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Sommario del 20/06/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: no a qualsiasi droga, dare ai giovani educazione e lavoro

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La droga è un “flagello” che si regge su un mercato “turpe” e dunque ribadisco quanto già detto in altre occasioni: “No ad ogni tipo di droga. Semplicemente”, compresa qualsiasi forma di legalizzazione. Questa affermazione è stata il “cuore” del discorso che Papa Francesco ha rivolto ai membri dell’“International Drug Enforcement Conference”, ricevuti in udienza. Il servizio di Alessandro De Carolis

Con la droga non si negozia, non si cede un metro, perché non c’è niente in essa di buono, perché semplicemente brucia cervello e cuore di chi spera invece di “accendersi” e godersi con lei momenti di piacere più o meno lunghi, più o meno ripetuti. Papa Francesco sbarra la strada su tutta la linea sia all’uso degli stupefacenti – “flagello”, afferma all’inizio del suo discorso, che “continua ad imperversare in forme e dimensioni impressionanti” – sia al narcotraffico che lo alimenta, definito “un mercato turpe”, “tragico”, che “scavalca confini nazionali e continentali” e finisce per mordere le vittime più indifese, giovani e adolescenti.Papa Francesco vuole manifestare, dice, “dolore” e “preoccupazione” ma anche ribadire in modo inequivocabile un concetto:

“La droga non si vince con la droga! La droga è un male, e con il male non ci possono essere cedimenti o compromessi. Pensare di poter ridurre il danno, consentendo l’uso di psicofarmaci a quelle persone che continuano ad usare droga, non risolve affatto il problema. Le legalizzazioni delle cosiddette ‘droghe leggere”, anche parziali, oltre ad essere quanto meno discutibili sul piano legislativo, non producono gli effetti che si erano prefisse”.

Neanche le “droghe sostitutive”, osserva, “sono una terapia sufficiente”, ma solo “un modo velato di arrendersi al fenomeno”. Di qui, la ripetizione senza giri di parole di una convinzione:

“No ad ogni tipo di droga. Semplicemente. No ad ogni tipo di droga. Ma per dire questo no, bisogna dire sì alla vita, sì all’amore, sì agli altri, sì all’educazione, sì allo sport, sì al lavoro, sì a più fonti di lavoro (…) Pensiamo ad un giovane: né, né. Né studia né lavora. Entra in questa mancanza di orizzonte, di speranza e la prima offerta sono le dipendenze, tra le quali la droga. (...) La fonte di lavoro, l’educazione, lo sport, la sanità di vita: questa è la strada della prevenzione della droga”.

Se si realizzano questi “sì”, soggiunge il Papa, "non c'è posto per la droga, non c’è posto per l’abuso di alcol e per le altre dipendenze”. E a diffondere e dare forza a questo circolo virtuoso – ricorda poi – lavora da sempre la Chiesa attraverso i suoi operatori e volontari che sono accanto a chi si è perso nella “spirale della droga” e cerca di riemergere a riprendersi la propria “dignità”. E tuttavia, sprona Papa Francesco, questo lavoro di recupero “non è sufficiente”:

“Bisogna lavorare sulla prevenzione. Quello farà molto bene. L’esempio di tanti giovani che, desiderosi di sottrarsi alla dipendenza dalla droga, si impegnano a ricostruire la loro vita, è uno stimolo a guardare in avanti con fiducia”.

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Papa: inaccettabili persecuzioni per fede. Dolore per i cristiani

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La libertà religiosa è un diritto fondamentale inerente la dignità umana ed è un indicatore di sana democrazia e legittimità dello Stato. Dunque, è incomprensibile che permangano nel mondo persecuzioni e guerre in nome della fede. E’ quanto in sintesi ha espresso il Papa ricevendo i partecipanti al Convegno internazionale sulla libertà religiosa in corso alla Lumsa. Parole forti e cariche di dolore in particolare per i martiri cristiani. Il servizio di Gabriella Ceraso:

 

Ogni essere umano è un cercatore della verità sulla sua origine, sul suo destino, sulla sua storia. Le domande che sorgono dal suo intimo, insopprimibili perchè connaturate alla persona, sono ”domande religiose”, spiega il Papa, che “hanno bisogno della libertà religiosa per manifestarsi pienamente” e per riflettere la dignità umana che è in questa ricerca di verità:

“La libertà religiosa non è solo quella di un pensiero o di un culto privato. E’ libertà di vivere secondo i principi etici conseguenti alla verità trovata, sia privatamente che pubblicamente. Questa è una grande sfida nel mondo globalizzato, dove il pensiero debole abbassa anche il livello etico generale, e in nome di un falso concetto di tolleranza si finisce per perseguitare coloro che difendono la verità sull’uomo e le sue conseguenze etiche”.

Ma la libertà religiosa ha anche riflessi sociali e politici e se recepita in Costituzioni e leggi, ricorda il Papa, favorisce lo sviluppo di "rapporti di mutuo rispetto tra Confessioni" e una loro sana collaborazione con la società, "senza confusione di ruoli e senza antagonismi”:

“Gli ordinamenti giuridici, statuali o internazionali sono chiamati pertanto a riconoscere, garantire e proteggere la libertà religiosa, che è un diritto intrinsecamente inerente alla natura umana, alla sua dignità di essere libero, ed è anche un indicatore di una sana democrazia e una delle fonti principali della legittimità dello Stato”

Per questo risulta “incomprensibile e preoccupante”, aggiunge Francesco, che tutt’oggi nel mondo chi professa pubblicamente la propria fede sia discriminato:

“È inaccettabile che addirittura sussistano vere e proprie persecuzioni per motivi di appartenenza religiosa! Questo ferisce la ragione, attenta alla pace e umilia la dignità dell’uomo”.

Quindi, il riferimento del Papa va ai cristiani, a più di 1700 anni, ricorda, dall’editto di Costantino che concedeva loro libertà di confessione :

"E’ per me motivo di grande dolore constatare che i cristiani nel mondo subiscono il maggior numero di tali discriminazioni. La persecuzione contro i cristiani oggi è addirittura più forte che nei primi secoli della Chiesa, e ci sono più cristiani martiri che in quell’epoca"

L’auspicio conclusivo di Francesco ai suoi interlocutori è dunque di contribuire, con le loro giornate di studio, a "illustrare con profondità e rigore le ragioni che obbligano ogni ordinamento giuridico a rispettare e difendere la libertà religiosa”.

