioni tra il Ministero della salute, tra Ramallah e Israele. Penso che, oggi come oggi, il problema maggiore sia per quelli che non sono a rischio di vita imminente, ma che se non ricevono cure adeguate lo saranno tra poco. Questo è il problema che Stati come Israele e l’Egitto dovrebbero prendere in considerazione.

D. – Sono emergenze chirurgiche quelle che seguite?

R. – Noi ci troviamo nell’ospedale di Shifa e siamo in chirurgia, terapia intensiva e urgenze. I tipi di pazienti che abbiamo sono vittime, spesso e volentieri, da politrauma, civili e la maggior parte sono bambini.

D. – Perché serve una tregua definitiva?

R. – Per la popolazione di Gaza, per i civili che non sanno dove andare e subiscono violenza massiva.

D. – Quando scatta una tregua umanitaria di poche ore riuscite a fare qualcosa?

R. – Riusciamo a raggiungere i nostri pazienti regolarmente, quindi arriviamo a casa loro o loro possono arrivare alle nostre cliniche. Già questo è qualcosa di positivo. Le persone di Gaza possono arrivare a comprarsi da mangiare, a ritirare soldi e riuscire a fare il minimo per riorganizzarsi. Quindi, sì, la tregua umanitaria è importante ma non è una soluzione. Noi vogliamo che gli ospedali non vengano bombardati e che i civili vengano rispettati e non uccisi pagando il prezzo per tutto questo tempo. Non bisogna aspettare una tregua umanitaria per non bombardare le zone civili e per non bombardare gli ospedali.

D. – Sta iniziando una nuova giornata che cosa aspettarsi?

R. – In questa situazione ci si aspetta di tutto. Io, più che altro voglio fare una richiesta, chiedo che gli ospedali siano sempre più rispettati e chiedo che l’accesso alla salute per i civili sia garantito

D. – I proclami in questi giorni sono tanti, ma la gente cosa prova, come vi appare?

R. – La gente è sconfortata, ha paura, vuole pace. La gente vuole respirare e far crescere i figli in maniera normale e non lasciarli tutto il giorno all’interno di una stanza perché non possono nemmeno uscire in giardino a giocare per il rischio che cada una bomba.

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Messa a Roma per i cristiani perseguitati. P. Haddad: fede testimoniata col sangue

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In Iraq, continuano le persecuzioni da parte dei jihadisti dello Stato islamico contro i cristiani, costretti a scegliere tra la conversione o la morte. Per sostenere con la preghiera i fratelli perseguitati, in particolare a Mosul, è stata organizzata presso la Chiesa romana di San Gregorio Nazanzieno una Messa, alle 20.00, presieduta dal vescovo ausiliare Filippo Iannone. Padre Mtanoius Haddad, procuratore della Chiesa greco-cattolico-melchita presso la Santa Sede, ha commentato quest’iniziativa al microfono di Paolo Giacosa

R. - Ci dà un po’ di coraggio morale, anche pregare fa miracoli! Ma sul terreno i cristiani hanno bisogno anche di un altro aiuto per sostenere la loro vita lì, perché veramente noi cristiani siamo sempre nati lì e vogliamo vivere lì! Siamo lì dal primo giorno dopo la Pentecoste; cristiani che siano arabi, caldei, siri o assiri siamo figli di questa terra. Bisogna dire che in questi secoli in cui abbiamo vissuto con l’islam è vero, ci sono stati alti e bassi, ma non siamo mai arrivati al punto di dover lasciare la nostra terra, convertirci all’islam o pagare le tasse per conservare la nostra cristianità alla quale ci aggrappiamo con tutte le nostre forze, pagando con il nostro sangue; possiamo essere martiri per essere sempre cristiani orientali. Ora, la preghiera della Chiesa universale cattolica, tutti i vescovi e le conferenze episcopali ci aiutano sì tramite la loro preghiera, ma devono anche spingere e fare tanto per mantenere la componente cristiana in Oriente, perché come Papa Francesco ha detto: “Non si può vedere un Medio Oriente senza cristiani”.

D. - La situazione in Iraq è sempre più problematica. Quali sono le ultime notizie dal territorio?

R. - Il territorio si può dividere in due zone: per quanto riguarda la zona di Mosul non si possono fare previsioni circa ciò che sta accadendo, perché l’Isis - che hanno proclamato questo califfato musulmano e non hanno nulla a che vedere con l’islam - vuole uccidere ogni cristiano, cancellare qualunque segno del cristianesimo. Questo significa che non conoscono neanche la storia; non sanno che loro sono arrivati sette secoli dopo. Temo veramente per le nostre chiese, per i nostri monasteri, per i nostri cari manoscritti... Invece a Baghdad e in altre zone, che hanno capito il pericolo di avere un Medio Oriente senza cristiani, adesso anche i musulmani si sono mossi per dire “Noi e i nostri fratelli cristiani siamo tutti iracheni”. Questo ci piace e può essere un primo passo positivo che sta a significare che noi, musulmani e cristiani, siamo un solo popolo iracheno, anche se bisogna darsi molto da fare. Finora a Baghdad avevano vissuto sempre insieme cristiani e musulmani. Così i musulmani sono usciti per strada tenendo in una mano il Corano e nell’altra la Croce. Questo può essere l’inizio di un cammino di un ritorno a questa fratellanza.

D. - Perché l’opinione pubblica internazionale sembra essere indifferente alle persecuzioni contro i cristiani?

R. - Secondo me - non vorrei essere troppo duro - l’Europa cerca i suoi interessi in Medio Oriente. Sulla Chiesa non si può dire nulla, perché non ha mai dimenticato e non dimenticherà mai i cristiani, suoi figli, che siano cattolici o ortodossi. Qui parliamo degli Stati: il popolo prima era ignorante, perché i mass media hanno voluto nascondere tante realtà della sofferenza dei cristiani in Medio Oriente. Adesso, pian piano, con i mass media che hanno a cuore la nostra situazione e la nostra difficoltà, il popolo ha aperto gli occhi: non è più silenzioso, ma non ha i mezzi per andare controcorrente, perché i nostri governanti in Europa hanno i loro interessi, i loro appalti...

