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Sommario del 24/06/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: il cristiano sa abbassarsi per annunciare il Signore

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Un cristiano non annuncia se stesso, ma il Signore. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, nella solennità della Natività di San Giovanni Battista. Il Papa si è soffermato sulle vocazioni del “più grande tra i profeti”: preparare, discernere, diminuire. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Preparare la venuta del Signore, discernere chi sia il Signore, diminuire perché il Signore cresca. Papa Francesco ha indicato in questi tre verbi le vocazioni di Giovanni il Battista, modello sempre attuale per un cristiano. Giovanni, ha detto il Papa, preparava la strada a Gesù “senza prendere niente per sé. Era un uomo importante: “la gente lo cercava, lo seguiva perché le parole di Giovanni erano forti”. Le sue parole, ha proseguito, arrivavano “al cuore”. E lì, ha osservato, ha avuto forse “la tentazione di credere che fosse importante, ma non è caduto”. Quando, infatti, si avvicinarono i dottori della legge a chiedergli se fosse il Messia, Giovanni ha risposto: “Sono voce: soltanto voce”, ma “sono venuto a preparare la strada al Signore”. Ecco la prima vocazione del Battista, ha evidenziato il Papa: “Preparare il popolo, preparare il cuore del popolo per l’incontro con il Signore”. Ma chi è il Signore?:

“E questa è la seconda vocazione di Giovanni: discernere, fra tanta gente buona, chi fosse il Signore. E lo Spirito gli ha rivelato questo e lui ha avuto il coraggio di dire: ‘E’ questo. Questo è l’Agnello di Dio, quello che toglie i peccati del mondo’. I discepoli guardarono quest’uomo che passava e lo lasciarono andare. Il giorno dopo, è accaduto lo stesso: ‘E’ quello! E’ più degno di me’. I discepoli sono andati dietro di Lui. Nella preparazione, Giovanni diceva: ‘Dietro di me viene uno…’. Nel discernimento, che sa discernere e segnare il Signore, dice: ‘Davanti a me… è questo!’”.

La terza vocazione di Giovanni, ha proseguito, è diminuire. Da quel momento, annota il Pontefice, “la sua vita incominciò ad abbassarsi, a diminuire perché crescesse il Signore, fino ad annientare se stesso”: “Lui deve crescere, io invece diminuire”, “dietro di me, davanti a me, lontano da me”:

“E questa è stata la tappa più difficile di Giovanni, perché il Signore aveva uno stile che lui non aveva immaginato, a tal punto che nel carcere – perché era in carcere, in quel tempo – ha sofferto non solo il buio della cella, ma il buio nel suo cuore: ‘Ma, sarà questo? Non avrò sbagliato? Perché il Messia ha uno stile tanto alla mano... Non si capisce…’. E siccome era uomo di Dio, chiede ai suoi discepoli di andare da Lui a domandare: ‘Ma, sei Tu davvero, o dobbiamo aspettare un altro?’.

“L’umiliazione di Giovanni – ha constatato – è doppia: l’umiliazione della sua morte, come prezzo di un capriccio”, ma anche l’umiliazione “del buio dell’anima”. Giovanni che ha saputo “aspettare” Gesù, che ha saputo “discernere”, “adesso vede Gesù lontano”. “Quella promessa – ha ribadito il Papa – si è allontanata. E finisce solo. Nel buio, nell’umiliazione”. Resta solo “perché si è annientato tanto perché il Signore crescesse”. Giovanni, ha detto ancora, vede il Signore che è “lontano” e lui “umiliato, ma con il cuore in pace”:

“Tre vocazioni in un uomo: preparare, discernere, lasciare crescere il Signore e diminuire se stesso. Anche è bello pensare la vocazione del cristiano così. Un cristiano non annunzia se stesso, annunzia un altro, prepara il cammino a un altro: al Signore. Un cristiano deve sapere discernere, deve conoscere come discernere la verità da quello che sembra verità e non c’è: uomo di discernimento. E un cristiano dev’essere un uomo che sappia abbassarsi perché il Signore cresca, nel cuore e nell’anima degli altri”. 

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Udienze di Papa Francesco e nomina in Ecuador

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Papa Francesco ha ricevuto ieri in udienza il card. Marc Ouellet, P.S.S., prefetto della Congregazione per i Vescovi, e il card. Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi.

In Ecuador, Papa Francesco ha nominato vescovo di Guaranda il rev.do Skiper Bladimir Yánez Calvachi, del clero di Quito, finora Cancelliere della Curia arcidiocesana e Parroco di "San Juan Bautista" a Sangolqui.

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Tweet del Papa: “Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente!”

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“Quanto vorrei vedere tutti con un lavoro decente! È una cosa essenziale per la dignità umana”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account @Pontifex seguito da oltre 14 milioni di follower.

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Mons. Tomasi: famiglia non è reliquia ma speranza del futuro

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“La famiglia è una cellula fondamentale della società umana”: è quanto ribadito da mons. Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu di Ginevra, intervenuto oggi alla 26.ma sessione del Consiglio dei diritti umani. Nel suo discorso, il presule ha sottolineato che “la famiglia continua a dimostrare un vigore maggiore” rispetto alla forza di coloro che hanno tentato e tentano di eliminarla come “una reliquia del passato, un ostacolo all’emancipazione dell’individuo o alla creazione di una società libera, felice e paritaria”.

Ribadendo quindi il “legame reciproco” tra famiglia e società e le rispettive “funzioni complementari nella tutela e nella promozione del bene di ciascuno e dell’umanità intera”, mons. Tomasi ha evidenziato che “la dignità ed i diritti dell’individuo non vengono sminuiti dall’attenzione posta nei confronti della famiglia”. Anzi, molte persone, proprio “in un contesto familiare forte e sano, fondato sul matrimonio tra un uomo e una donna”, trovano “protezione, nutrimento ed energia”. E ciò riguarda soprattutto i bambini, i quali necessitano di “un contesto familiare armonioso”, in cui ricevere “la formazione e l’educazione” sulla base di un modello genitoriale “sia maschile che femminile”.