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Il Papa: non farsi incatenare il cuore da soldi, vanità e potere

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Gesù ci chiede di tenere il cuore libero da soldi, vanità e potere. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha sottolineato che le vere ricchezze sono quelle che rendono “luminoso” il cuore come l’adorazione a Dio e l’amore per il prossimo. Quindi, ha messo in guardia da quei tesori mondani che appesantiscono e incatenano il nostro cuore. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

“Non accumulate, per voi, tesori sulla terra”. Papa Francesco ha svolto la sua omelia muovendo dal consiglio di Gesù, di cui parla il Vangelo odierno. Questo, ha osservato il Pontefice, è “un consiglio di prudenza”, perché i tesori sulla terra “non sono sicuri: si rovinano, vengono i ladri” e li portano via. A quali “tesori pensa Gesù”, si chiede dunque il Papa: “Principalmente a tre e sempre tornava sullo stesso argomento”:

“Il primo tesoro: l’oro, i soldi, le ricchezze… 'Ma non sei sicuro con questo perché, forse, te lo ruberanno, no?'; 'Non sono sicuro con gli investimenti!'; 'Forse crolla la Borsa e tu rimani senza niente! E poi dimmi un euro in più ti fa più felice o no?'. Le ricchezze, tesoro pericoloso, pericoloso… Ma le ricchezze sono buone, servono per fare tante cose buone, per portare avanti la famiglia: questo è vero! Ma se tu le accumuli come un tesoro, ti rubano l’anima! Gesù, nel Vangelo, torna su questo argomento, sulle ricchezze, sul pericolo delle ricchezze, sul mettere le speranze nelle ricchezze”.

L’altro tesoro, ha proseguito, “è la vanità: il tesoro di avere un prestigio, di farsi vedere”. E Gesù, ha avvertito Francesco, “sempre condanna questo!”. Pensiamo, ha detto, “a cosa dice ai dottori della legge, quando digiunano, quando danno l’elemosina, quando pregano per farsi vedere”. La vanità, ha ribadito, “non serve, finisce”. E ha citato San Bernardo che affermava: “La tua bellezza finirà per essere pasto dei vermi”. Il terzo tesoro, ha evidenziato, è “l’orgoglio”, “il potere”. Il Papa ha fatto riferimento alla Prima Lettura dove si narra della caduta della crudele regina Atalia. “Il suo grande potere – ha commentato – durò sette anni, poi è stata uccisa. Il potere finisce!” Ed ha ammonito: “Quanti grandi, orgogliosi, uomini e donne di potere sono finiti nell’anonimato, nella miseria o in prigione”. Di qui l’esortazione a non accumulare soldi, vanità, orgoglio, potere. Questi tesori, ha rimarcato, “non servono”. Il Signore, ha detto ancora il Papa, ci chiede invece di accumulare “tesori in cielo”:

“Qui è il messaggio di Gesù: 'Ma se il tuo tesoro è nelle ricchezze, nella vanità, nel potere, nell’orgoglio, il tuo cuore sarà incatenato lì! Il tuo cuore sarà schiavo delle ricchezze, della vanità, dell’orgoglio'. E quello che Gesù vuole è che noi abbiamo un cuore libero! Questo è il messaggio di oggi. 'Ma, per favore, abbiate un cuore libero!', ci dice Gesù. Ci parla della libertà del cuore. E avere un cuore libero soltanto si può avere con i tesori del cielo: l’amore, la pazienza, il servizio agli altri, l’adorazione a Dio. Queste sono le vere ricchezze che non vengono rubate. Le altre ricchezze appesantiscono il cuore. Appesantiscono il cuore: lo incatenato, non gli danno la libertà!!”

Un “cuore schiavo”, ha soggiunto, “non è un cuore luminoso: sarà tenebroso”. E se noi accumuliamo tesori della terra, “accumuliamo tenebre, che non servono!”. Questi tesori, ha avvertito il Papa, “non ci danno la gioia, ma soprattutto non ci danno la libertà”. Invece, ha affermato, “un cuore libero è un cuore luminoso, che illumina gli altri, che fa vedere la strada che porta a Dio”:

“Un cuore luminoso, che non è incatenato, un cuore che va avanti e che anche invecchia bene, perché invecchia come il buon vino: quando il buon vino invecchia è un bel vino invecchiato. Invece il cuore che non è luminoso è come il vino non buono: passa il tempo e si guasta di più e diventa aceto. Che il Signore ci dia questa prudenza spirituale, per capire bene dove è il mio cuore, a che tesoro è attaccato il mio cuore. E anche ci dia la forza di scatenarlo, se è incatenato, perché divenga libero, divenga luminoso e ci dia questa bella felicità dii figli di Dio: quella vera libertà”.

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Corpus Domini. Il Papa: il cibo che ci sazia è solo quello che ci dà il Signore

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Imparare a “riconoscere il pane falso” che corrompe, il cibo che “ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore”. Così il Papa che ha celebrato la Messa nella Solennità del Corpus Domini, sul Sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano. Al termine della celebrazione, il Pontefice si è recato direttamente - in auto coperta - a Santa Maria Maggiore, dove ha atteso l'arrivo della processione con il Santissimo Sacramento. Quindi ha impartito la Benedizione Solenne. Il servizio di Debora Donnini: 

Recuperare la memoria delle “tristi vicende del passato superate grazie all’intervento di Dio” e non avere una “memoria malata” rimpiangendo le cipolle dell’Egitto come il Popolo di Israele nel deserto. Nell’omelia Papa Francesco si richiama, infatti, alla Prima Lettura tratta dal libro del Deuteronomio quando Mosè esorta il popolo a non dimenticare i 40 anni nel deserto e la liberazione dall’Egitto: 

“L’invito è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che ‘non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore’”.

Oltre alla fame fisica, l’uomo ha una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario: è "fame di vita", “di amore” e “di eternità”. Gesù “ci dona questo cibo”, dice il Papa : “il suo Corpo  - afferma - è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino”. La manna del deserto era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda. Il Corpo di Cristo è capace di dare “vita eterna”, "perché  la sostanza di questo pane è Amore”. Un amore che si comunica nell’Eucaristia, “sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze”:

“Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo”.

Attorno però ci sono tante offerte di cibo “che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più”, rileva il Papa: “alcuni – dice  - si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio":

“Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo. Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù”.

In quei momenti, sottolinea, avevano “una memoria malata”, selettiva. Il Papa esorta dunque a chiedersi dove vogliamo magiare: se alla tavola del Signore o nella schiavitù:

“Il Padre ci dice: ‘Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi’. Recuperiamo la memoria: questo è il compito, recuperare la memoria; e impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato”.