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Libia: ancora disordini. Mons. Martinelli: "Pregate per noi"

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Ennesima tragedia del mare al largo della Libia: almeno 20 migranti sono morti e circa 100 risultano dispersi dopo il naufragio di un barcone un centinaio di chilometri a est di Tripoli. Intanto, si combatte a Bengasi dove gli islamisti hanno conquistato la più importante base militare. Nella capitale è stato invece rilasciato l’ex vicepremier Abushagur, vittima nelle scorse ore di un sequestro-lampo, ed è in corso il rimpatrio di numerosi cittadini francesi e britannici finora rimasti in città. Il servizio di Davide Maggiore: 

Il quartier generale delle forze speciali libiche a Bengasi è caduto nelle mani del “Consiglio della Shura dei rivoluzionari”, coalizione di gruppi islamisti e jihadisti, dopo diversi giorni di combattimenti. Si indebolisce dunque ulteriormente la posizione del fragile esercito regolare libico, che nel capoluogo della Cirenaica combatte gli islamisti a fianco del generale dissidente, Khalifa Haftar. Continuano le tensioni anche a Tripoli: uno dei politici che stavano tentando una mediazione tra le milizie in lotta per il controllo dell’aeroporto è stato vittima di un sequestro lampo. L’ex vicepremier, Mustafa Abushagur, è stato prelevato ieri nella sua abitazione da ignoti, e rilasciato nella notte. Intanto, l’Egitto ha raddoppiato il personale già presente al confine tran Libia e Tunisia, per aiutare i suoi cittadini a lasciare il Paese. Sono stati rimpatriati via nave, invece, una cinquantina di francesi e britannici, tra cui l’ambasciatore di Parigi. A sua volta quello italiano ha chiesto all’Onu un nuovo impegno nella “riconciliazione nazionale”.

 

Da Tripoli, arriva anche la testimonianza del vicario apostolico, mons. Innocenzo Martinelli, raggiunto telefonicamente in città da Davide Maggiore: 

R. – Per quanto riguarda la comunità cristiana, devo sottolineare che molti cristiani sono partiti un po’ perché hanno paura. Coloro che sono rimasti sono in prevalenza filippini che operano soprattutto negli ospedali. Quindi, la loro opera è quanto mai preziosa in questo momento. Diciamo che ringraziamo il Signore per questa comunità che è molto presente, molto attiva e molto fervente. Noi confidiamo anche nelle loro preghiere, perché la Libia si trova in una situazione particolare. Non si è mai verificata una cosa del genere nel Paese. Noi abbiamo fiducia che il buon senso e soprattutto la pace possano prevalere.

D. – C’è un appello che lei vuole fare da Tripoli a coloro che ci ascoltano attraverso la Radio Vaticana?

R. – Il mio appello, pressante, è quello della preghiera. Credo realmente che la preghiera sia potente, al di là di tutte le diplomazie e di tutti gli incontri di ordine pacifico. Quindi, invito la comunità cristiana che ci ascolta a pregare per noi: pregare perché la gente, i capi, i responsabili possano essere disponibili a questo invito alla pace.

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Da quest’anno, la Giornata Onu contro il traffico di persone

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Si osserva oggi in tutto il mondo la prima Giornata internazionale contro il traffico delle persone, indetta dall’Onu. Una piaga della società contemporanea su cui di frequente è intervenuto anche Papa Francesco. Il servizio di Giada Aquilino

Una “piaga nel corpo dell’umanità contemporanea”, una “piaga nella carne di Cristo”, un “delitto contro l’umanità”. Questa è la tratta di esseri umani nelle parole di Papa Francesco: era il 10 aprile scorso e il Pontefice incontrava i partecipanti alla Conferenza internazionale sulla tratta delle persone umane, svoltasi alla Casina Pio IV in Vaticano. Ma il tema della lotta a questo male che affligge la famiglia umana, intrecciato al problema delle nuove schiavitù, è di quelli cari al Pontefice, che più volte ha parlato di “intollerabile crimine contro la dignità umana”.

L’Onu, da quest’anno, osserva la Giornata internazionale contro il traffico delle persone. “Scoprire e denunciare i trafficanti”, evitare che “bambini vulnerabili, donne e uomini cadano preda di sfruttamento”, “onorare e proteggere le vittime” della tratta di esseri umani. Questi gli obiettivi dell’iniziativa, secondo l'alto commissario Onu per i Diritti umani, Navi Pillay. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nell’occasione odierna, ha invitato tutti i Paesi a ratificare e rispettare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, firmata a Palermo nel 2000. Il significato di questa prima Giornata nelle parole di Alessandra Mazzini, responsabile informazione pubblica dell’Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (Unicri), al microfono di Federico Piana:

R. – Rappresenta un appello mondiale a fermare la tratta e i trafficanti che la gestiscono, affinché si ridia dignità ai milioni di vittime che vengono trafficati globalmente. È un appello che si rivolge in prima battuta ai governi, affinché ratifichino e implementino la Convenzione dell’Onu contro la criminalità organizzata - in particolare il Protocollo aggiuntivo contro la tratta - per rendere tali misure efficaci, cosa che non sta avvenendo. È la prima Giornata mondiale dell’Onu in materia e il segnale è anche quello di coinvolgere veramente la società civile in un’azione di contrasto, di promuovere la consapevolezza e far sapere a tutti che è un fenomeno che sta sempre più danneggiando la dignità di milioni di persone, per lo più donne e bambini. E colpisce tutte le regioni del mondo. Perché queste forme di schiavitù? Gli scopi sono lo sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù in genere e anche l’asportazione di organi. Abbiamo dati prodotti dall’Ufficio dell’Onu contro la droga e il crimine di Vienna – l’ultima indagine è stata fatta sui casi di vittime segnalate, che però sono un campione parzialmente rappresentativo della situazione – che ci dicono che il 70-75% delle vittime sono donne e ragazze, il 27% bambini e uno su tre, fra l’altro, è maschio, mentre il 56% di queste vittime sono abusate sessualmente, sono vittime della tratta per sfruttamento sessuale, il 36% per lavoro forzato. Di questi casi, un dato che fa particolarmente riflettere è il fatto che le vittime provengano da 136 Paesi e siano state trafficate in 118 Paesi.