E’ nella famiglia, dunque, ha affermato ancora mons. Tomasi, che le generazioni incontrano “l’amore, l’educazione, il sostegno reciproco e la trasmissione del dono della vita”. E tale visione, ha ribadito il presule, si ritrova “nella storia di tutte le culture”, così come nella Dichiarazione universale dei diritti umani, la quale riconosce “i diritti e i doveri unici, profondi e non negoziabili della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna”. Di qui, l’appello conclusivo lanciato dall’Osservatore permanente della Santa Sede affinché la famiglia non sia “divisa o emarginata”, bensì “tutelata e difesa non solo dallo Stato, ma anche dall’intera società”. (A cura di Isabella Piro)

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P. Bentoglio: governi spesso incapaci di gestire fenomeno migratorio

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“Linee di pastorale migratoria” è il titolo del Corso di formazione organizzato dalla Fondazione Migrantes e in corso a Roma. Per domattina, è in programma l’intervento di padre Grabriele F. Bentoglio, sottosegretario del Pontificio Consiglio Migranti e Itineranti, sul tema “Evangelii Gaudium- nuova evangelizzazione, migrazioni e mobilità”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Anche solo a una lettura di superficie, l’impressione che se ne ricava è di una enormità che toglie il fiato: una massa abnorme, quasi inconcepibile nella sua reale dimensione, fatta di senza patria, senza casa, senza lavoro – e viceversa gravata di tutte le precarietà in termini di tutele, diritti, accoglienza – che vaga sulla carta geografica come una gigantesca mano tesa verso chiunque possa aiutarla a rinascere. Nel suo intervento, padre Bentoglio affronta il paragrafo sulla mobilità umana attuale snocciolando cifre in sequenza: 16 milioni i rifugiati – tra cui i richiedenti asilo e i palestinesi sotto l’Agenzia Onu di soccorso e lavoro – quasi 29 milioni gli sfollati interni a causa di conflitto, 15 milioni i profughi generati da pericoli e disastri ambientali e altri 15 a causa di progetti di sviluppo.

Padre Bentoglio prosegue citando anche gli apolidi, una schiera di “invisibili” (12 milioni) senza cittadinanza e senza diritti, e gli zingari (36 milioni) che vivono in Europa, nelle Americhe, in alcuni Paesi dell’Asia, 18 milioni dei quali solo in India, terra originaria di tale popolazione. Nel quadro della mobilità, anche se per motivi non di emergenza, disagio o integrazione,  vanno inclusi sia gli studenti internazionali (cifra stimata: 7 milioni entro il 2025) e i turisti, un esercito di 980 milioni persone registrato nel 2010.

Di fronte a questi numeri da capogiro la Chiesa si interroga da sempre e agisce sul piano pastorale e solidale. Padre Bentoglio rilegge la specifica azione ecclesiale per i migranti alla luce dell’Evangelii Gaudium di Papa Francesco, che vede una Chiesa “in uscita”, che accoglie gli ultimi come “una madre dal cuore aperto”. La priorità è certamente l’annuncio del Vangelo, modulato rispetto alle condizioni che vivono le persone cui è rivolto.

In particolare, al capitolo quarto dell’Esortazione, ricorda il sottosegretario al dicastero, il Papa si sofferma sulla “dimensione sociale dell’evangelizzazione”, che più riguarda da vicino il lavoro del Pontificio Consiglio, nella quale si “mettono a fuoco due realtà scottanti nell’attuale momento della storia” l’inclusione sociale dei poveri, la pace e il dialogo sociale.

Padre Bentoglio cita un passaggio dell’Esortazione, dove il Papa ribadisce come “indispensabile” il “prestare attenzione” alle “nuove forme di povertà e di fragilità in cui – dice – siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti – scrive ancora il Papa – mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò – prosegue Papa Francesco – esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle – esclama – le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” .

Spostando lo sguardo sul lavoro sul campo degli operatori pastorali, padre Bentoglio afferma con spirito critico: siamo "sempre più interpellati a coniugare l’impegno dell’evangelizzazione con i doveri della promozione umana. In effetti, il fenomeno migratorio, a cui spesso le istituzioni stanno assistendo con indifferenza e incapacità di gestione, continua a denunciare lo squilibrio fra le diverse aree del mondo, dove la disparità di accesso alle risorse rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il diritto di emigrare, che dovrebbe essere garantito a tutti, corrisponde – conclude – al diritto a restare, per costruire in patria un futuro migliore per i singoli e per le collettività. Entrambi, in ogni caso, devono essere subordinati ad un concetto più ampio di cittadinanza, dove non vi siano confini per un mondo che tutti devono sentire come patria universale, come luogo di passaggio e anticipazione della patria definitiva ed eterna".

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Dialogo interreligioso: dicastero vaticano in visita in Indonesia

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Sono da ieri in Indonesia, e vi rimarranno fino a venerdì prossimo padre Miguel Ángel Ayuso Guixot e padre Markus Solo, rispettivamente segretario e addetto per l’Islam in Asia e nel Pacifico del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Durante la visita, informa una nota, avranno incontri con membri della Conferenza episcopale locale, della Commissione per il Dialogo Interreligioso nonché di altre istituzioni cattoliche impegnate nel dialogo.

In programma anche una visita alle più importanti organizzazioni islamiche dell’Indonesia, in particolare la “Nahdlatul Ulama” e la “Muhammadiyah” e incontreranno anche il Consiglio degli Ulama.

“In un Paese in cui vive la più grande popolazione musulmana al mondo”, afferma la nota, la “visita ha lo scopo di implementare il dialogo interreligioso, nel segno del rispetto e dell’amicizia, come indicato da Papa Francesco”.

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L'Aif firma protocollo d'intesa con l'omologa autorità argentina

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L’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), l’Unità di Intelligence Finanziaria della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, ha formalizzato la sua cooperazione bilaterale con l’Argentina, firmando martedì in Vaticano, un Protocollo d’Intesa. Il Protocollo d’Intesa (Memorandum of Understanding– MOU) è stato firmato a Palazzo San Carlo dal direttore dell’AIF, René Bruelhart, e dal presidente della Unidad de Información Financiera (UIF) dell’Argentina, José Sbattella.

“Siamo soddisfatti della firma del Protocollo con l’Argentina oggi,” ha detto Bruelhart. “Questo è un passo importante nell’espansione del network nell’impegno globale per combattere il riciclaggio del denaro e il finanziamento del terrorismo. Confidiamo in una fruttifera cooperazione con l’Argentina, che sarà positiva per entrambe le parti.”