Quindi, ricordando la processione con il Santissimo Sacramento che segue la Messa il Papa sottolinea che “l’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso”:

“A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi. E' cibo avvelenato; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa ‘memoriale’ del tuo gesto di amore redentivo”.

Conclusa la celebrazione, il Papa si è recato con l’auto coperta alla Piazza di Santa Maria Maggiore mentre la processione con il Santissimo Sacramento si è snodata a piedi lungo Via Merulana. Al termine, il Papa ha impartito la Benedizione Solenne.

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L'attesa di Cassano all'Jonio. Sibari, il ricordo di padre Lazzaro

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A Cassano all’Jonio e nelle altre località che domani vedranno la presenza di Papa Francesco si lavora a ritmi serrati per dare gli ultimi ritocchi al percorso e ai luoghi dove il Papa sosterà per incontrare le varie realtà della zona. Una giornata densa di appuntamenti, che saranno conclusi con la Messa celebrata sulla Piana di Sibari, da dove la nostra inviata, Fausta Speranza, racconta le ore della vigilia: 

Francesco viene a chiedere scusa alla comunità alla quale sottrae per diversi giorni a settimana il vescovo, mons. Galantino, da quando – a dicembre scorso – lo ha nominato segretario della Conferenza episcopale italiana (Cei). Viene in un territorio ricco dal punto di vista naturalistico, ma rallentato dal punto di vista dello sviluppo. Mons. Galantino ci parla di un territorio che sente forte il bisogno di essere confermato nella fede e – dice – recuperato a una vita degna di essere vissuta. Il Papa insegna a chiedere scusa, sottolinea mons. Galantino, dicendo che la Chiesa chiede scusa se non è credibile come il Vangelo vuole. Ma ognuno deve fare la sua parte.

La diocesi non ha chiesto, per la visita del Papa, soldi alla politica e – ci dice mons. Galantino – non promette prime file per i notabili. Privilegiati saranno carcerati, malati, anziani, ex tossicodipendenti che Papa Francesco incontrerà. E’ la prima visita di un Papa nella diocesi calabra di Cassano, difficile da raggiungere in ferrovia – quattro cambi da Roma – o in auto. Di un aeroporto si parla invano da 20 anni.

La visita del Papa si concluderà con la Messa nella spianata di Sibari dove il mare bene esprime bellezza e potenzialità di una terra da recuperare. Un territorio bello ma martoriato dal malaffare, ci dice mons. Galantino, sottolineando: “Nessuno si sente escluso da responsabilità o implicazioni perché – ricorda – alla globalizzazione dell’indifferenza può accompagnarsi la globalizzazione del malaffare”.

Prima di raggiungere la spianata di Sibari per la Messa, Papa Francesco si fermerà a pregare davanti alla parrocchia dove il 3 marzo scorso è stato ucciso padre Lazzaro Longobardi. Il suo successore, don Francesco Faillace, lo ricorda con affetto al microfono del nostro inviato Federico Piana

R. – Padre Lazzaro come uomo è stato un uomo molto riservato, non era colui che si metteva a fare molte chiacchiere. Era una persona che ascoltava e dava risposte concrete, sempre in quel silenzio, però molto incisivo in quelle che erano poi situazioni anche particolari. Era molto attento anche a quelle che erano le esigenze di questo territorio e le conosceva bene. Lui conosceva bene la sua comunità, i suoi parrocchiani e conosceva le loro storie. Quindi, sapeva intervenire nei momenti opportuni. Non era una persona che si faceva spazio con i gomiti, ma sapeva bussare alle porte.

D. – Il Papa verrà qui e si soffermerà in preghiera per ricordare questo sacerdote. Ma come è nato, secondo lei, questo delitto?

R. – La nostra realtà è un incrocio di visite sia occasionali che fisse, di persone che sono comunitarie, extracomunitarie e non solo. Da parte loro, con le loro richieste vorrebbero che le risposte fossero immediate. Risposte che tante volte non si possono dare con immediatezza, perché ci sono bisogni che necessitano di più tempo. In questo caso, l’amore e l’attenzione che padre Lazzaro ha avuto verso questa persona è stata scambiata come “buonismo stupido” e così, al primo rifiuto di attenzione, ha avuto una reazione violenta. Reazione violenta che nessuno di noi ha mai pensato di subire.

D. – In questo territorio c’è stato anche un episodio triste, quello di Cocò, il piccolo bambino ucciso in un agguato. Com’è fare il parroco in un territorio che sicuramente ha problemi anche di criminalità?

R. – Fare il parroco in questo territorio è un orgoglio. Soprattutto, è un orgoglio pieno di gioia, perché è ricco di tante potenzialità, ricco di tante capacità. Una terra bella, fertile. Le singole violenze che sono successe in questi mesi non devono e non possono annullare quelle che sono le capacità, le espressioni più belle. Il Santo Padre nella visita che farà nel nostro territorio non viene a puntualizzare che questo territorio ha espressioni violente. Viene invece ad aprire una finestra per darci una nuova speranza, una gioia incoraggiate. Sì, siamo un territorio soggetto anche a criminalità, ma la paura più grande non è la criminalità. La paura più grande è girarsi dall’altra parte. Fare il sacerdote qui, se fosse stata una scelta di girarsi dall’altra parte, penso che avremmo dato soltanto voce ad una violenza inaudita. Non dobbiamo avere paura.

D. – Mons. Galantino ha detto: “Bisogna puntare sui giovani, bisogna dare ai giovani di questa terra la speranza ed anche un lavoro certo”…

R. – Sì, ma noi non dobbiamo dare una speranza soltanto a parole. Dobbiamo dare anche una concretezza. A noi il compito di educarli alle responsabilità, di educarli anche al rispetto della lealtà e dell’onestà. Agli organi competenti, quello di saper costruire qualcosa per loro, perché ne hanno bisogno, ne hanno volontà e ne hanno le capacità. Quale gioia più grande sapere che un territorio da risposte di lavoro e non fa scappare i suoi figli.