D. – Questi dati sono molto importanti per far comprendere il fenomeno, che è purtroppo in crescita…

R. – Sì, è un fenomeno in crescita e si abbatte anche sull’Europa che, tra l’altro, ha una caratteristica abbastanza specifica: le vittime intercettate in Europa provengono da 112 Paesi, perché la tratta può avvenire internamente cioè a livello di Paese – persone che vengono trasportate da un punto all’altro di uno Stato per essere sfruttate ad esempio nelle miniere – oppure le vittime possono essere trasportate in Paesi terzi, o in altre regioni nel mondo. E in Europa c’è la maggior concentrazione di nazionalità diverse. Questo è un dato che fa riflettere, così come fa riflettere il fatto che un Paese che ha vulnerabilità a livello di frontiera e di corruzione delle Forze dell’ordine diventa la chiave per spostare le vittime in altre destinazioni. È un fenomeno globale, che associamo chiaramente a tutti i traffici illeciti, principalmente le droghe. Esso permette alla criminalità di ridurre le persone a merci e di gestire poi patrimoni enormi che vengono riciclati nel traffico d’armi, nei mercati illeciti e nella contraffazione. Non parliamo di merci "invisibili", ma stiamo parlando di persone sotto gli occhi di tutti noi, nelle strade, nelle miniere e nelle industrie. Sono persone che poi perdono il diritto all’identità.

Su sollecitazione di Papa Francesco, la Chiesa ha incentivato il proprio impegno per sradicare le moderne forme di schiavitù e il traffico di persone. Con tale obiettivo, nei mesi scorsi è stato tra l'altro siglato un apposito accordo fra rappresentanti di grandi religioni mondiali, il “Global Freedom Network”, e le Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali hanno organizzato diversi incontri internazionali sul tema. Philippa Hitchen ha intervistato mons. Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere delle medesime Pontificie Accademie, intervenuto ieri alla Casina Pio IV a una videoconferenza con l’ambasciatore statunitense, Luis CdeBaca, che ha parlato del recente Rapporto del Dipartimento di Stato Usa sul traffico delle persone:

R. – Vogliamo rendere cosciente la gente, i cristiani e tutti i popoli di questo dramma. Siccome i trafficanti agiscono di nascosto, la questione non è abbastanza conosciuta, tuttavia tocca più di 20 milioni di persone e due milioni l’anno, specialmente le donne. Lo dice l’Organizzazione internazionale del lavoro. L’80% delle vittime riguarda la prostituzione. E’ chiaro che si tratta di schiavi, sia del lavoro sia della prostituzione.

D. – L’Onu osserva ora la Giornata contro il traffico delle persone. Che cosa possono fare la Chiesa e i cristiani nelle varie parti del mondo per cercare di contribuire all’eliminazione di questa piaga?

R. – La prima cosa è informare sulla situazione globale, di fronte a quella che il Papa chiama in generale “la globalizzazione dell’indifferenza”. Oggi, infatti, il problema non è solo dell’immigrazione, ma anche della stessa città. A Roma, per esempio, la stessa gente in un quartiere studia e in un altro si prostituisce. E a Londra capita lo stesso: i trafficanti prendono le ragazze a scuola, le drogano e poi le fanno prostituire in un altro quartiere. Il Papa ha messo questo problema al centro dell’attenzione: è una questione che fa parte della nuova evangelizzazione. E’ per questo che se ne deve parlare di più. Noi adesso abbiamo un programma per novembre: invitare qui cento giovani da tutte le parti del mondo – giovani che sono protagonisti e molte volte vittime – perché parlino fra loro, per cercare quali siano le migliori pratiche per evitare tutto ciò. Puntiamo alla formazione di una nuova generazione, specialmente nelle famiglie, per cambiare le cose. Bisogna capire che questo è un male per la società, non solo per l’individuo. E’ il più grande male di questa “globalizzazione dell’indifferenza”.

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Leader evangelici: dal Papa forte invito all'unità dei cristiani

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Per coloro che non fanno parte della Chiesa è “importante” vedere che tra i cristiani vi sia una tensione all’unità. Il capo della Alleanza Evangelica Mondiale, il rev.do Geoff Tunnicliffe, valuta molto positivamente l’incontro di lunedì scorso tra Papa Francesco e la comunità pentecostale di Caserta, guidata dal pastore Giovanni Traettino. Le considerazioni del leader degli evangelici nell’intervista di Philippa Hitchen:

R. – Yes, I think this work of building relationships within the Christian family…
Sì, penso che questo lavoro di costruire relazioni all’interno della famiglia cristiana sia estremamente importante. In Giovanni 17, Gesù chiede, nella sua preghiera, di essere “uno” e io credo che per coloro che sono all’esterno della Chiesa sia importante comprendere e vedere che seppure ci sono differenze tra le denominazioni cristiane, al cuore della fede cristiana ci sono punti in comune. Credo che questo sia importante in un mondo sempre più diviso nelle ideologie e nelle religioni, credo sia molto importante.

D. – Alla luce di questo, quale importanza riveste la visita di Francesco alla comunità pentecostale di Caserta? Quale importanza riveste per quanto riguarda le relazioni della Chiesa cattolica con il mondo evangelico?