Quella del Protocollo d’Intesa (Memorandum of Understanding – MOU) è una prassi standard che formalizza la cooperazione e lo scambio di informazioni finanziarie fra le autorità competenti dei Paesi coinvolti, al fine di contrastare a livello internazionale il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. Esso è redatto sulla base del modello predisposto dall’Egmont Group, l’organizzazione mondiale delle Unità di Informazione Finanziaria, e contiene clausole di reciprocità, riservatezza e sugli usi consentiti delle informazioni.

L’AIF è diventata membro dell’Egmont Group nel mese di luglio del 2013 e ha già firmato Protocolli d’Intesa con le unità di informazione finanziaria con più di una dozzina di paesi, fra cui il Regno Unito, gli Stati Uniti d’America, la Francia, la Spagna, l’Italia e la Germania. L’AIF è l’autorità competente della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano per la lotta contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. E’ stata istituita nel 2010.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Cristiani che sanno abbassarsi: Messa del Papa a Santa Marta.

I bambini di nessuno: in prima pagina, Lucetta Scaraffia su mercato clandestino degli organi e sfruttamento dei poveri.

Sull'Iraq le mani dei qaedisti: l'Onu denuncia la morte di più di mille civili.

Si scrive liturgia, si scrive Chiesa: Pierangelo Chiaramello su Paolo VI e il rinnovamento.

Un articolo di Giuliana Fabris dal titolo "E' qui che ho capito Holderlin": Guardini e la villa bianca di Isola Vicentina.

Ripensare i beni comuni: Giovanni Gut sulla Summer School del Movimento Cristiano Lavoratori.

Risorsa vitale: Paul McPartlan sul "sensus fidei" nel documento della Commissione teologica internazionale.

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Oggi in Primo Piano



Iraq in emergenza umanitaria. Kerry nel Kurdistan iracheno

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Il conflitto in Iraq, tra miliziani sunniti ed esercito, sta creando ricadute negative sulla situazione umanitaria. “Fermate il commercio delle armi”, ha chiesto mons. Warduni, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad. L’appello è stato rilanciato dalla Caritas, che ricorda la fuga dalle violenze di almeno 500 mila persone. Intanto, sul fronte diplomatico, il segretario di Stato americano, John Kerry, si è trasferito da Baghdad nel Kurdistan iracheno, la regione che da questa situazione bellica potrebbe trovare spunti per affermare la tanto cercata indipendenza. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Cristian Tinazzi, che si trova nella città curda di Erbil: 

R. – In questo momento, i curdi sono in una situazione di stand-by, potremmo dire. Ieri ci sono state comunque delle schermaglie, dei combattimenti nella zona vicino a Tall ‘Afar, e i peshmerga, i combattenti curdi, hanno messo in sicurezza una strada che ritenevano di primaria importanza. I curdi, in questo momento, stanno consolidando le loro posizioni anche al di fuori di quello che era il Kurdistan fino all’intervento dell’Isis, il Partito islamico dell’Iraq e del Levante, soprattutto Kirkuk che è la città da sempre contesa. Tra l’altro, il presidente Barzani in una intervista ha detto che era il momento per il popolo curdo di decidere per il proprio futuro. Il che non vuol dire che questa sia una richiesta di indipendenza, però i curdi se la stanno giocando proprio sull’aiuto che potranno dare al governo di al Maliki per fermare l’Isis in alcune zone: chiaramente, però, vogliono qualcosa in cambio...

D. – Un’eventuale ipotesi di Kurdistan iracheno, se non indipendente almeno con una forte autonomia, potrebbe essere un primo passo verso una unificazione dell’intero Kurdistan?

R. – Questo è probabilmente il timore che avrà anche la Turchia o l’Iran, che sono stati confinanti all’interno dei quali ci sono forti presenze curde. Anche la Siria, che però in questo momento vive una guerra civile e il partito curdo locale sta combattendo con gli insorti del Free Syrian Army. La situazione, certo, potrebbe evolversi ancora in maniera più incandescente, perché potrebbe portare a un’ulteriore destabilizzazione. Però, qui ognuno pensa a se stesso: i curdi stanno giocando le loro carte proprio per conquistare il loro futuro e la loro autonomia definitiva, se l’Isis non verrà sconfitto e ricacciato fuori dall’Iraq.

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Egitto: dure condanne contro tre giornalisti di Al Jazeera

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Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato che, vista la difficile situazione economica in cui versa l'Egitto, si dimezzera' lo stipendio e donerà metà dei suoi beni allo Stato. Così facendo, ha sottolineato l'ingente deficit del bilancio dello Stato. Ieri ha fatto scalpore la condanna a sette e a dieci anni di reclusione per i tre giornalisti di al Jazeera detenuti da dicembre. L’accusa è quella di sostenere i Fratelli Musulmani del deposto presidente Mohamed Morsi. Immediata la reazione di condanna alla sentenza da parte di Onu e Stati Uniti e la convocazione degli ambasciatori egiziani in Australia, Gran Bretagna e Olanda, Paesi da cui provengono i giornalisti stranieri del gruppo. Nei mesi scorsi sono state centinaia le dure condanne a persone implicate a diverso titolo in sommosse o presunti complotti. Per una riflessione su quanto sta accadendo nelle ultime settimane in Egitto, Fausta Speranza ha parlato con il prof. Luigi Serra, docente dell'Orientale di Napoli: 

R. – Si sta configurando un quadro non solo allarmante ma sconcertante, di grande delusione, di grande apprensione, in ordine a un Paese che tradizionalmente, culturalmente, per numero di abitanti, caratteri fondamentalmente socio-culturali e religiosi moderati, attraversati da venature culturali di enorme interesse, è oggi allo sbando. L’Egitto, Paese capofila nell’ecumene arabo islamico dal punto di vista dei riferimenti culturali e socio-politici, oggi è su una slavina che preoccupa da ogni e qualsiasi punto di vista: dal punto di vista delle libertà individuali, dal punto di vista dei mancati, falliti, obiettivi di raggiungimento di una democrazia. E’ un fallimento disastroso, peraltro, da un punto di vista economico.

D. – Che cosa si profila all’orizzonte?

R. – Nel quadro di quanto sta accadendo in Iraq nello scontro fra sunniti e sciiti, tutto quanto si sta verificando con tutte le promesse di interromperlo nella sua cruenta progressione, disumana e antidemocratica, in Siria, tutto quello che si configura in altre parti del vicinato mediorientale afro-mediterraneo: cioè, la messa a punto della funzionalità dell’Egitto alle politiche dominanti occidentali, quelle degli Stati Uniti in cima.