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Mons. Galantino: Calabria non è uguale 'ndrangheta, ci sono forze sane

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Il Papa viene a trovarci in un territorio che non è estraneo a un certo tipo di violenza, ma la malavita “non è un appannaggio calabrese”, perché esiste una “globalizzazione del male”. Lo afferma il vescovo di Cassano all’Jonio, mons. Nunzio Galantino, che al microfono del nostro inviato, Federico Piana, presenta i motivi della visita di Papa Francesco in Calabria: 

R. – Intanto, non lo accoglierò da solo: quelli prenotati sono oltre 90 mila, ma l’accolgo intanto con un atteggiamento di gratitudine per aver proposto lui stesso di venire qui, a Cassano. Poi, l’accogliamo con l’atteggiamento che si mette in continuità con l’atteggiamento con cui lui stesso viene qui da noi. Lui stesso, scrivendo la lettera alla nostra diocesi, il 28 dicembre, disse che sarebbe venuto per chiedere scusa: per chiedere scusa per aver sottratto il vescovo alla diocesi per qualche giorno, per il servizio alla Conferenza episcopale italiana. Quindi, da una parte gratitudine, dall’altra ci vogliamo anche noi chiedere se abbiamo delle situazione per le quali chiedere scusa, se abbiamo anche noi delle situazioni nelle quali non siamo presenti come Chiesa in maniera credibile.

D. – Quali sono queste situazioni nelle quali lei, come vescovo di questa diocesi, si sente di chiedere scusa?

R. – La prima, secondo me, è chiedere scusa alle tante realtà delle persone povere, alle tante persone in difficoltà, alle tante persone che per un motivo o per un altro vivono veramente questa fatica di portare avanti le loro esistenze. Dall’altra, sicuramente sono i bambini ai quali non sempre assicuriamo un impegno di formazione, un impegno di educazione, di attenzione dovuta. Di sicuro, va chiesto scusa ai giovani per le tante volte in cui non riusciamo a sostenere le loro speranze, a sostenere i loro progetti. Poi, sicuramente, secondo me va chiesto scusa – e questo ha creato un po’ di polemica presso qualcuno, ma io voglio dirlo tranquillamente – anche ai non credenti e agli indifferenti. Ma non come l’ha interpretato qualcuno, qualche cosiddetto tradizionalista, cioè chiedere scusa perché siamo credenti: siamo felicissimi di essere credenti e orgogliosi di essere credenti. Quando io dico dobbiamo chiedere scusa ai non credenti è perché molte volte il nostro modo di vivere l’esperienza di fede non parla a queste persone, non convince queste persone. Quindi, chiedere scusa se molte volte viviamo un’esperienza religiosa ad uso e consumo nostro, ripeto, che non tocca i non credenti e non tocca gli indifferenti.

D. – La malavita, la ‘ndrangheta, i problemi di questo territorio: secondo lei, come si può uscire da questa situazione?

R. – La presenza del malaffare e della malavita non è un appannaggio calabrese, assolutamente: perché c’è una multinazionale del male, c’è una globalizzazione del male. Quindi, stiamo attenti a non concentrare per motivi ideologici – dico io – il male qui. E come si vince il male? Innanzitutto, secondo me, lo si vince facendo delle scelte molto precise che sono scelte positive, scelte di bene, scelte di proposte belle. Bisognerebbe sviluppare un poco di più tutte quelle potenzialità straordinarie che questa comunità, questa zona, questo territorio ha. E tra tutte queste, sicuramente vanno valorizzate le energie giovanili che qui sono tantissime, ma purtroppo non vengono valorizzate o soprattutto non si creano le condizioni per cui possano essere valorizzati. E qui, l’appello va fatto prima di tutto a coloro i quali amministrano la cosa pubblica.

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Visita di Papa Francesco al Gemelli il 27 giugno

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Venerdì 27 giugno Papa Francesco visiterà il Policlinico Gemelli e la Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica, che festeggia cinquant’anni di storia. Il Santo Padre, il cui arrivo presso la sede di Roma è previsto per le ore 15.30, visiterà l'ospedale, incontrerà i malati e, in seguito, celebrerà la Messa nel piazzale antistante la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Francesco è il quinto Pontefice a incontrare la sede romana dell’ateneo, in una storia di amicizia che dura da 50 anni.

Nell’occasione verranno donate da Papa Francesco le reliquie di San Giovanni XXIIII e San Giovanni Paolo II. A salutare il Pontefice saranno il presidente dell’Istituto Toniolo, card. Angelo Scola, e il rettore dell’Università Cattolica, prof. Franco Anelli.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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La droga non si vince con la droga: Papa Francesco ai partecipanti all'International Drug Enforcement Conference.

Alla tavola della libertà: alla Messa del Corpus Domini il Papa indica nel pane eucaristico il vero cibo che sazia la fame dell'uomo.

In prima pagina, il segretario generale Serge-Thomas Bonino sul senso della fede in un documento della Commissione teologica internazionale.

Promessa mantenuta: nell'intervista di Mario Ponzi il vescovo Nunzio Galantino parla della visita del Papa, domani,a Cassano all'Ionio.

Oltre cinquanta milioni di rifugiati nel mondo.

La strategia di Obama: per il presidente statunitense la chiave per risolvere la crisi non è militare ma politica.

Sembrava fragile: Angelo Maffeis su una biografia collettiva di Papa Montini pubblicata dall'Istituto Paolo VI di Brescia.

Sulle ginocchia della madre: il vescovo Marcello Semeraro ripercorre il "sensus Ecclesiae" da De Lubac a Papa Francesco.

Cristina Acidini su Michelangelo l'universale, ai Musei Capitolini.

Quattro artisti e un quartiere: Claudio Toscani recensisce i nuovi racconti di Goncalo Tavares.

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Oggi in Primo Piano



Rifugiati siriani in Libano tra accoglienza e paura

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In Siria non si arresta lo scontro tra oppositori e militari del regime. Un'autobomba è esplosa nel villaggio di al-Hurra, alle porte della città di Hama, nel centro-ovest del Paese. Trentaquattro civili sono morti, altri 50 sono stati feriti. In oltre tre anni di conflitto sono più di 160 mila le vittime, 9 milioni gli sfollati interni ed esterni. In Libano hanno trovato riparo oltre 1 milione e mezzo di rifugiati siriani. Massimiliano Menichetti ha intervistato il prof. Aldo Morrone, direttore della struttura complessa di medicina delle migrazioni del turismo e di dermatologia tropicale dell’istituto San Gallicano, appena rientrato da una missione di assistenza internazionale a Beirut, coordinata insieme alla Chiesa Valdese, Fondazioni locali e l’Associazione Armadilla di Roma: 

R. - Sono stato nel campo profughi di Ketermaya, una cittadina a circa cinquanta chilometri a Sud di Beirut, dove vivono circa 150 mila persone e 50 mila sono i rifugiati provenienti dalla Siria. E’ gestito con la collaborazione di alcune organizzazioni non governative libanesi ed è un campo dove stanno cercando di fare il massimo per garantire l’igiene e la salute delle persone. Certo manca soprattutto l’acqua potabile; mancava il cibo e le case che sono riusciti a costruire sono di cartone e non reggeranno certamente al prossimo inverno. C’è una situazione estremamente difficile, ma anche un grande impegno da parte di tutti, che condividono questa situazione di sofferenza dei siriani.