R. – I think - truth is - time will tell…
Per la verità, penso che sarà il tempo a dirlo… L’Alleanza mondiale evangelica è una famiglia globale che conta 650 milioni di cristiani e da anni ormai i nostri rapporti con il Vaticano e con la Chiesa cattolica sono in costante crescita. Stiamo giusto portando a termine il nostro secondo dialogo teologico ufficiale, nel corso del quale abbiamo identificato le preoccupazioni comuni e i punti sui quali divergiamo, eppure abbiamo trovato un accordo comune. Credo però che la mano che Francesco ha teso sia un buon auspicio per i prossimi colloqui: se questo contribuirà ad approfondire ulteriormente i nostri rapporti, sarà stato veramente utile.

D. – Il Papa ha anche pubblicamente chiesto perdono per quei cattolici che hanno perseguitato e imposto leggi discriminatorie su non cattolici, in particolare qui in Italia. Secondo lei, questo è un passo importante sulla via della riconciliazione?

R. – First of all, I want to comment Pope Francis for taking this very public step…
Vorrei anzitutto commentare questa iniziativa di Papa Francesco di chiedere pubblicamente perdono. Risponde a un concetto biblico e riflette il messaggio di Gesù: quando hai fatto uno sbaglio, lo riconosci e chiedi perdono. Io spero che questo atto di Papa Francesco sia capace di inviare un messaggio forte in tutto il mondo, in particolare in quei Paesi in cui ci sono forti tensioni tra cattolici ed evangelici. Ma voglio dire anche questo: riconosco anche che nella Storia ci sono state situazioni in cui i protestanti, compresi gli evangelici, hanno commesso atti di discriminazione nei riguardi di cristiani cattolici. E io sono veramente molto dispiaciuto per queste azioni: infatti, si può non essere d’accordo sul piano teologico, ma questo non dovrebbe mai portare a discriminazione e nemmeno a persecuzioni. Dobbiamo riconoscere tutti i nostri peccati e chiederci perdono, gli uni agli altri. Mi sembra che Papa Francesco abbia dato un grande esempio.

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Eterologa. Scienza e Vita: è manipolazione della vita

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In Italia, si discute in questi giorni della fecondazione eterologa. Ieri, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in audizione in commissione Affari sociali alla Camera, ha presentato le conclusioni alle quali è giunto il Tavolo tecnico da lei convocato e ha detto che proporrà il decreto legge in uno dei prossimi Consigli dei ministri. La fecondazione eterologa sarà, tra l’altro, inserita nei livelli essenziali di assistenza, sarà consentita anche la doppia eterologa, nel caso in cui entrambi i componenti della coppia siano sterili. Previsto, poi, un massimo di 10 nati da un donatore e anche un meccanismo per evitare "donazioni involontarie fra consanguinei, individuando un modo per incrociare i dati fra Registro nazionale e centri”. La donazione dei gameti deve poi essere “volontaria e gratuita”. Debora Donnini ha chiesto un commento a Domenico Coviello, genetista, copresidente di Scienza e Vita: 

R. – La fecondazione eterologa è una fecondazione artificiale. Sorpassiamo, quindi, gli eventi naturali dell’unione di due genitori naturali, per utilizzare i singoli gameti – il gamete maschile e femminile – in un processo di manipolazione, sebbene su criteri scientifici, però per ottenere "in vitro" una serie di embrioni. Sicuramente, dunque, il primo giudizio sulla fecondazione artificiale è un giudizio negativo sulla manipolazione della vita.

D. – Quali sono le problematiche legate alla fecondazione eterologa?

R. – Partendo dalla considerazione, cui abbiamo già accennato, sul giudizio di non eticità della fecondazione in vitro, passando ai rischi invece fisici che ci possono essere per le donne che si prestano a questa procedura, dobbiamo ricordare il rischio fisico. La ovodonazione, infatti, comporta una super stimolazione ormonale, affinché invece del singolo ovocita, come avviene fisiologicamente, la donna possa avere una ovulazione multipla. E questo comporta uno stress fisico per la donna. Per l’uomo non c’è questa parte, perché naturalmente l’uomo produce già molti gameti, ma ci sono più problematiche di tipo genetico, nel caso della produzione di più figli, che possono slatentizzare malattie genetiche, quando eventualmente si vengano d incontrare come coppia futura di marito e moglie, che hanno una parte di patrimonio genetico in comune. Quindi, sebbene il decreto, che è in preparazione, preveda una serie di controlli e una serie di regolamentazioni, con il limite dei possibili dieci nati, sappiamo che poi nell’attuazione ci sono molte problematiche pratiche, come abbiamo visto nei casi di cronaca recente, situazioni che per errore possono coinvolgere la vita di più famiglie.

D. – Come conseguenze eventuali psicologiche per il figlio, l’eterologa e l’eterologa doppia cosa comportano?

R. – Certo, la fecondazione in vitro, in generale, sicuramente non riesce a cancellare il desiderio innato di qualsiasi essere umano di conoscere le proprie origini. Quindi, a maggior ragione, non ci sarà solo la domanda di sapere quale sia l’altro genitore, rispetto all’eterologa semplice, ma in questo caso sicuramente il soggetto avrà una domanda doppia. Un aspetto, quindi, molto delicato che, a seconda del singolo individuo, potrà avere conseguenze più o meno gravi, più o meno rischiose.

D. – Infatti, una questione aperta, per quanto riguarda questo decreto legge, è proprio quella dell’anonimato, che dovrebbe essere garantito tranne che in caso di necessità sanitarie del nato. Ma, riguardo a questo punto, proprio per la sua complessità, il ministro Lorenzin ritiene che il tema debba essere oggetto di un’ampia discussione parlamentare. Ha detto, infatti, che nella giurisprudenza internazionale, in realtà, il diritto a conoscere le proprie origini trova sempre più spazio. Questo è un punto nodale?