D. - Cosa dire inoltre dello sblocco degli aiuti da parte degli aiuti degli Stati Uniti che tradizionalmente hanno sempre assicurato all’Egitto aiuti ma in questa fase e nella fase precedente avevano bloccati…

D. - Devo dire che è la conferma di quanto dicevo prima. L’Egitto è un Paese da sempre dichiaratosi e riconosciuto come custode delle libertà civili e democratiche... Gli Usa hanno aiutato a capovolgere Mubarak in nome di una democrazia che prima Bush voleva esportare dall’Occidente verso quei Paesi. Si torna ad esercitare quelle aspettative di controllo di quelle fasce militari che hanno avuto il contrasto di Piazza Tahrir, indubbiamente per gli stessi motivi: avere non solo un alleato, un consenso degli altri gradi militari, ma addirittura una loro strumentalizzazione per i propri fini.

D. – Se parliamo di piano geopolitico quali i rischi più grossi?

D. – Il piano geopolitico correrà il rischio che si accentuerà ancora di più la distanza di quei popoli sottomessi al travaglio delle guerre, al travaglio delle dominazioni dittatoriali, dall’Occidente. Un Occidente che fa i propri conti sul potenziale bellico indigeno o allogeno, intendo dire proprio di importazione da parte dell’Occidente fa il conto, la valutazione del potenziale bellico e non dei valori culturali, civili, morali, propri di quelle popolazioni. Ancora è in attesa di quella libertà di pensiero e di una libertà di comportamento magari attraverso il travaglio di guerre intestine ma in nome della propria identità.

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Domani la Libia elegge nuovo Parlamento. Ue e Onu: tappa cruciale

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La Libia si prepara a eleggere domani i 200 membri del nuovo parlamento, che avrà sede a Bengasi. 32 seggi sono riservati alle donne. Oltre 1.600 i candidati per un voto che l’Unione Europea e l’Onu definiscono cruciale per l’avvio di un dialogo costruttivo che porti ad un governo stabile. Sulle consultazioni pesa infatti l'incognita sicurezza, specie nell'est dove da un mese le forze dell'ex generale Khalifa Haftar sono impegnate in un'offensiva contro gruppi estremisti, che ha provocato centinaia di morti. Sulle attese e sul valore di questo voto, Gabriella Ceraso ha raccolto il parere di Arturo Varvelli, ricercatore dell'Istituto di studi politici internazionali (Ispi): 

R. – Le aspettative sono alte. Certo, è vero, che potrebbe essere una sorta di ultimo appello, anche perché dalle elezioni del luglio 2012 sembrava si prospettasse alla Libia un futuro roseo e invece è piombata in una situazione di semi- anarchia. E questo ci fa presagire che possa diventare a tutti gli effetti uno Stato fallito: non c’è un’autorità centrale, ci sono solo milizie che controllano vaste aree del Paese, ci sono infiltrazioni ed elementi jihadisti. Non possiamo, però, da questo punto di vista, deporre tutte le speranze: il Paese sembra infatti ancora reggere e le elezioni possono essere un punto di svolta per la creazione di un nuovo patto sociale. Gli accordi in tal senso non si faranno tanto al Congresso, ma si faranno più che altro fuori da questa sede. Tribù, comunità locali, partiti, forze politiche devono trovare un nuovo accordo.

D. – Quale configurazione parlamentare, secondo lei, assumerà il Congresso?

R. – E’ molto difficile dirlo, perché si è scelto di premiare ancora una volta gli indipendenti. Gli indipendenti possono avere varie anime, ma quello che è importante è trovare un accordo. Le forze che avranno un’espressione devono avere tutte dignità di parola, compresa la Fratellanza musulmana e le forze islamiste, che hanno deciso di concorrere alle elezioni. L’Egitto, in questo senso, ha dato un pessimo esempio: ha detto che la Fratellanza non poteva governare, quindi i laici libici si sono rifiutati di governare insieme alla Fratellanza. La Libia, però, avrebbe bisogno proprio di questo: di trovare un accordo comune e di governare insieme in qualche maniera o almeno trovare un terreno di condivisione.

D. – L’Unione Europea ha scritto oggi la sua preoccupazione ovviamente per il deterioramento della situazione politica e di sicurezza in Libia. Poi, ha anche sottolineato l’auspicio che questo voto si svolga non solo in un ambiente pacifico, ma con una larga partecipazione di donne e giovani. E’ possibile?

R. – Le dichiarazioni di principio dell’Unione Europea sono sempre condivisibili. Bisogna vedere, però, anche quello che ha fatto l’Unione Europea; ha fatto cioè troppo poco per la stabilizzazione. Certamente, ci si è illusi che l’abbattimento di un regime potesse comportare la fioritura di qualcosa di diverso, di democratico, senza alcun accompagnamento. Così, è stato e adesso si chiede una partecipazione larga a donne e giovani. In realtà le iscrizioni alle liste elettorali e al voto, di fatto, sono state molto inferiori rispetto a quanto accaduto due anni fa. C’è una sorta, dunque, di disillusione. C’è anche un’atmosfera tutta diversa: i cittadini libici non hanno notato miglioramenti negli ultimi due anni nelle loro condizioni di vita. Anche questo quindi non depone a favore di un processo di democratizzazione. Certo, è vero che persistono ampi strati di popolazioneche  credono ancora nel processo democratico: bisogna far sì che non si disilludano del tutto.

D. – Quindi, che cosa bisogna augurarsi dal voto, anche per il miglioramento delle condizioni dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo? Penso per esempio all’annosa piaga della migrazione...

R. – Quello che ci possiamo augurare è che esca una Libia che abbia maggiormente voglia di compromesso, di accordo. Se da queste elezioni nasce questo desiderio, cioè un rilancio di questa volontà, nasce la possibilità di scrivere una Costituzione in maniera pacifica, nasce un’autorità centrale, un governo un pochino più forte di quanto lo sia ora. Allora, queste sono tutte prospettive di una stabilizzazione pacifica del Paese e anche di una risoluzione, in parte perlomeno, della questione dell’immigrazione, della questione umanitaria, della questione delle armi, che se ne vanno ovunque in giro per il Medio Oriente dalla Libia, e della questione dei jihadisti. Tutto è legato, di fatto, alla possibilità di un nuovo rilancio della politica a Tripoli.