D. - In generale qual è la situazione dei profughi, che in Libano peraltro sono spesso ospitati anche dalle famiglie libanesi?

R. - Non solo sono ospitati dalle famiglie, ma anche le stesse province e realtà locali aiutano queste persone cedendo il terreno, delle case diroccate che vengono ristrutturate, tant’è vero che si chiamano host communities: non si vedono tendopoli, quanto si vedono queste case dove trovano rifugio, grazie - devo dire - all’impegno di molti libanesi.

D. - I profughi siriani guardano alla Siria con il desiderio di ritornarci o si stanno organizzando per andare via o per restare nei luoghi dove ora sono ospitati come rifugiati?

R. - Circa il 20 per cento dei siriani tenta di andar via definitivamente dal Medio Oriente e di cercare rifugio in Europa o comunque in Paesi dove ci sia pace e prosperità. L’altro 80 per cento invece non può e comunque sceglie di cercare di tornare in Siria: vogliono la pace il prima possibile!

D. - Qual è il messaggio che lei riporta da questo viaggio per quanto riguarda il popolo siriano e il popolo libanese che, in questo momento, vivono insieme?

R. - Il Libano si trova con quasi metà degli abitanti che sono siriani, li ha accolti! Però ovviamente vivono in condizioni di povertà, di difficoltà. Hanno una necessità di uscirne insieme: da una parte il Libano, che deve tornare ad avere un sistema sanitario, un sistema economico che garantisca anche i più poveri; dall’altro i siriani affinché possano tornare a casa. Una delle cose che mi ha colpito è stata questa volontà di solidarietà e di aiuto. Entrambe le popolazioni, siriani e libanesi, hanno un futuro comune: loro ci credono e sperano che l’Occidente, i governi dell’Unione Europea possano aiutarli in questo.

D. - Lei è partito in un’altra missione internazionale, seguiranno altri quattro incontri proprio in Libano: materialmente cosa state cercando di costruire?

R. - Andiamo nei campi profughi per valutare esattamente le condizioni di igiene e le condizioni di salute; secondo, la formazione di community network - cioè di operatori locali - sia siriani sia libanesi, che possano aiutare a fare questa attività di prevenzione delle malattie e contemporaneamente di aiuto socio-sanitario, ma anche psicologico soprattutto per i bambini che sono stati testimoni di situazioni drammatiche, di violenze terribili che hanno dovuto vivere.

D. - Quali sono le patologie più presenti in queste condizioni?

R. - Quelle più drammatiche: la broncopolmonite, l’encefalite, la cheratite; ci sono stati migliaia di casi di morbillo, poliomelite; c’è stata la leishmaniosi; oltre alle malattie croniche che già queste persone vivevano nel loro Paese, come l’ipertensione arteriosa, le gastroenterite. E’ stato segnalato anche il primo caso di Mers, infezione cioè da coronavirus, tipici del Medio Oriente, che è stato confermato che è una nuova forma di Sars.

D. - Lo ribadiamo ancora una volta, il Libano in questa situazione è fortemente gravato dalla realtà siriana?

R. - Il Libano sta chiedendo un aiuto internazionale: non soltanto alle grandi agenzie delle Nazioni Unite, ma ai vari governi perché una situazione già fragile per conto loro sta diventando ancora più fragile. Noi dobbiamo dire che l’80 per cento dei rifrugati siriani si trova in luoghi geografici, in territori dove vivono i libanesi che vivono al di sotto della soglia di povertà…

D. - Da quello che sta dicendo si evince un paradosso molto bello: coloro che sono più svantaggiati, in realtà stanno aiutando coloro che stanno ancora peggio…

R - Devo dire che questo è straordinario! E’ la dimostrazione che la solidarietà, la compassione, la generosità passa effettivamente attraverso le fasce che hanno vissuto o che vivono sulla loro pelle una situazione di grande fragilità. E’ veramente la testimonianza che l’amore, l’attenzione nei confronti dei fratelli più bisognosi raccoglie - devo dire - uomini e donne di tutte le religioni. Il Libano e la Siria sono un crogiolo di religioni e di culture diverse, questo l’ho veramente trovato: è un’espressione straordinaria, un segno dei tempi da cogliere!

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Ucraina: Poroshenko presenta un piano di pace in 14 punti

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Disarmo dei ribelli separatisti filorussi e la promessa di un decentramento del potere ma non il federalismo inizialmente chiesto dal Cremlino. Sono questi alcuni punti del piano di pace annunciato dal presidente ucraino Poroshenko, dopo una telefonata con il suo omologo russo Putin. Intanto, Kiev ha chiuso il confine con la Russia mentre Mosca ha chiarito alla Nato che la concentrazione di truppe alla frontiera ucraina è per garantire un adeguato livello di sicurezza. Come giudicare il piano di pace in 14 punti? Benedetta Capelli lo ha chiesto ad Alessandro Vitale, docente di Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano:

 

R. - Positivamente, perché presenta alcuni elementi che possono portare ad una soluzione del conflitto a bassa intensità che minaccia di trasformarsi in un conflitto con le ingenti forze militari russe. Questo Piano promette di ostacolarlo, di frenarlo. I punti più interessanti - a fianco del Piano di associazione con l’Unione Europea, che rimuove dazi, protezionismi che c’erano sia parte ucraina che da parte dell’Unione Europea - sono i punti sul disarmo, sul salvacondotto per i mercenari, che operano nella parte orientali dell’Ucraina; e in particolare anche i punti che riguardano la decentralizzazione dello Stato e la protezione della lingua russa, tutelata da emendamenti costituzionali, perché questo potrebbe depotenziare l’attacco che la Russia può condurre agevolmente usando le minoranze. 

D. - Ma ci sono altri punti che non sono stati affrontati in questo Piano e che invece sarebbe il caso di prendere in considerazione? 

R. - A me sembra che siano stati toccati i punti principali, che sono quello militare, quello dei confini e soprattutto la questione della federalizzazione, che per la Russia è diventata una priorità anche se viene intesa come federalizzazione di entità federate e monoetniche e la cosa è molto pericolosa. In ogni caso si tratta di un problema che, accanto a quello della lingua di Stato, ha costituito il nocciolo delle questioni, che poi sono esplose con la crisi ucraina. 