R. – Io come genetista posso confermare che questa tendenza andrà avanti e quindi sarà sempre più richiesta, anche se oggi viene ritenuta un caso eccezionale. Diventerà, però, sempre più una richiesta plausibile il fatto di conoscere l’origine biologica dei genitori. L’applicazione, infatti, sempre maggiore dei test genetici, sia in ambito sanitario, sia in ambito di medicina legale, richiede questa informazione. E sempre più, in ambito scientifico, si ritiene giustificato anche il fatto di conoscere le proprie origini genetiche.

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Rapporto Svimez: Sud sempre più al ribasso, Italia divisa in due

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L’Italia, sul fronte economico, è un Paese diviso in due, con crescenti disuguaglianze tra Nord e Sud. E’ quanto emerge dalle anticipazioni del “Rapporto Svimez 2014” sull’economia del Mezzogiorno. Dai dati, illustrati durante una conferenza stampa alla Camera, emerge che il Sud, a forte rischio di desertificazione industriale, è sempre più povero. Il servizio di Amedeo Lomonaco

Il divario del Pil pro capite tra Nord e Sud è tornato ai livelli di dieci anni fa. Nel Mezzogiorno, dal 2008 al 2013 i consumi delle famiglie sono diminuiti del 13% e gli investimenti nell’industria sono calati addirittura del 53%. Il numero degli occupati, nelle regioni meridionali, è di 5,8 milioni, il livello più basso dal 1977. Si continua a emigrare e a non fare figli. Nel 2013, al Sud si sono registrate 180 mila nascite, un livello che riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa. Il Mezzogiorno è stato anche duramente colpito dalla crisi. Le famiglie nella povertà assoluta, dal 2007 al 2013, sono passate da 443 mila a un milione e 14 mila nuclei. Ma perché non si riduce la forbice tra Nord e Sud? Il direttore di Svimez, Riccardo Padovani:

“Non diminuisce perché si sta generando un meccanismo sostanzialmente vizioso. Intanto, la durata della crisi al Sud è stata molto più lunga. Dal 2007, il Mezzogiorno è sempre stato in recessione. Non così il Nord, che aveva fatto registrare due anni di ripresa. E, fatto più grave, si prevede anche che, nel prossimo biennio, il Sud seguiterà a essere in recessione. Viene fuori, quindi, una durata di otto anni che anche solo in termini di analogia incomincia ad avvicinarsi a quella che fu la durata della Grande Depressione, dopo la crisi del ’29. Per affrontare tutto questo serve una risposta non nel campo della congiuntura, ma dello sviluppo di lungo periodo. Per promuovere lo sviluppo, oltre alle politiche di welfare, che possono avere effetti anticiclici, serve un piano di primo intervento, che pur in un’ottica di emergenza deve essere coerente con la strategia di rilancio dello sviluppo. Questo è quello che si seppe fare negli anni ’50 e ’60: occorre che lo Stato torni ad essere parte attiva, come regista”.

Anche le previsioni confermano, per il 2014, il divario tra Nord e Sud: il Pil dovrebbe crescere dell’1,1% nel Centronord e diminuire dello 0,8% nelle regioni meridionali. Al Sud, dove nel 2014 continueranno a calare consumi delle famiglie e investimenti, si prevede un’ulteriore perdita di posti di lavoro dell’1,2%. Da notare, inoltre, che le manovre, effettuate dal 2010 ad oggi dai vari governi in rapporto al Pil, sono pesate più nel Mezzogiorno rispetto al Centronord. Nel 2015, si prevedono poi tagli alla spesa doppi al Sud rispetto alle regioni del Centro Nord. Tra i segnali positivi le esportazioni, che nel Mezzogiorno dovrebbero far registrare, nel 2014, un incremento dell’1,4%. Alcuni politici, e non solo, considerano il Sud la zavorra dell’Italia. O è l’Italia il vero freno del Sud? Ancora Riccarco Padovani:

“Io penso che la crisi del Nord nasca dal Nord stesso e dalle sue difficoltà di posizionamento competitivo. Quello che è importante da dire invece è che, indubbiamente, la condizione del Sud è una condizione che limita le possibilità di sviluppo del Nord, perché quella caduta della domanda interna e dei consumi, così forte, chiaramente è un danno per il Nord. Anche il Nord è esportatore, ma il 70% della produzione è sul mercato nazionale. Quindi, noi crediamo che mantenere il Sud in questo stato di depressione, di consumi delle famiglie e della domanda interna, danneggi anche il Nord. Il Nord avrebbe tutto da beneficiare da una ripartenza della domanda delle famiglie meridionali. Il Nord ha tuttora un livello di spese in opere pubbliche abbastanza invariato dagli anni ’70. Nel caso del Sud, siamo arrivati ad un quinto di quel livello. E’ una continua discesa, nel corso del tempo, della spesa per le infrastrutture del territorio e per la sua armatura infrastrutturale”.