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Pakistan. Bhatti: speriamo nel Consiglio per i diritti delle minoranze

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In Pakistan, è stato definito un passo storico: la decisione della Corte suprema di ordinare al governo di istituire  il “Consiglio nazionale per i diritti delle minoranze”. Si tratterebbe di un organismo totalmente indipendente, incaricato di monitorare e proteggere la condizione dei cittadini appartenenti a minoranze etniche e religiose, a oggi in Pakistan vittime di violenza, persecuzioni, discriminazioni, prive di qualsiasi difesa istituzionale. Soltanto nel 2013, si sono contati 81 cristiani uccisi. Soddisfazione è stata espressa dai cristiani del Paese, che però manifestano cautela, così come fa Paul Bhatti, leader dell’Alleanza delle minoranze pakistane, intervistato da Francesca Sabatinelli: 

R. – La decisione di difendere le minoranze è una decisione buona, dà la speranza che anche la Corte suprema si interessi per quanto riguardi gli atti di violenza contro i cristiani. In passato, la Corte suprema non ha mai preso alcuna posizione. Questo aspetto è molto positivo e noi siamo contenti di questo. Però, per quanto riguarda l’aspetto fondamentale, io credo che al giorno d’oggi sia necessario intervenire diversamente in Pakistan contro tutta questa violenza, tutto questo odio, tutto questo estremismo. Ci sono infatti dei soggetti, cresciuti in determinate istituzioni, che vivono per morire o uccidere e lì bisognerebbe che sia la Corte suprema, sia il governo prendessero una posizione per porre fine a questi atti di violenza. Anche se noi mettiamo 50 mila soldati attorno alle chiese, non saranno sufficienti finché non riusciremo a eliminare quella mentalità, quella ideologia fanatica che in Pakistan sta crescendo giorno dopo giorno: viene fatto il lavaggio del cervello e viene insegnato l’odio contro tutte le minoranze e contro le persone che si oppongono a questa ideologia. E’ necessario, quindi, che la Corte suprema prenda posizione contro tutto questo.

D. – Il fatto che la Corte suprema, come ci diceva lei, per la prima volta si sia pronunciata in modo così netto, segna un primo passo…

R. – Sì, questo sicuramente è positivo. Tantissime volte, anche in passato, il governo aveva preso alcune decisioni e poi nella pratica le minoranze sono sempre rimaste al punto dov’erano. Poi, oggi c’è una sofferenza grande da parte delle minoranze: ci sono tantissimi casi di accuse di blasfemia o di altre false accuse, per cui tantissime persone sono in prigione. E anche qui, per queste persone non si fa nulla. Il governo non ha disposto l’arresto nemmeno di una delle persone che hanno bruciato le case, di nessuno! Ci sono riprese video, si sa chi sono i colpevoli, ma attualmente di questi colpevoli nessuno è in prigione. Anche la stessa Corte suprema aveva preso nota di questo fatto, ma non vedo nessuna azione.

D. – Da anni, si chiedeva al governo di istituire una commissione indipendente. Non si sa, a oggi, chi la comporrà. Ma secondo lei, c’è veramente la speranza che sia del tutto indipendente?

R. – Speriamo, speriamo. Finché non vedremo risultati è prematuro dirlo, perché in passato tantissime cose sono state promesse e mai fatte. Però, speriamo, ci auguriamo che questa sia la volta buona. Perché questa è la decisione della Corte suprema ed è il governo a doverla applicare. E bisogna vedere come sarà costituita questa Commissione, che valori rappresenta, quale autorità possa avere e cosa possa fare. Io sono fermamente convinto che, per portare cambiamento in Pakistan, bisogna prima di tutto cambiare il sistema educativo, il tipo stesso dell’educazione. Finché non faremo questo, continueremo a combattere contro un’ideologia e questo è un pericolo, non solo per le minoranze, ma per tutto il Pakistan.

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A Crotone, Intersos lancia "Mesoghios" per poveri e migranti

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Si chiama “progetto Mesoghios” ed è l’iniziativa lanciata dall’organizzazione umanitaria italiana Intersos nella provincia di Crotone, per garantire il diritto all’assistenza sanitaria a migranti, rifugiati e cittadini italiani che vivono in condizioni di esclusione. Il progetto, realizzato in collaborazione con diverse realtà locali, prevede la creazione di un poliambulatorio, di uno sportello socio-sanitario e di una clinica mobile. Ce ne parla Davide Maggiore

"Mesoghios" non vuole sostituirsi al servizio sanitario locale, ma sostenerlo e integrarlo, permettendo a chi si trova ai margini della società di ricevere assistenza. Una condizione che riguarda molti di coloro che sono rimasti senza lavoro: nel crotonese il loro numero ha raggiunto i 15 mila, e il tasso di disoccupazione ormai è al 25%. A questa situazione si aggiunge poi quella delle migliaia di migranti presenti in tutta la provincia, che ospita un Centro di accoglienza per i richiedenti asilo che è il secondo più grande d’Europa. Ascoltiamo Pino de Lucia, della cooperativa Agorà Kroton, che è tra i partner del progetto di Intersos:

“Nella provincia di Crotone, in questo momento, c’è un totale di oltre 2300 migranti, come presenza giornaliera. A Crotone è presente una delle Commissioni dove vengono dati i permessi di soggiorno. Dal ’99 ad oggi, quindi, parliamo di 150 mila persone, che man mano, a scaglioni, ritornano per rinnovare il permesso. Non hanno una dimora, non hanno nulla, e devono vivere per strada. Purtroppo, vivendo sui marciapiedi, c’è anche il rischio di malattie ed ecco perché un ambulatorio come questo può servire”.

"Mesoghios" è quindi la risposta, insieme, a due emergenze, che nel Meridione trovano un punto d’incontro geografico. Da qui prende le mosse la presenza di Intersos, come spiega Cesare Fermi, responsabile per i programmi italiani dell’organizzazione:

Mesoghios vuol dire Mediterraneo, in lingua greca, e adesso, per noi, ma non solo per noi, è ormai evidentemente il centro di questo mondo moderno, l’imbuto dove passano le crisi dell’Est, del Sud del resto del mondo; crisi che passano e vengono dove noi le viviamo in prima persona. Ormai, considerare l’intervento umanitario come un intervento in Paesi lontani, per noi, non ha più senso”.