D. - Stamane c’è stata questa telefonata Putin-Poroshenko: subito dopo la chiusura del confine ucraino con la Russia. Secondo lei, è l’inizio di un cessate-il-fuoco? 

R. - Questo può essere un problema che ha due facce, perché naturalmente la chiusura di un confine - fra l’altro sembra quasi un’assurdità, perché è un confine lunghissimo, di migliaia di chilometri e quindi difficilmente controllabile - può da una parte essere un irrigidimento e dall’altra, invece, l’inizio di una regolamentazione più chiara di una delimitazione anche dal punto di vista delle operazioni militari e della guerriglia. Bisognerà vedere come anche gli altri punti verranno implementati. Di certo i più significativi sono quelli che riguardano la struttura del Paese, uno Stato unitario del genere fa fatica a funzionare; la questione della lingua e soprattutto delle minoranze, perché continua ad essere il tallone di Achille degli Stati dell’Europa orientale da molto tempo. Se non vengono risolte tali questioni, non si risolverà nemmeno il problema generale. 

D. - Secondo lei, come reagirà la Comunità internazionale anche nei confronti di Mosca, viste le tensioni di questi ultimi mesi?

R. - E’ difficile dirlo, perché Mosca è molto ondivaga: sembra accettare questo piano, bisognerà poi vedere come si svolgeranno gli avvenimenti. Indubbiamente, la Comunità internazionale può fare molto nello stimolare questi piani di pace e soprattutto cambiando - in particolare l’Unione Europea - le politiche che sono state adottate per 20 anni e cioè le politiche di chiusura, di emarginazione dell’Ucraina. Tutto questo, però, senza creare paure al Cremlino e quindi coinvolgendo anche la Russia.

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Sud Sudan: Consiglio delle Chiese chiede rispetto accordi di pace

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Il Consiglio delle Chiese del Sud Sudan lancia un appello sia al presidente Salva Kiir sia al capo dei ribelli Riek Machar a causa del mancato rispetto degli accordi raggiunti e gli inaccettabili ritardi nei negoziati di pace. Nel documento si chiede di porre fine ad “un conflitto insensato” che, scoppiato nel dicembre 2013, impedisce di ricostruire la nazione. Si fa anche riferimento all’accordo per il cessate il fuoco sottoscritto a maggio. Sulla situazione che si sta vivendo nel Sud Sudan, Debora Donnini ha sentito padre Efrem Tresoldi, missionario comboniano e direttore della rivista Nigrizia

R. – Penso che ci sia un continuo dilazionamento delle trattative di pace, che sono state portate avanti con grande difficoltà. Sono stati firmati negoziati di cessate il fuoco, negoziati di pace. I rappresentanti delle comunità di fede - che includono sia le Chiese cristiane ma anche il Consiglio islamico del Sud Sudan – chiedono, appunto, che queste trattative di pace vengano finalmente messe in pratica. Finora, non si è vista ancora una volontà politica di porre fine alle violenze che continuano tutt’oggi in Sud Sudan.

D. – Quindi, si combatte. Perché?

R. – E’ partita come una lotta di potere tra i due rappresentanti, il capo di Stato Salva Kiir e Riek Machar. Quindi, all’inizio è stata una lotta di potere, ma sostanzialmente ciò che sta veramente sotto è la grande ricchezza del petrolio negli Stati settentrionali del Sud Sudan, dove evidentemente c’è stata una maggiore violenza: sono state distrutte città e dove ci sono moltissimi sfollati. Proprio su questo fatto, della ricchezza del petrolio, si sta misurando questa partita sanguinosissima nel Paese; oltre al fatto che ha anche connotati etnici: sappiamo bene, come Salva Kiir rappresenti l’etnia maggioritaria dei dinka e, invece, Riek Machar quella dei nuer. Tuttavia, non è soltanto una guerra a sfondo politico-etnico ma ci sono grossi interessi economici e, in primis, il petrolio.

D. – Nel testo si fa anche riferimento all’impegno per dar vita ad un esecutivo di unità nazionale. Invece, non si riesce…

R. – Sì, esatto. E’ stata ventilata non molto tempo fa. Questa idea sembrava poter dare un po’ di speranza di pace, di trovare un accordo tra le parti belligeranti per un governo di unità nazionale, di transizione, per lo meno. Questo ovvierebbe alla decisione presa in passato di tenere delle elezioni proprio l’anno prossimo. Questo, invece, aveva fatto scatenare questa concorrenza tra le due parti, quelle legate a Riek Machar e quelle legate, appunto, a Salva Kiir che aveva detto di volersi ricandidare mentre Riek Machar pretendeva un cambio al potere. L’idea di fare un governo di unità nazionale transitorio poteva stemperare, per il momento, queste tensioni in vista di maggiori chiarimenti o, per lo meno, rimandare nel tempo la data delle elezioni in modo tale da abbassare il livello di tensione.

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Giornata del rifugiato: 51 milioni in fuga dal loro Paese

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Oggi si celebra la Giornata mondiale del rifugiato e per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra mondiale il numero di chi scappa dalla propria terra ha superato i 50 milioni di persone. La maggior parte sono afghani, siriani e somali. A dirlo è l’Unchr che ha organizzato a Roma l’incontro “Una storia dietro ogni numero”. Maria Gabriella Lanza ha intervistato Laurens Jolles, delegato Unhcr per il sud Europa e Alganesh Fessaha, responsabile dell’Associazione Gandhi: 

R. – Adesso, ci sono 51 milioni di persone sfollate, quindi persone che sono dovute partire dalla loro casa nel Paese stesso, o rifugiate e che quindi sono scappate dal proprio Paese, o richiedenti asilo. Cinquantuno milioni sono tantissimi. Per questo, secondo me, è importante che ci sia almeno una volta all’anno questa Giornata mondiale del Rifugiato, per ricordarci che c’è un grande gruppo di persone che sta veramente male, che soffre e che è dovuto scappare dal proprio Paese e per creare anche un po’ di solidarietà e di comprensione.

D. – In Italia, da gennaio a maggio, sono arrivati sulle nostre coste 58 mila migranti e molti finiscono per vivere in centri sovraffollati, senza possibilità di lavorare. Aspettano anche due anni prima di avere lo status di rifugiato. Come si può garantire a queste persone il diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, all’accoglienza?