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Allarme Cei sulle scuole cattoliche: molti istituti chiudono

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La scuola cattolica è un valore per tutti non solo per i cattolici. E’ quanto ribadisce la nota pastorale della Commissione Cei per l'educazione cattolica, la scuola e l’università, dal titolo “La scuola cattolica risorsa educativa della Chiesa locale per la società”, che lancia l'allarme: stanno chiudendo molti istituti per mancanza di adeguati finanziamenti. E si ricorda che le scuole cattoliche costituiscono non un aggravio, ma un risparmio per le casse dello Stato. Un documento che offre orientamenti pastorali a trent’anni dal precedente documento pastorale della Cei su “La scuola cattolica, oggi, in Italia”, del 1993. Servizio di Francesca Sabatinelli

La scuola cattolica è nata per essere al servizio di tutti, in particolare dei più poveri. La presentazione del documento affidata a mons. Giovanni Ambrosio, presidente della Commissione Cei, lancia un messaggio molto chiaro: “La scuola cattolica deve continuare ad esercitare il suo servizio come testimonianza dell’impegno di tutta la comunità ecclesiale nella realizzazione del quotidiano compito educativo e della costante attenzione ai più deboli”. La scuola cattolica, richiama ancora il vescovo, per dimensioni, ossia in Italia poco meno di un milione di alunni, non può essere ritenuta esperienza marginale o accessoria. Inoltre, deve essere considerata “una vera risorsa della Chiesa locale non un fattore accessorio o una pesante incombenza gestionale”. Un punto importante questo, sul quale i vescovi tornano nella nota quando rivolgono un appello ad ogni Chiesa locale perché si senta interpellata dalla realtà della scuola cattolica e si adoperi affinché si attuino “iniziative utili alla incentivazione e valorizzazione della sua presenza nel territorio”.

Nella nota si invita a “superare qualche diffuso pregiudizio”, poiché la scuola cattolica non è istituzione confessionale o di parte, perché per suo statuto, è al servizio di tutti con “obiettivo primario di curare l’educazione della persona” e di promuoverne “la crescita libera e umanamente completa”. Per la sua apertura e accoglienza, al di là delle appartenenze culturali e religiose, la scuola cattolica ha per tradizione offerto a tutti il suo servizio sociale, ponendosi come “modello per le politiche scolastiche nazionali e per lo stesso ordinamento scolastico statale”. “Il diritto a una educazione e a un’istruzione libere appartiene a ogni persona – si ribadisce – indipendentemente  dalle sue convinzioni religiose o dai suoi orientamenti culturali”.

La legge 62 del 2000 – spiegano i vescovi – se da una parte si è rivelata una conquista, avendo “ridefinito la natura stessa delle scuole cattoliche, quasi tutte paritarie e dunque facenti parte dell’unico sistema nazionale d’istruzione”, dall’altra segna però un cammino ancora “incompiuto” verso una effettiva parità. Se è vero, si legge ancora, che “quasi tutte le scuole cattoliche sono paritarie, non tutte le scuole paritarie sono cattoliche”, ma è la scuola cattolica che da anni si batte in Italia “per rendere effettiva una reale cultura della parità”. E tra gli ostacoli a tale cammino, la Cei elenca: il non adeguato finanziamento, che ha portato alla chiusura di molte scuole cattoliche soprattutto dell’infanzia. “Fino a che – concludono i vescovi – la legislazione italiana sulla parità non avrà ottenuto il suo completamento anche sul piano del suo finanziamento, a una parità nominale affermata non corrisponderà mai una parità nei fatti”. Inoltre, si sottolinea, le scuole cattoliche rappresentano “un significativo risparmio per l’amministrazione statale” oltre che “un prezioso contributo di idee e di esperienze sul piano organizzativo, didattico e gestionale per tutto il sistema educativo nazionale”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: messaggio del patriarca Gregorios per la fine del Ramadan

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"Cristiani e musulmani, noi siamo i migliori garanti gli uni degli altri". Lo scrive Gregorios III Laham, patriarca greco-melchita cattolico di Antiochia e di tutto l'Oriente in un messaggio "ai nostri amati fratelli musulmani dei Paesi arabi e del mondo" in occasione della festa di Eid al-Fitr, che conclude il Ramadan.

"Questa festa - si legge nel documento ripreso dall'agenzia AsiaNews - giunge in circostanze particolarmente difficili e drammatiche nel mondo e in modo particolare nei nostri Paesi arabi, mentre l'amata Siria e l'Iraq soffrono, la Palestina e Gaza ferite, senza parlare di Marocco, Egitto, Yemen e i Paesi del Golfo. Ovunque cola sangue, la desolazione cresce; i luoghi di culto, le moschee come le chiese, sono distrutti; i sacri diritti dell'uomo sono violati e la sua dignità, la sua libertà, il suo onore sono calpestati, minacciando tutte le conquiste umane, artistiche e tecniche, morali e religiose della nostra cultura".

"Questa civiltà araba, cristiani e musulmani l'abbiamo forgiata insieme e abbiamo vissuto nel reciproco rispetto. Superando anche "le nuvole di crisi" che a volte ci sono state, "abbiamo continuato insieme il cammino della vita; vivendo insieme, costruendo insieme e crescendo insieme". "E' in piena amicizia e lealtà che presentiamo i nostri auguri ai nostri fratelli musulmani. Piangendo le vittime innocenti, cristiani e musulmani, donne e uomini, vecchi e giovani che muoiono ogni giorno, bagnando col loro sangue strade, case e luoghi di culto della nostre città e dei nostri villaggi. Mescolano il loro sangue, abbracciati nella morte comune, come lo sono stati nella loro storia, la loro civiltà, la loro cultura".

Gregorios III, quindi "scongiura" i "nostri fratelli arabi a unirsi per salvare l'islam e i musulmani dai nemici, interni ed esterni, che incombono nel mondo arabo, nel mondo musulmano e altrove". "Noi, cristiani arabi, siamo i più sinceri difensori dell'islam, perché sappiamo che nella buona come nella cattiva sorte, siamo insieme, conservando insieme la nostra eredità e la nostra storia comuni. Perché cristiani e musulmani noi siamo i migliori garanti gli uni degli altri.

Facciamo appello alla coscienza del mondo arabo ed europeo e alla comunità internazionale perché ci leviamo insieme, come un sol uomo, di fronte alle correnti takfiriste che invadono i nostri Paesi arabi, sfigurando l'islam spingono i cristiani all'esodo, minacciandoli di morte, umiliandoli, massacrandoli, privando così il mondo arabo dei cuoi cristiani e impoverendo il mondo musulmano". 