La logica del progetto, però, va oltre l’emergenza e guarda a risultati da ottenere anche nel medio periodo. Ancora Cesare Fermi:

“L’operatività di risposta all’emergenza, che abbiamo voluto tenere anche in Italia, si basa su un intervento fortemente supportato, condiviso e studiato con la comunità. Il progetto mira poi ad essere preso in carico proprio dalle persone, dalle associazioni del luogo, che già collaborano con noi sin dall’inizio. Quindi noi pensiamo che in tre, quattro anni questo progetto potrebbe e dovrebbe essere preso in carico dalla comunità locale, a costi - praticamente - ridotti”.  

"Mesoghios", infine, nelle speranze di chi lavora sul territorio, può diventare anche il primo passo verso un modello diverso di accoglienza. Lo spiega Pino de Lucia:

“Per noi l’accoglienza non può essere nei 'mega centri', nei centri grandissimi di mille, duemila persone. Noi tendiamo idealmente a fare un’accoglienza diffusa, nei piccoli Paesi, nei nuclei familiari, perché quando si hanno questi numeri, secondo noi, non c’è possibilità di relazione umana. I piccoli numeri, invece, ci danno questa possibilità. L’accoglienza vera è anche un fatto culturale e a Crotone sta succedendo questo. E’ una cosa, quindi, molto positiva”.

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"Raccontami 2014": a Roma oltre tremila senza tetto

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Vivere in strada, senza il riparo di un tetto e il calore di una famiglia: sono oltre 3.000 i senza fissa dimora a Roma. Non si tratta solo di stranieri in cerca di una prima occupazione, ma anche di moltissimi italiani, talvolta anche laureati. La Fondazione Rodolfo Debenedetti, assieme all’Università Bocconi, al Comune di Roma, alla Cisom e a "Binario 95" ha reso noti i risultati di “Raccontami 2014”, il censimento dei senza fissa dimora nella Capitale. Gianmichele Laino ha intervistato Alessandro Radicchi, direttore dell’Osservatorio nazionale disagio e solidarietà: 

R. – Sui numeri, bisogna fare una considerazione, perché se rapportassimo il censimento fatto dall’Istat un paio di anno fa con la Fiospd (la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), che ne contava a Roma 10 mila, se effettivamente oggi fossero diventati tremila avremmo fatto grandi passi avanti perché avremmo sistemato settemila persone. Invece, la cosa importante da dire riguardo a questo censimento è che esso è complementare ad altri che sono stati fatti. In particolare, il censimento afferma di aver contato le persone che stavano effettivamente in strada, diversamente da quello che aveva fatto l’Istat, che aveva contato principalmente quelle che usufruivano dei servizi. Da questo, si evidenzia uno zoccolo duro di circa duemila persone che comunque stanno in strada: sono roofless, quindi dormono in strada, senza un tetto. La cosa importante che c’è da aggiungere, anche, al censimento “Raccontami 2014” – importantissimo perché una pietra miliare sul conteggio in strada su Roma  – è, per esempio, che per quanto riguarda i centri di accoglienza non è stato considerato il Centro di accoglienza per le persone immigrate o titolari o richiedenti protezione umanitaria.

D. – Quali sono le azioni concrete che si possono mettere in pratica per offrire un aiuto a chi non ha un tetto?

R. – Come diceva giustamente ieri Daniele Lucaroni, redattore di “Shaker”, persona senza dimora che ha vissuto un recupero proprio dalla strada, dalla stazione: “Bene, ringraziamo tutti, tutto è importantissimo, ma ricordatevi che noi la casa ancora non ce l’abbiamo”. Significa che se noi poi non prendiamo queste rilevazioni come punto di partenza per andare effettivamente a incidere su una necessità abitativa, su nuove prospettive di housing sociale, con case-appartamento, andando finalmente a occupare quegli immobili, che sono tantissimi, che sono non utilizzati ... Ora, Roma ha tanti spazi che non usa, però noi non ci attiviamo, per questo. Le istituzioni devono partire da politiche di questo tipo.

D. – Qual è il ritratto di una persona senza dimora?

R. – La persona senza dimora è un giovane immigrato che sbarca sul territorio italiano e che quindi cerca protezione o lavoro, oppure un italiano più anziano che ha avuto varie microfratture nella sua vita e che quindi cerca di reinserirsi nel contesto sociale. Parliamo di un immigrato tra i 18 e i 25 anni, parliamo di un italiano tra i 40 e i 75 anni.

D. – Vivere per strada molte volte rappresenta l’ultima spiaggia. I senza dimora hanno speranza di cambiare la loro condizione, o a un certo punto subentra una rassegnazione senza via d’uscita?

R. – E’ uno stato che purtroppo peggiora anche continuamente, se non è opportunamente “curato”. C’è anche una nuova definizione, data dall’Organizzazione mondiale della sanità, che definisce la povertà come una malattia, le dà un codice: Z59.5, perché la persona che cade in disgrazia incomincia a costruire attorno a sé delle barriere, incomincia a smettere di "abitare" se stesso. C’è una possibilità di uscita? Sì, c’è la possibilità, c’è la possibilità di salvare le persone intervenendo con meccanismi strutturati, creativi, intelligenti e propositivi, che vadano oltre la concezione del panino o della coperta, ma che non bastano per fare uscire le persone dallo stato di povertà.

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Divorzi in Italia: la vicinanza della Chiesa alle coppie in crisi

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Per la prima volta dal 1995 il numero delle separazioni e dei divorzi in Italia sembra registrare una battura d’arresto. Lo dice il rapporto diffuso dall’Istat che prende in considerazione l’anno 2012. Ad incidere su questo calo forse anche la crisi, i costi per lo scioglimento di un matrimonio, e il rivolgersi frequente delle coppie ad altri Paesi europei per accelerare le procedure. Il rapporto sottolinea tuttavia che a tenere di più sono le nozze celebrate in chiesa rispetto a quelle con il solo rito civile. Ma quali le cause maggiori che portano due coniugi a non voler più vivere insieme? Adriana Masotti lo ha chiesto a don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio della Conferenza episcopale italiana per la pastorale familiare: 

R. – Diciamo una cosa: siamo in una società che non favorisce la comunione familiare, per tanti aspetti: tra questi, quello preminente, un vuoto di autentiche politiche familiari. Il segno forte di questi dati è che quando una famiglia si sgretola, i costi raddoppiano. E questa cosa, in un momento di crisi economica, sta facendo ripensare tanti che, magari di fatto, continuano ad essere separati in casa. Dobbiamo anche, però, cogliere tutto questo come un’opportunità di uno spazio in cui trasformare la separazione in una possibilità di rinnovata unione e, quindi, creare tutta una serie di sostegni, che attualmente mancano alla famiglia.