R. – Purtroppo, molti di quelli che vediamo nei grandi centri urbani, che vivono in modo anche un po’ indegno – in edifici fatiscenti, occupati, o anche per strada, nelle stazioni – sono persone che hanno già ricevuto lo status, molti di loro. Questa è una cosa molto preoccupante. Quindi, sull’integrazione, il supporto, il sostegno all’integrazione e sull’accoglienza in Italia, in modo specifico, c’è ancora un lungo percorso da fare.

D. – Il tema della giornata di oggi è: “Ogni storia merita di essere ascoltata”. Quindi, andare oltre i numeri…

R. – Non bisogna mai scordarsi che queste 60 mila persone, questi 51 milioni di persone, sono individui che hanno una vita, una vita passata, hanno sofferto, hanno gioie, speranze e sogni. Bisogna anche pensare che tutto quello che facciamo noi per gli altri, un giorno lo faranno forse per noi. Non bisogna mai pensare che noi tutti siamo esenti dal poter essere rifugiati un giorno. In questi 30 anni in cui ho lavorato per l’Unhcr ho visto tante situazioni in cui parlavo con alcuni ministri di vari Paesi e, dopo un po’ di tempo, quelle stesse persone erano rifugiate in un altro Paese. Oppure l’inverso, persone che erano rifugiate, che venivano spesso da me e con cui si parlava, si discuteva, poi diventavano ministri o dottori. Quindi, a tutti può succedere, non è qualcosa che può succedere solo agli altri.

Storie che meritano di essere raccontate, come quelle di Alganesh Fessaha, arrivata in Italia dall’Eritrea, 30 anni fa. Ogg,i aiuta le persone che come lei sono dovute scappare alla propria terra:

"Io sono una rifugiata 'privilegiata', perché sono venuta qui più di 30 anni fa ed il concetto di rifugiato non esisteva. Però, mi occupo dei profughi, dei rifugiati da 12 anni: vado nel Sinai a liberarli dalla mano dei beduini, dalla tratta. Vado lì per liberarli dalle prigioni egiziane e poi lavoro anche nei campi profughi etiopici da più di 12 anni. Noi abbiamo una situazione, per esempio a Milano – io vivo a Milano – dove abbiamo più di 150 persone che dormono nei parchi con la pioggia, con il sole, con il freddo e con il caldo: sono tutti quasi minorenni. L’Italia dovrebbe cambiare la sua legge nei confronti dei rifugiati, perché è inutile dire che diamo asilo politico, asilo umanitario, e poi non dare nessuna assistenza e lasciarli lì dando loro soltanto un pezzo di carta. Spero che giornate come queste diano un frutto. Che ci sia un’apertura da parte delle istituzioni che non vogliono sentire. Spero, quindi, che aprano un po’ di più le orecchie e gli occhi su queste cose".

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Asia Bibi da 5 anni in carcere. Bhatti: rispettare minoranze

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Da cinque anni, Asia Bibi, la donna cattolica pakistana accusata per un presunto caso di blasfemia, è in carcere. Su di lei pende una condanna a morte. Finora i giudici, intimoriti da possibili rappresaglie dei fondamentalisti islamici, si sono sottratti alla responsabilità di decidere sul suo caso. Così Asia, dal 19 giugno 2009, è lontana dai suoi figli e da suo marito. Maria Gabriella Lanza ha intervistato Paul Bhatti, fratello di Shabbaz Bhatti, ministro cattolico pakistano ucciso nel 2011 dopo aver preso le difese di Asia:

 

R. – Asia Bibi è diventata un simbolo. Noi in questo momento però ricordiamo questa figura con un certo dispiacere, in quanto ci sono state tantissime vittime, dopo di lei, e la situazione rimane tale e quale. Anzi, la violenza contro i poveri in Pakistan è aumentata. Allora vorrei che sia ricordato che il Pakistan non deve essere dimenticato e che i musulmani che sono in Pakistan non sono tutti, come si potrebbe pensare, contro i cristiani.

D. – Qual è la situazione delle minoranze religiose in Pakistan?

R. – La situazione dei cristiani o delle minoranze religiose in Pakistan è direttamente proporzionale alla situazione generale del Pakistan. Il Pakistan sta vivendo ora un periodo molto difficile per questioni di sicurezza, per la situazione economica e politica: il Paese è molto fragile. Allora, oltre ai cristiani e alle minoranze, sono state colpite anche molte figure importanti dello Stato. Questa violenza continua a coinvolgere tutto il Pakistan; i più deboli, che sfortunatamente sono i cristiani, chiaramente sono quelli che soffrono di più.

D. – C’è qualcosa che la comunità internazionale può fare per Asia e per tutte quelle persone che non possono professare liberamente la loro religione?

R. – Sì: io credo che prima di tutto bisognerebbe che la comunità internazionale proiettasse la propria attenzione sul Pakistan, sulla necessità di riportare la pace in Pakistan, e questo non si può fare con le Ong, non lo possono fare piccoli gruppi come il nostro, ci vuole un’attenzione come quella della comunità internazionale. Dopo di questo, ci vuole proprio una vera promozione di dialogo interreligioso, non solo di dialogo, ma anche relazioni interreligiose tra le diverse fedi, e particolarmente tra cristiani e musulmani. In Pakistan devono convivere e devono avere rapporti pacifici, nel rispetto gli uni degli altri. E poi, queste false accuse di blasfemia devono avere fine. Noi siamo convinti di continuare la nostra battaglia, nonostante i rischi che stiamo correndo, nonostante le tante difficoltà sia politiche sia economiche che stiamo affrontando: il nostro percorso è quello. Noi vogliamo la libertà religiosa, il rispetto della dignità dell’uomo e giustizia per tutti, uguale e trasparente. Vogliamo che la comunità internazionale e tutti coloro che sono sensibili a questo caso, collaborino con noi affinché possiamo produrre risultati concreti in modo tale da avere pace e una convivenza pacifica con le altre persone.