Il patriarca conclude ripetendo i termini di una promessa comune islamo-cristiana : "Noi dobbiamo, possiamo e vogliamo restare insieme, musulmani e cristiani per costruire insieme un mondo migliore per le nostre generazioni future e il nostro avvenire comune".

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Pax Christi International: fermare la vendita di armi alla Siria

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L’imposizione di un embargo totale e effettivo sulle armi in Siria e la ripresa di un negoziato politico con tutte le parti in conflitto sotto l’egida dell’Onu: sono queste le uniche strade per fermare la “tragedia della guerra e le terribili sofferenze del popolo siriano”. E’ il nuovo pressante appello di Pax Christi International che torna a denunciare le responsabilità della comunità internazionale e di alcuni governi, in particolare, in quella che è diventata una vera e propria “guerra per procura”.

Nonostante l’embargo imposto dall’Unione Europea, infatti, le armi non hanno mai cessato di arrivare in Siria, mentre i veti incrociati al Consiglio di Sicurezza hanno sinora impedito di trovare una soluzione politica al conflitto, che dal 2011 ha causato oltre 160mila morti, 600mila feriti, oltre alla fuga di metà della popolazione siriana.

Di qui il pressante appello alla comunità internazionale ad intervenire per bloccare la vendita di armi nel Paese e a promuovere la ripresa immediata dei negoziati tra tutte le parti con il coinvolgimento della società civile. In questo senso Pax Christi saluta positivamente la nomina di Staffan de Mistura a nuovo Inviato speciale dell’Onu per la crisi siriana.

Per il movimento cattolico resta inoltre prioritaria la protezione dei civili siriani e la distribuzione degli aiuti umanitari, come stabilito dalle Risoluzioni 2139 e 2165 del Consiglio di Sicurezza. A questo proposito essa esorta i Paesi europei ad accogliere i rifugiati siriani: “La comunità internazionale - soprattutto le economie ricche – hanno il dovere di prendersi interamente carico dei costi dell’emergenza umanitaria generata da questa guerra”, si legge nella nota che conclude con il pressante invito rivolto da Papa Francesco il giorno di Pasqua ad avere “l'audacia di negoziare la pace, ormai da troppo tempo attesa!”
(L.Z.)

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Sierra Leone: morto di ebola il dr Umar Khan, "eroe nazionale"

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E’ morto dopo aver contratto l’ebola il dottor Sheik Umar Khan, responsabile del Centro di cura della febbre emorragica della regione di Kenema, ad est del Paese, una delle più colpite dal virus in Sierra Leone. Il medico, considerato un ‘eroe nazionale’, è impegnato da tempo nella lotta all’ebola e ad altre febbre emorragiche. Nell’ambito del programma nazionale ‘Lassa’ il dottor Khan ha assistito e curato migliaia di pazienti. La scorsa settimana il ministero della Sanità di Freetown aveva dato notizia del suo contagio e della sua messa in quarantena. Ieri sera il responsabile del servizio sanitario nazionale, il dottor Brima Kargbo, ha annunciato il decesso del collega.

Negli ultimi giorni l’epidemia che ha già fatto 672 vittime e 1201 contagi in Guinea, Liberia e Sierra Leone, ha colpito con maggior virulenza diversi medici e operatori sanitari, in particolare due americani a Monrovia. Un primo decesso è stato anche registrato a Lagos, capitale economica della Nigeria.

Dopo la chiusura dei suoi posti di confine, decisa dal governo di Monrovia, la Federazione di calcio della Liberia (Lfa) ha sospeso “con effetto immediato” ogni attività calcistica nel Paese, poiché “sport di contatto che rischia di favorire il contagio”.

Intanto Asky, importante compagnia aerea dell’Africa occidentale sulla quale ha viaggiato il funzionario liberiano deceduto la scorsa settimana a Lagos, ha deciso di sospendere i collegamenti con Freetown e Monrovia, ma anche di non rifornirsi più di cibo a Conakry. La compagnia aerea nigeriana Arik ha già interrotto le rotte a destinazione di Sierra Leone e Liberia.

A Monrovia due organizzazioni caritatevoli cristiane statunitensi – Sim Usa e Samaritan’s Purse – hanno ordinato l’evacuazione del proprio personale non essenziale dalla Liberia. Ricoverati in quarantena due cittadini americani che hanno contratto il virus: un medico di 33 anni, Kent Brantly, e un missionario originario di Charlotte (Carolina del Nord). (R.P.)

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Sud Sudan: migliaia di bambini a rischio per un focolaio di colera

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Il Sud Sudan sta attraversando una delle crisi umanitarie più gravi del Continente. Ad aggravare la situazione il rapido dilagare di un focolaio di colera che sta minacciando migliaia di bambini. Si tratta solo dell’ultima delle epidemie di una malattia che ha colpito oltre 2.600 persone ed è costata la vita ad oltre 60 dai primi casi registrati il 15 maggio a Juba.

Il colera causa vomito e diarrea tra bambini e adulti, portando grave disidratazione e, senza una cura adeguata e immediata, alla morte. Purtroppo si sta diffondendo in molte zone del Paese, con focolai o segnalazioni in nove dei dieci Stati. I più soggetti a morire sono i più piccoli per l’età e il loro sviluppo fisico. Inoltre, sono ancora più vulnerabili dopo sette mesi di violenza che hanno costretto 1,5 milione di persone ad abbandonare le rispettive abitazioni e lasciare il Paese più giovane del mondo sull’orlo della fame. 

Secondo il direttore di Save the Children in Sud Sudan, il dilagare della malattia è preoccupante in quanto va ad aggiungersi alla crisi alimentare in un momento nel quale centinaia di migliaia di persone vivono ammassate nei campi in condizioni sanitarie del tutto inadeguate. Inoltre, con la previsione dell’aumento delle piogge nelle prossime settimane e mesi, la situazione potrebbe peggiorare. Le acque stagne costituiscono un perfetto terreno fertile per la diffusione del colera e le strade diventano fango, ostacolando l’accesso di aiuti e medicinali a coloro che ne hanno disperatamente bisogno. (R.P.)