D. – Lei vuol dire che allo Stato "converrebbe" fare in modo che le famiglie rimangano unite?

R. – Quando una famiglia si spezza, i costi per lo Stato aumentano notevolmente, perché la famiglia è un fattore sociale, perché la famiglia è il vero segreto perché la persona si senta realmente custodita. Papa Francesco ce lo ha detto più volte. E’ proprio nella custodia dei coniugi, nel custodirsi tra loro, nel custodire i propri figli e anche nell’essere custoditi, quando sono anziani, dai figli: questa circolarità del dono è la vera sapienza del vivere. Allora, sostenere la famiglia vuol dire anche sostenere il futuro della società.

D. – L’Istat rivela che le unioni celebrate in Chiesa tendono a durare di più...

R. – La tenuta di un matrimonio religioso, per noi, significativamente, è anche data dalla grazia. Il rito del matrimonio attualmente dice: “Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele per sempre”. Ma questa grazia si trasforma anche in una rinnovata fraternità. Allora diciamo che chi si sposa in chiesa oggi, oltre ad avere una consapevolezza spesso maggiore, perché sono cresciuti notevolmente i percorsi sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia, oltre ad un accompagnamento vivo di tante famiglie, di una rete, scopre forse le ragioni vere di quella fedeltà da custodire, da conservare. Papa Francesco direbbe: “Permesso”; “Grazie”; “Scusa”, il vivere cioè quotidianamente questo atteggiamento continuo di custodia reciproca l’uno dell’altra e anche dei propri figli. Molti di coloro che fanno il percorso civile, di fatto, non hanno un vero accompagnamento, e dovremmo aiutare la società a colmare questo vuoto

D. – Ecco, a proposito di figli, un dato positivo, che emerge, è che oggi, molto di più rispetto al passato, l’affidamento dei figli è condiviso tra padre e madre. Questa è una buona cosa...

R. – Questa è una buona cosa, quando c’è la possibilità reale di poterlo fare, quando cioè è rimasto un atteggiamento reciproco di rispetto. Penso anche ad esempio ai “santi" avvocati, quando cioè c’è un accompagnamento il più possibile premuroso verso la conservazione di quell’unità nel rapporto di coppia, anche se non si sta più insieme, ma l’unità in vista dell’educazione dei figli, questo crea il grande fattore aggiunto di una possibile e maggiore serenità. E' il caso dell’affido congiunto che inoltre valorizza anche la necessità di entrambi i genitori come il soggetto primario dell’educazione.

D. – Che sensibilità e che impegno c’è da parte della Chiesa proprio per aiutare le coppie che sentono che le cose non stanno andando bene?

R. – Il Papa ci chiede questa Chiesa che deve curare i feriti con misericordia. E allora, oltre a tanti percorsi per persone che già vivono la separazione o il divorzio – ormai sono oltre un centinaio in tutta Italia – stanno nascendo tante esperienze in cui più soggetti si mettono insieme in una vera sinfonia della cura per le ferite, che produce un ottimo effetto. Penso, in questo caso, per esempio, ai consultori, soprattutto a quelli di ispirazione cristiana, ma penso anche ai servizi sociali, penso anche a gruppi di sposi che curano chi ha vissuto invece il fallimento del proprio matrimonio. La solitudine è il virus che trasforma una crisi in una terribile separazione. Io ho avuto esperienza viva di fidanzati, che avevano fatto percorsi anni prima e poi si sono sposati e hanno subito una crisi di matrimonio e si sono riaffacciati alla Chiesa, per chiedere con grande forza un aiuto. E questo aiuto è stato decisivo, perché avere intorno chi aiuta ad uscire dalla rabbia che acceca e poter rigenerare uno sguardo nuovo sull’altro, questo è fondamentale per superare la crisi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Sudan: Meriam di nuovo arrestata a Khartoum

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Meriam Yahia Ibrahim Ishag, la ragazza cristiana condannata per apostasia e liberata ieri, e' stata di nuovo arrestata in Sudan. Lo fa sapere l'avvocato della donna tramite Antonella Napoli, presidente della Ong Italians for Darfur. Meriam, il marito Daniel e lo stesso legale - riferisce l'agenzia Ansa - sono stati fermati all'aeroporto di Khartoum dai servizi segreti sudanesi.

Nei giorni scorsi la Commissione nazionale per i Diritti umani sudanese aveva parlato di “sentenza in contrasto con la Costituzione, che prevede la liberta' di culto”, facendo intuire che una decisione sul caso fosse imminente. Ieri la sentenza e' stata annullata dalla Corte d'appello. La donna lo ricordiamo, si trovava nel carcere di Khartoum con Maya, la figlia da poco partorita e il figlio Martin, di 20 mesi. Per la sua liberazione era stata indetta una mobilitazione internazionale con il coinvolgimento di autorità civili e religiose di tutto il mondo per invocare il rispetto della libertà religiosa e la necessità di dialogo. Dopo la gioia di ieri per la sua liberazione, ora ritorna la paura per la sua sorte. (R.P.)

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Sud Sudan: appello di pace dei leader cristiani e musulmani

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“Fermate la guerra e iniziate a parlare”. È il pressante appello lanciato dai leader religiosi cristiani e musulmani al governo e ai ribelli del Sud Sudan perché applichino gli accordi di pace firmati l’11 giugno ad Addis Abeba per mettere fine al conflitto civile scoppiato lo scorso dicembre.

Un comunicato inviato all’Agenzia Fides dalla delegazione delle organizzazioni religiose presenti alla conferenza di pace di Addis Abeba, denuncia “il persistente non rispetto degli accordi e gli inutili ritardi dei colloqui di pace”, al punto che ci si chiede se questi impedimenti “non siano dei capri espiatori per prolungare la guerra e provocare un nuovo bagno di sangue”.

I leader religiosi chiedono a tutte le parti in causa di applicare gli accordi di pace (compresa la formazione di un governo di unità nazionale) senza ulteriori ritardi, al fine di risparmiare nuove sofferenze alla popolazione stremata da sette mesi di guerra.

Il conflitto oppone le forze governative fedeli al Presidente Salva Kiir e una serie di gruppi ribelli che fanno riferimento all’ex vice Presidente Riek Machar.