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Festa europea della musica: ascolto e pratica per tutti

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Coincide con il solstizio d’estate, è un progetto ormai mondiale, coinvolge migliaia di artisti e vuole promuovere la bellezza dell’ascolto e del fare musica insieme. E’ l’odierna Festa europea della Musica giunta alla sua XX edizione. In tutto il mondo, da stasera fino a domenica, si moltiplicano i concerti in ogni parte delle città. Anche l’Italia festeggia e Roma si prepara a diventare un enorme palcoscenico a cielo aperto, tra Musei, chiese, accademie e librerie, come spiega Laura Bruzzaniti coordinatrice della Festa nella capitale, al microfono di Gabriella Ceraso: 

R. – L’idea, è nata in Francia nel 1982 da Jack Lang, ministro della Cultura nell’epoca Mitterrand. Il principio base è quello di dare la possibilità ai musicisti di suonare in tanti spazi delle città ed al pubblico di ascoltare musica di tutti i generi e soprattutto gratuitamente. Il messaggio che questa giornata vuole dare è ricordare un po’ a tutti l’importanza della musica: suggerire, per esempio, ad una delle persone che viene ad ascoltare un concerto, uno strumento che non aveva mai ascoltato; fargli nascere una curiosità per un genere musicale che non aveva mai ascoltato. Secondo me questo è già un successo.

D. – Ricordiamo, però, anche che l’occasione è speciale per gli stessi musicisti: da New York, al Vietnam all’Europa, Roma, Milano, Torino in cui si svolgono queste giornate di festa…

R. – I musicisti che – ricordo – si esibiscono gratuitamente, trovano in questa manifestazione la possibilità di suonare in spazi dove altrimenti gli sarebbe difficile arrivare. Negli anni, per esempio, abbiamo fatto musica negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze, nei cortili, nelle biblioteche; dalla musica popolare del Mediterraneo, alla musica medioevale, dalla musica barocca al rock; strumenti anche insoliti per esempio c’è la fisarmonica bayan di origine russa.

D. – C’è anche l’opportunità di partecipare a lezioni aperte…

R. – Infatti, da alcuni anni, abbiamo diverse scuole che propongono laboratori per musicisti, o mini lezioni di strumento perché, un altro dei principi ispiratori di questa manifestazione, ed anche il motto della festa in Francia, è “Fate la musica”. Quindi, un approccio alla musica non solo passivo, come ascoltatori, ma anche attivo: avvicinarsi allo studio ed alla pratica musicale.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi maroniti: senza presidente, Libano esposto a pericoli

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La scelta dei parlamentari libanesi che disertano le sessioni parlamentari convocate per l'elezione del nuovo presidente espone il Libano a un “grande pericolo”. Lo scrivono in un messaggio i vescovi maroniti, che individuano questo rischio in particolare negli “sviluppi regionali che rischiano di cambiare la carta del Medio Oriente e di smantellare gli Stati”.

L’affermazione dei presuli, riferita dalla Fides, è contenuta in una dichiarazione diffusa alla fine del Sinodo annuale, svoltosi nella sede patriarcale di Bkerkè dall'11 al 19 giugno scorsi. La perdurante assenza di un nuovo presidente, asseriscono i vescovi  libanesi, “simboleggia l'assenza dello Stato, e mette in pericolo l'unità del Paese così come la sua sicurezza e la sua economia”.

Il Libano è senza Presidente dal 25 maggio, giorno in cui è terminato il mandato di Michel Sleiman. Finora le 7 sessioni convocate per eleggere il nuovo Capo dello Stato non hanno raggiunto il quorum necessario dei votanti, soprattutto perché i parlamentari legati alla Coalizione “8 marzo” - che comprende anche il Partito sciita Hezbollah - hanno deciso di non partecipare alle votazioni in assenza di un accordo preliminare su un candidato in grado di raccogliere larghi consensi in entrambi i blocchi politici che paralizzano con le loro contrapposizioni la vita politica e istituzionale del Paese.

Nel comunicato, i vescovi maroniti sottolineano che la visita del patriarca Bechara Rai “ha acceso speranze per una soluzione della questione dei libanesi esiliati in Israele”, mostrando che “lo spirito di riconciliazione tra i cittadini del Paese è possibile”, così come la capacità di chiudere definitivamente la pagina della guerra civile.

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India: inaugurato Santuario del Sacro Cuore di Gesù

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È stato inaugurato in questi giorni, in India, il Santuario dell’Istituto teologico “Sacro Cuore” di Shillong, Meghalaya. A presiedere l’inaugurazione - riferisce l’agenzia salesiana Ans - è stato don George Maliekal, ispettore salesiano di Silchar. Il luogo di culto è stato intitolato al Sacro Cuore di Gesù da mons. Dominic Jala, arcivescovo di Shillong, durante una solenne celebrazione eucaristica. Dopo la Messa, varie comunità religiose e la comunità parrocchiale di Mawlai hanno programmato un tempo per l’Adorazione Eucaristica; nel primo pomeriggio l’adorazione è stata aperta a tutti i fedeli e la funzione è terminata con la solenne benedizione. In totale, riferisce l’agenzia salesiana, circa 4 mila persone hanno preso parte alla giornata di festa.

Alla costruzione del Santuario hanno partecipato attivamente, con impegno diretto, preghiere e contributi, anche molti devoti al Sacro Cuore nella regione. Anche se il Santuario è il centro preghiere della Comunità dell’Istituto teologico del Sacro Cuore, esso rimane aperto per l’Adorazione Eucaristica, le Messe e i ritiri mensili delle comunità parrocchiali e religiose che ne fanno richiesta; il Santuario attira fedeli sia della aree circostanti, sia dalle zone più lontane, durante tutto l’anno e in particolare durante il mese di giugno, dedicato al Sacro Cuore di Gesù. (A.G.)

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Paraguay: 150 mila persone colpite da esondazione Paranà e Iguazu

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In Paraguay, sono 150 mila le persone colpite dall’esondazione dei fiumi Paranà e Iguazu. Il numero è destinato a salire. Si stima una crescita dei livelli dei fiumi, nei prossimi giorni, che potrebbe aumentare il numero di sfollati (si parla di 30 mila famiglie a rischio). L’epicentro dell’esondazione è Asunción. Il team di Sos Villaggi dei Bambini Paraguay ha visitato le zone colpite scoprendo che i beneficiari dei programmi di rafforzamento familiari hanno perso tutto: 350 sono i bambini in difficoltà.

“Molte delle nostre famiglie – afferma l’Ong – hanno trovato rifugio nelle città vicine, altre sono state trasferite nei centri di accoglienza temporanea”. 4 Centri Sociali Sos sono stati duramente colpiti dalle inondazioni, 3 sono stati trasferiti in altre strutture e quello di Abejita, a Tablada, ha dovuto limitare le sue attività. A Bañados Tacumbú e nella zona settentrionale di Tablada, i bambini presentano infezioni e soffrono di bronchiti. Il governo del Paraguay e le organizzazioni locali parlano di emergenza sanitaria. (A.G.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 171

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.