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Nepal: i cristiani in soccorso delle vittime delle alluvioni

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Decine di morti e migliaia di sfollati in sole 24 ore: è il bilancio delle vittime colpite dalle alluvioni che si sono abbattute sul Nepal. Per il momento solo la Chiesa, le sue istituzioni e alcune Ong si stanno occupando dei soccorsi. Come ogni anno, denuncia la popolazione, il governo è stato incapace di approntare tempestive misure di sicurezza e operazioni di recupero.

Le alluvioni - riferisce l'agenzia AsiaNews - hanno imperversato soprattutto sulla zona occidentale del Paese. I distretti più colpiti sono Doti, Mahakali, Kailali, Kanchanpur, Bardia, Dang, Banke, Siraha, Saptari e Nawalparasi, ma altri 40 riportano problemi di varia natura.

Minendra Rijal, portavoce del governo e ministro dell'Informazione, ha dichiarato: "Conosciamo il problema e cerchiamo di fare il nostro meglio con risorse limitate. Il governo è felice che diverse organizzazioni, cristiane e non, stiano aiutando la popolazione colpita".

Secondo il Central Disaster Management Office almeno 10mila case sono state danneggiate, 100mila persone sono state sfollate e centinaia aspettano generi di primo soccorso.

Pom Bahadur Pun, sfollato da Jajarkot, racconta: "Noi rischiamo la vita ma il governo non fa abbastanza per salvarci. Abbiamo perso ogni cosa, ma vogliamo salva la nostra vita". Al contempo però, aggiunge, "siamo contenti dell'aiuto e della preghiera dei cristiani".

Krishna Chandra Ghimire, capo del distretto di Kanchanpur, sottolinea: "Molti cristiani stanno offrendo preghiere e Messe nei campi profughi. Questo aiuta molto a calmare le vittime".

Ogni anno il Nepal è colpito da alluvioni di questa entità, che in modo puntuale provocano almeno 200 morti e migliaia di famiglie sfollate per colpa di frane, smottamenti e inondazioni. (R.P.)

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Angola: le conclusioni dell’incontro dei vescovi dei Paesi lusofoni

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Si è concluso lunedì scorso nella capitale dell'Angola Luanda, l'11.mo incontro dei vescovi dei Paesi lusofoni. Nel comunicato finale, il presidente della Conferenza episcopale di Angola e Sao Tomé, mons. Gabriel Mbilingi ha ribadito l’importanza della riunione: “L’incontro ci aiuta a rafforzare l’unità - ha detto - e ci avvicina anche nella comunione e nella collaborazione pastorale delle Chiese lusofone”. Infatti, i vescovi hanno deciso che il prossimo vertice avrà luogo ad Aparecida, in Brasile, dal 23 al 28 luglio 2016.

In una settimana i vescovi degli otto Paesi lusofoni hanno potuto condividere le esperienze legate alle particolarità delle Chiese locali, e anche come reagire - alla luce dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium - alle sfide pastorali attuali. Proprio questo tema, è stato al centro di una giornata aperta al pubblico presso l'Università cattolica dell'Angola, alla quale hanno partecipato principalmente i laici.

Nel comunicato finale viene data attenzione speciale al ruolo dei laici: i vescovi affermano che è necessaria un’ulteriore spinta della Chiesa per “incoraggiare la presenza e il lavoro dei laici nell’area sociale, economica e politica”. Nella nota la riflessioni dei vescovi si concentra su diversi altri temi, tra cui la presenza della Chiesa nel mondo universitario, le vocazioni al sacerdozio, e il dialogo ecumenico e interreligioso. (A cura Rafael Belincanta)

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Messico. I vescovi: le carceri sono "università del crimine"

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“Le famiglie, la scuola e le autorità civili hanno la responsabilità di fermare la crescita del numero di adolescenti e giovani che finiscono nei gruppi della criminalità organizzata”: lo ha detto il vescovo della diocesi di Veracruz, in Messico, mons. Luis Felipe Gallardo Martín del Campo. Secondo una nota inviata all'agenzia Fides, all'apertura del XXXVI Convegno nazionale della Pastorale penitenziaria svoltosi a Veracruz, alla presenza del nunzio apostolico in Messico, l'arcivescovo Christophe Pierre, mons. Gallardo Martín del Campo ha affermato che “i genitori hanno trascurato per il lavoro e gli interessi personali, l'educazione e la cura dei figli questo lo vediamo nelle statistiche sulla criminalità attuale”.

“Dobbiamo insistere nella pastorale familiare – ha proseguito – perché oggi ovunque possiamo trovare delle bande criminali, e mentre i genitori sono lontani perché molte volte lavorano, i ragazzi sono lasciati da soli”. Poi ha aggiunto, "E' triste vedere che nella rete del narcotrafico ci sono tanti giovani di 20 o 25 anni”. Il vescovo si è rivolto non solo alle famiglie, ma anche alle autorità: “Anche le autorità sono responsabili di questa situazione perché le carceri stanno diventando università del crimine”, ha rimarcato con una efficace metafora.

“La Chiesa – ha detto – opera nelle carceri per la rigenerazione di molti di questi giovani, propone un programma di rieducazione e re-integrazione sociale per far in modo che molti riescano a tornare alle loro famiglie, abbandonando pratiche criminose”.

Tra i maggiore problemi delle carceri in Messico, vi sono il degrado delle strutture e della vita dei detenuti e il sovraffollamento. La Chiesa in Messico, nelle sue 92 diocesi, è impegnata nella pastorale penitenziaria con sacerdoti, religiosi e laici. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 211

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.