I colloqui di pace in corso nella capitale etiopica sono mediati dall’Igad (l’autorità di sviluppo economico regionale) e vi partecipano i rappresentanti delle religioni del Sud Sudan riuniti sotto la sigla Faith Based Organizations Peace Delegation, alla quale partecipano il South Sudan Council of Churches e il South Sudan Islamic Council. (R.P.)

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Vescovi Usa: no alle armi per rispondere alla crisi in Iraq

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Preferire la diplomazia alle armi per risolvere la crisi in Iraq: è quanto raccomanda al governo degli Stati Uniti mons. Richard Pates, presidente della Commissione episcopale americana per la Giustizia e la pace. In particolare, in una lettera inviata a Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, il presule sottolinea che gli Stati Uniti hanno una responsabilità nei confronti del popolo iracheno. Per questo, il vescovo Pates esorta le istituzioni americane a fare tutto il possibile affinché i leader politici iracheni formino “un governo di unità”, in modo che i cittadini locali possano sentirsi inclusi nello sviluppo del Paese.

Ribadendo che tutti i gruppi etnici e religiosi dell’Iraq devono essere rappresentati nelle istituzioni nazionali e che è dovere gli Stati Uniti fare il possibile affinché si raggiunga questo traguardo, mons. Pates afferma: “La nazione americana ha una responsabilità particolare nei confronti della popolazione irachena: l’invasione e l’occupazione da parte degli Stati Uniti hanno scatenato conflitti interreligiosi e la crescita dell’estremismo, due conseguenze tragiche e non volute che si ripercuotono profondamente, ancora oggi, sulla popolazione locale”.

Al contempo, mons. Pates esorta a proseguire gli sforzi per giungere ad una soluzione politica anche in Siria, a tutela dei cristiani e delle altre minoranze. “Gli Stati Uniti – scrive il presule – dovrebbero lavorare con la comunità internazionale, inclusi Iran, Russia, Arabia Saudita e altri Paesi responsabili in Siria: è cruciale ottenere il cessate-il-fuoco, avviare negoziati seri, fornire assistenza umanitaria imparziale ed incoraggiare la costruzione di una società inclusiva nel Paese”. (A cura di Isabella Piro)

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Myanmar: no dell'Onu al controllo delle conversioni

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Gli esperti sui diritti delle Nazioni Unite hanno esortato il governo del Myanmar a lasciar cadere un controverso progetto di legge sul controllo delle conversioni religiose. Venerdì scorso, tre inviati speciali, sulla libertà di religione e sulle questioni delle minoranze e dei diritti umani, hanno condannato il progetto di legge che richiederebbe a coloro che scelgono di convertirsi a un’altra religione di presentare documentazione e sottomettersi a un processo di registrazione presso uffici dell’amministrazione pubblica.

“La libertà di religione o di credo è un diritto umano, indipendentemente dall’approvazione dello Stato, e il rispetto della libertà di religione o di credo non dipende da procedure di registrazione amministrative”, ha detto Heiner Bielefeldt, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione.

Nel marzo scorso, il presidente Thein Sein ha istituito una commissione parlamentare di 12 membri e il 27 maggio una bozza della proposta di legge è stata pubblicata sulla stampa locale allo scopo di raccogliere reazioni e proposte da parte della popolazione. La decisione di consultare il pubblico è stata l’unica proposta positiva notata dai tre esperti delle Nazioni Unite.

Rita Izsák, il relatore speciale sulle questioni delle minoranze, ha evidenziato che il disegno di legge potrebbe avere un impatto negativo sulla libertà di religione e dei diritti delle minoranze religiose ed etniche. “Esorto il Myanmar a rafforzare la protezione, in linea con gli standard internazionali e a non creare ostacoli sull’identità religiosa. E’ diritto di ogni individuo di scegliere liberamente la propria professione di fede”, ha detto Izsàk.

Il relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Yanghee Lee, negli ultimi sei mesi, ha notato “preoccupanti passi indietro” nel processo del Paese verso una nazione più democratica, anche nell’arresto arbitrario e nelle intimidazioni di attivisti e giornalisti ritenuti contrari alla linea del governo. La signora Lee ha affermato che nel disegno di legge sulla tutela della razza e della religione ci sono “segnali di rischio che il Myanmar, nel suo cammino per diventare membro responsabile della comunità internazionale, vada fuori strada”.

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Giordania: nato il 1000.mo bimbo nel campo profughi di Zaatari

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La piccola Aisha, nata lo scorso 27 maggio, è la millesima tra i neonati partoriti nella clinica del campo profughi di Zaatari, 80 chilometri a nord est di Amman, dove attualmente sopravvivono almeno 85mila rifugiati siriani. Secondo gli organismi Onu che tengono il conto delle nuove nascite a Zaatari, dopo Aisha, nello stesso campo profughi sono già nati altri 30 bambini, e dall'inizio dell'anno 37 gravidanze sono state portate a termine da ragazze al di sotto dei 18 anni. “E' un dato che colpisce” commenta per l'agenzia Fides il direttore di Caritas Giordania, Wael Suleiman, “soprattutto se si tiene conto che è riferito solo alla popolazione di Zaatari.

In tutta la Giordania adesso ci sono un milione e 400mila profughi siriani, e tra loro stanno nascendo migliaia e migliaia di bambini. Tante donne fuggono dalla Siria proprio perchè sono incinte e vogliono partorire in un luogo che garantisca dal punto di vista sanitario requisiti minimi di sicurezza, mentre nelle città e nei villaggi da cui sono fuggite gli ospedali e le cliniche sono stati distrutti dal conflitto o vengono utilizzati solo per curare i feriti. Di certo” aggiunge Suleiman “questi piccoli nascono nei campi profughi come segni di speranza in una situazione che sembra non avere speranza, dove si verificano anche casi di violenza, e che interpella tutta la comunità internazionale a impegnarsi per garantire loro un futuro dignitoso”.

Lo scorso 18 giugno Wael Suleiman ha ritirato a Lucerna il “Caritas Prix 2014” conferito dalla Caritas svizzera per il lavoro sostenuto da Caritas Jordan a favore dei profughi siriani. “I rifugiati” spiega a Fides Suleiman, “sono stanchi della guerra, sono venuti e continuano a venire in Giordania per vivere in pace. Solo ieri ne sono arrivati 570. Non vogliono creare problemi e in questo senso, a mio giudizio, la loro presenza non contribuisce in alcun modo al rischio che la Giordania sia contagiata dai conflitti che ci circondano”. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 175

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.